venerdì 11 agosto 2017

Quarantaduesima e quarantatreesima tappa. Dormire in un container sull'autostrada, la poetica del labor limae. Achinsk, tra pioggia e nebbia, e il krai di Krasnoyarsk.



Uno dei miei giochi preferiti, da bambina, era quello di costruire delle casette (invero dei bunker) con i cuscini del divano e le lenzuola, oppure con le pagine gialle cartacee (ah, gli anni ’90) impilate come mattoni, o ancora dentro all’armadio grande o nel sottoscala, con le cassette della frutta. Si manifestava così una mia ricerca di spazi privati e separati che mi ha portata, in età più matura (ma non più saggia) a pensare di andare a vivere in camper o in una mobilhome da spostare da un bosco all’altro nelle periferie del milanese. Tutte queste mie belle idee sono sempre state viste di cattivo occhio, come è giusto che sia, dalla mia famiglia; la casetta nell’armadio “no perché soffochi” diceva la nonna, la mobilhome “no perché ti arrestano” diceva la mamma, e forse avevano ragione. Ma ieri ho dormito in una cosa ancor più piccola, pencolante e arraffazzonata di qualunque fortino costruito con gli scatoloni. Ieri ho dormito in un container sull’autostrada, nella piazzola di un benzinaio. 



E vi dirò, se escludiamo la mancanza di acqua corrente (ergo di qualunque forma di sanitario, dal cesso alla doccia) e la comparsa alle sei del mattino, a un metro da me, di un uomo in mimetica (dopo vi spiego), son stata gran bene. 




Perché a me piacciono le cose minimaliste. Mi piace l’idea che per due mesi tutto ciò di cui ho bisogno sta in due borse che pesano al massimo 25kg. Mi piace aver solo un paio di scarpe, una felpa, un kway, due magliette e due paia di pantaloni e fine del guardaroba. Mi piace non esser vincolata alle cose, non aver roba di troppo, non essere appesantita da tutta quella pletora di oggetti inutili di cui ci circondiamo nella foga compulsiva del consumismo. E quindi anche dormire in un parallelepipedo di metallo, con un letto, un comodino, una stufina elettrica (che ho lasciato accesa tutta notte perché sì, fa freddo), un secchio (e una tv ovviamente: come vi dicevo, per i russi la tv è ben più essenziale del water) non mi dispiace affatto. C’è tutto ciò che serve, né più, né meno. In quel Vangelo dei poveri che è Il piccolo principe si dice che “l’essenziale è invisibile agli occhi, non si vede bene che col cuore”, ed è vero. Questione di labor limae, di eliminare, espungere, lasciarsi alle spalle quel che è di troppo. Alleggerirsi. Quindi ieri ho dormito qui, fuori da Itatskij, a un soffio dal confine tra l’oblast di Kemerovo il krai di Krasnoyarsk. Quando ho chiesto se ci fosse il bagno, mi è stato risposto che “toilette na ulitsa”, cioè sulla strada, cioè un baracchino di legno con dentro niente, se non un buco in terra. E le mosche. E la dush? In tutta il risposta la proprietaria, per altro gentilissima, fa saettare l’indice verso un angolo della mia suite. 



Ah, deh, non l’avevo vista, spasiba. Diciamo bene ma non benissimo, ovvero: ci si scrosta il fango dalle gambe e poi per oggi ci si lava domani. La doccia resta un vizio borghese.
Come io sia arrivata qui è ben facile da spiegare: a nuoto. Durante la notte aveva piovuto tantissimo, con un vento rabbioso e acqua a cascate, tanto da impedirmi il sonno per il rumore assordante sul tetto in lamiera, i tuoni da shell-shock syndrome (io soffro troppo i rumori forti, sono proprio una volpe) e gli ululati del vento che pareva volesse portarsi via la casa come nel mago di Oz. Al mattino ancora pioveva e pioveva, e questa è la mia espressione nel momento in cui ho deciso comunque di uscire per non fare troppo tardi. Il fumetto con l’esplicito contenuto del pensiero è stato censurato perché troppo volgare.



E così, tra maglia termica, scaldacollo, antipioggia e grani di rosario mi son rimessa in strada, sotto una pioggia finissima, fredda, e affilata, buttata con forza negli occhi e sul viso dal vento, ovviamente contrario. Da Mariinsk sono uscita in fretta perché la città si sviluppa tutta a ridosso dell’autostrada; ho attraversato il Kiya che pareva d’alluminio come il cielo e mi sono lanciata nei soliti, immancabili saliscendi che ormai mi accompagnano da giorni e si faranno sempre più lunghi e ripidi, quindi non parliamone troppo male, per ora.




 Non so perché ma la fatica di queste colline, resa così acuta da Eolo che mi è avverso, nemmeno fossi davvero Ulisse, mi fa pensare alla fisica; lo avete notato già le tappe scorse. Ieri ho avuto in testa tutto il giorno quei disegnetti che si facevano per risolvere i problemi dell’accelerazione e dell’attrito, con la biglia che rotola giù dal piano inclinato. La biglia rotola giù. Io arranco su. Sono la biglia anarchica che inverte la direzione e risale. Che fatica però. Quanti piani inclinati. Ma chi ce li ha messi qui tutti uno dopo l’altro? 





Ogni tanto la pioggia dava tregua, per poi tornare e riandarsene. C’è di buono che non sono finita in temporaloni aggressivi come quelli sugli Urali, che impedivano del tutto la visibilità. Qui è stato un gelido, anestetizzante scivolare come una serpe di fiume sulla superficie grigia e lucida delle cose. Grigio tutto: il cielo, la strada, quasi anche la natura intorno, avviluppata in questa patina d’acqua e piombo. In tutto questo non avevo bene idea di dove mi sarei potuta fermare.







 Tra Mariinsk ed Achinsk, dove sono ora, ci sono circa 200km con in mezzo poco o nulla. Mi risultava un paesotto a 130km da Mariinsk, Bogotol, ma che lì ci fossero strutture era tutto da dimostrare. Su Google maps si vedeva questa roba qui, in concomitanza con un Kafè tal dei tali, sulla strada; era l’unica cosa simile a un albergo, in mezzo a casine in legno e qualche fattoria. 



Ma mi puzzava di fregatura. E infatti lo sarebbe stato, come ho potuto appurare oggi passandoci davanti. Non so cosa sia, una pagoda, un abuso edilizio mai sanato, una follia morta a metà… ma un hotel no di certo. Sicchè speravo di trovare qualcosa prima di Bogotol, ma davvero non risultava nulla. Con le immagini del satellite su maps avevo visto, qui dove poi mi son fermata, qualcosa di possibile, un piccolo forse buttato lì sulla strada. Ma che davvero fosse l’ho potuto scoprire solo in loco. Quando ben sono arrivata, tra l’altro già stanca a causa del vento, e ho letto la magica insegna Kafè sauna gostinitsa ero la persona più felice del mondo. 





A 95km percorsi, con 96km davanti per arrivare ad Achinsk. Esattamente in mezzo, nella perfetta metà. Sono segni divini, sono messaggi dal cielo. “Fermati!” dicono. E chi prosegue. Dunque è così che si è conclusa la tappa di ieri, a 3km dal confine con la nuova regione che attraverserò. Per altro, lì al kafè, pur vuoto e deserto in ogni senso, scaffali tristi compresi, la scelta era minima ma si cenava benone. Ieri è andata così: insalate e insalatine russe con smetana e maionese a vangate, frittella di cipolle e verdura ignota, molto unta, con aggiunta, perché non era abbastanza grassa, di panna acida, e pane nero ancora caldo. 





Poi mi sono goduta lo spettacolo del tramonto, con il sole che, mannaggia a lui, fa capolino solo al crepuscolo, e mi sono ritirata nel mio bel container. 




Ho pure dormito da dio, non fosse che, alle 6, ho iniziato a sentir rumori strani, come di uno che bussa alla porta. Premetto che la porta della mia suite non era chiusa a chiave perché mancava di serratura funzionante. Nel dormiveglia sentivo questi colpi leggeri sulla lamiera esterna e pensavo fosse il vento, o la pioggia, o qualche camionista a trafficare sul motore in panne. Poi, alle 6.20, dopo qualche colpetto ancora, la porta si spalanca e mi trovo in “camera” un uomo in mimetica e anfibi. Si spaventa quasi più lui di me, nel vedermi lì sul letto (e dir che ero vestita di tutto punto). Riconosco in lui la guardia notturna con cui avevo scambiato quattro chiacchiere la sera prima e che avevo visto sbaciucchiarsi la cameriera nel retro del kafè. Con aria non assonnata, di più, mi chiede: “A che ora vai via? Credevo fossi già partita, non vedevo più la bici”. “Alle 10, più o meno”. “Ok” e chiude la porta e se ne va, deluso per la mia presenza (ancora qui sto?) e per non potersi sdraiare lui un attimo, prima di smontare.
Due ore dopo sono di nuovo nel kafè, per la colazione dei campioni (insalatine, caffè, pane, due barrette aggiunte dopo a rinforzino).



Il sole è sparito di nuovo e mi costringe ad usare il linguaggio internazionale dei segni. Ma che, oh! 



Pare funzioni: durante la giornata poi rifarà capolino più volte dalle nuvole.
Nel giro di poco attraverso l’agognato confine. 






Ora sono finalmente nel krai di Krasnoyark, città in cui arriverò tra domani e dopo. No Krasnoiyarsk no krai… In realtà quel krai non sta per il piangere che si fa a pedalare controvento, che pure c’è e vuol ributtarmi indietro, né per le lacrime versate in salita, soprattutto quando la strada è tutta scassata, esplosa, rivoltata di buche e solchi e sassi e fango. Krai sta per territorio, ed è una suddivisione amministrativa della Federazione russa al pari di repubbliche, città federali e oblast, tant’è che a sua volta è diviso in rajon, come tutte le entità appena elencate. Il territorio di Krasnoyarsk è enorme, il 14% della Russia, il più grande al suo interno, 2,3 milioni di km quadri, 7 volte e mezza l’Italia. Ed è quasi del tutto disabitato (2 milioni di abitanti), soprattutto a nord, nella fetta che sta nel circolo polare. Quasi tutta la popolazione e l’attività umana si concentra qui, nel sud, dove sorgono le città più antiche e più grandi, dove passano la Transiberiana e l’autostrada, dove il clima permette di sopravvivere. Qui ci sono tracce di insediamenti che risalgono addirittura a 40.000 anni fa; infatti fuori Achinsk, dove mi trovo ora, c’è sito di caverne con pitture rupestri. Di qui, nel VII secolo a.C sono passati gli sciti, di cui son state trovate numerose tombe. Poi vi si stabilirono i tartari Chulym, quelli di cui s’è detto in merito a Mariinsk e, dal Seicento, i russi, che fecero sparire tutto ciò che russo non era. A difesa delle strade e delle carovane furono costruiti forti e avamposti, gestiti perlopiù da manipoli di cosacchi, che poi divennero città. Questo luogo di monti e foreste fu usato, sia in epoca zarista che comunista come area di deportazioni; sia Lenin sia Stalin furono esiliati qui (il primo tra 1897 e 1900, il secondo nel 1903); quest’ultimo prese nota di quanto subito e fece sorgere un’intera costellazione di gulag nella regione. Quanto a economia, è uno dei territori più ricchi di risorse minerarie e gran parte dell’industria è mossa da questo settore. Infatti le città sono tendenzialmente molto inquinate, e ne ho le prove tangibili. La popolazione è a stragrande maggioranza russa, atea, operaia e dura come sono la terra gelata, il cemento e l’acciaio.
Insomma, un gran krai.
Passato il confine ho pedalato nell’ormai consueto su-e-giù-e-su-e-giù, con però una vista panoramica mozzafiato sui rilievi circostanti che scorrono all’orizzonte alla velocità del mio respiro.







Poi ho incontrato lui, Vitja. Il sosia di Joe, il poliziotto in carrozza dei Griffin. 



Andava in direzione opposta alla mia, a bordo autostrada, e ha fatto segno di fermarmi. In un baleno mi ha raggiunta e coinvolta in un video per il suo profilo di Vkontakte, chiedendomi di dire delle cose in italiano; solo dopo abbiamo chiacchierato un po’, mi ha spiegato che stava facendo una prova: andare da Achinsk a Bogotol (70km) per vedere quanto ci vuole, perché per lui è un casino prendere l’autobus, non son mica quelli belli moderni senza barriere architettoniche. E allora voleva fare questa prova ed è partito ieri ma ci sta mettendo un po’ troppo per farlo sempre. Grande Vitja, è sempre da un autobus che non riusciamo a prendere, o che perdiamo, che partiamo per le avventure più grandi. E via di nuovo, ognuno nel proprio viaggio, verso la propria meta.
Io ci sono arrivata non molto dopo, ad Achinsk. La cosa assurda è che, da 20km prima della città, è calata una nebbia lattiginosa e bianchissima, surreale, da mattina di novembre fuori Milano.





In quest’aria di latte polveroso mi sono inoltrata verso il paese, attraversando il Chulym



per scoprire che, ahimè, non si tratta di nebbia, ma dei fumi di scarico emessi da enormi ciminiere di un’industria mostruosamente grande, che mangia acqua e terra e aria e vomita inquinamento bianco come la morte.
Il fumo non ha alcun odore, e questo inquieta ulteriormente.





Achinsk è una di quelle città tutte d’industrie (si produce cemento, allumina ricavata dai rifiuti, metallo lavorato) e raffinerie che vive della ricchezza di risorse del sottosuolo. E muore soffocata da se stessa. E’ abitata da oltre ventimila anni, come dimostrano le caverne con tracce di presenza umana che stanno fuori città. L’insediamento moderno è stato però fondato nel 1641 come ostrog, roccaforte in legno, di cosacchi che dovevano presidiare la strada commerciale per Tomsk; lo stemma cittadino ancora lo dimostra, con il suo arco e la sua faretra che campeggiano su fondo rosso. Dopo un incendio, nel 1683 la roccaforte fu spostata sulle rive del Chulym, affluente dell’Ob, dove ora sorge la città, che prende il nome dalla popolazione di etnia turca che viveva qui, gli Achi. La fortezza, con le sue torri e la sua chiesa, attirò contadini e mercanti, aumentarono gli abitanti e i servizi e, nel 1782, venne dichiarata città. Dopo la costruzione della Transiberiana, poi la popolazione crebbe ulteriormente di pari passo con l’economia, e nell’epoca sovietica l’andamento fu simile per le numerose industrie qui aperte.
Da vedere non c’è poi molto, qui ad Achinsk, nella nebbia di latte che tutto avvolge e comprime. Ci sono l’azzurrissima chiesa di Kazan, che festeggia quest’anno il suo 175° anniversario




 la piazza centrale con la sede del municipio, pochissimo sovietica, con tanto di Lenin davanti a far la guardia a quel che resta della rivoluzione.




E poi c’è l’hotel-sauna Viktorija, che è fin troppo di lusso per i miei standard, ma va bene così. Dal container a qui, e viceversa, è un attimo.





La cosa interessante è il quartierino a cinque stelle in cui l’hotel sorge, tra carcasse di vecchie industrie e macerie, auto sventrate e pub di dubbio gusto.





Domani mi aspetta una colazione misteriosa, ordinata alla cieca prima, con le borse in mano sulle scale, che potrebbe consistere in ravioli alla marmellata ma forse ho capito male perché qual quadra non cosa. E poi, nella peggiore delle ipotesi, una tappa lunga lunga e tutta in saliscendi. Se riesco, però, accorcio un po’ domani e allungo il tratto brevissimo di dopodomani. La meta resta, comunque, Krasnoyarsk, capoluogo del territorio, sconosciuto e tutto da esplorare.
Intanto si brinda con l'acqua "Argento di Siberia"! 








4 commenti:

  1. Ciao ! Che bel posto da depressione !:)

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  2. Sempre bellissimi i tuoi racconti. Buon proseguimento!

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  3. Conosco bene le casette costruite, a casa mia, con i cuscini del divano e le lenzuola, ma non conoscevo il paesaggio naturale del Krai d Krasnoyark; le foto sembrano quadri dipinti da mani molto esperte. Un abbraccio. Sila

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  4. Nei tuoi racconti c'è sempre una parte piccola che porta ad una riflessione grande, come il "labor limae" da "In quel Vangelo..." fino ad "...Alleggerirsi". Ciao. Sila

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