mercoledì 16 agosto 2017

Quarantasettesima e quarantottesima tappa. I due tipi di siberiani, le mucche in autostrada, qualche sfiga e gli attimi eterni scritti nell'ombra. Da Ujar a Kansk e a Nizhny Ingash




Fortuna che, a parte gli Urali e la Mongolia, mi immaginavo questo viaggio fondamentalmente in piano! Che belle le illusioni che accarezziamo piano per non svegliarle, per non svelarle e scoprire quanto poco siano aderenti al vero e frutto solo di un ottimismo tipico di quando si è a casa, con il culo sulla sedia, al comodo.
La tappa di ieri, Ferragosto, è stata veramente faticosa, infinita, lunghissima. I kilometri eran sempre davanti e mai dietro alle spalle, sempre ancora tanti, troppi, e intanto passavano le ore. Ho proprio avuto l’impressione che il tempo si dilatasse, smagliandosi e stirandosi in strappi di luce via via più obliqua e ramata. I motivi son presto detti: vento contrario a stecca e teso, salite, strada sfasciata e a tratti impercorribile.
E quando dico impercorribile, intendo proprio da fare a piedi. Ora vi do l’immagine definitiva della frustrazione: siccome qui son tutte salite e discese che si susseguono una dopo l’altra, quando si scende è bene prendere molta velocità in modo da guadagnare almeno una parte della successiva rampa. Ma in discesa la strada è sventrata, esplosa, con sassi enormi e sabbia, fango, cocci. E quindi devi scendere piano, con il freno tirato, pianissimo, sempre più piano, a volte addirittura procedendo a piedi. Così da arrivare all’inizio della nuova salita praticamente fermi. E via così, da una discesa castrata a un’altra salita.
Oltretutto son stata costretta a cambiare il percorso della traccia, studiato con cura da cartografo napoleonico, a causa del pessimo stato del fondo stradale. Avevo infatti pensato di lasciare l’autostrada, stretta, trafficata e pericolosa per gli spostamenti d’aria causati dai tir, per una strada secondaria che passava nei paesi, era più corta e con molto meno dislivello (correva ai piedi delle colline, senza tagliarle a metà, come fa invece la principale). I primi 30km circa sono stati effettivamente così, piacevoli e tranquilli, tra paesini, boschi e laghetti.




Poi, ahimè, la strada è diventata un sentiero di fango spesso, sabbie mobili impercorribili, e m’è toccato tornare a riprendere l’autostrada, facendo kilometri e salite inutili, sempre controvento. Che fastidio.
Quanta sia stata la fatica lo dimostrano anche il numero di soste e di barrette fiocinate, cosa per me inconsueta. Di solito sono a bassissimo consumo e, finchè sono in sella, tendo a non mangiare quasi nulla, perché non ne ho bisogno ed evito problemini di reflusso e altre belle cose così.
Ieri invece no, ero sempre sull’orlo del calo di zuccheri, molle, una volpe di gelatina semitrasparente. Troppa fatica, tra tutto.
Quando poi ho pensato che peggio di così era difficile che andasse (la pioggia era esclusa, visto il cielo azzurro) sono pure comparse mucche e pecore sull’autostrada. Il che non mi stupisce più. 







Ma mentre ero ferma all’ennesima sosta, ad osservare gli slalom dei tir e delle auto per evitare gli animali in mezzo alla carreggiata, un tizio in jeeppone quasi investe un agnello, inchiodando all’ultimo e fermandosi ad inveire contro i pastori, accoccolati dietro al guard-rail. Ne nasce una mezza rissa in mezzo all’autostrada, manate, urla e spintoni, mentre le auto strombazzano perché, in effetti, se stai andando a 130km/h e ti trovi improvvisamente davanti mucche, pecore, due pastori e un fighetto (uno tsar-ro) che se le danno, un po’ alla sprovvista vieni pur colto. Fortuna non "hanno uscito 'o kalash'".
I paesaggi non son stati molto diversi da quelli di ieri, solo un po’ meno selvatici e con più aree agricole.






e altri mille...



L’unica città grandina incrociata è stata Borodino, che non è quella famosa per la battaglia in cui Kutuzov fece perdere a Napoleone, che pur vinse, oltre 80.000 uomini (di russi sul campo ne restarono “solo” 50.000), raccontata in Guerra e pace. Da quella sono passata l’anno scorso. Questa Borodino, invece, è stata fondata nel 1949 come insediamento per i minatori impegnati a violentare il ricco bacino carbonifero che riposa in quest’area dei monti Saiani. Ha ricevuto lo status di città solo nel 1981 e, su questa terrazza panoramica che accoglie chi arriva, c’è un monumento che piacerebbe molto a Salvini: un’immensa ruspa in ghisa con i colori della bandiera russa. In compenso, c'è una Trattoria Lenin che è un spettacolo. Direi che è tutto chiaro.





La mia meta, così sudata, così desiderata per ore di fatica lenta e viscosa, era però Kansk.



Dovrebbe essere una bella cittadina. Dico dovrebbe perché una malaugurata serie di sfortunati eventi mi han costretta ad uscirne rapida come una freccia delle avanguardie dell’Orda d’oro. E’ stata fondata nel 1628 come roccaforte, presidiata dall’ormai solita milizia cosacca che doveva proteggere le strade e le stazioni di posta dagli attacchi dei nomadi mongoli e kyrgizi. Poi s’è scoperto il giacimento di lignite e carbone, è arrivata la strada da Mosca e pure, a fine Ottocento, la ferrovia. La città era già molto sviluppata, con numerose fabbriche (cuoio, sapone, vodka, cera, lavorazione dei minerali), scuole e persino, dal 1911, il cinema Furor (oggi museo di storia locale), comparso qui prima della biblioteca pubblica. Durante la Seconda guerra mondiale Stalin spostò qui grossi impianti di produzione tessile e alimentare, che poi son rimasti, e furono aperti ben 5 immensi ospedali militari, chè i feriti arrivavano a vagonate dal fronte. La città si sviluppò ulteriormente come centro industriale fino agli anni Ottanta, raggiungendo gli attuali 100.000 abitanti. Ha ospitato, fino a una manciata di anni fa, anche una base dell’aeronautica militare.



 La città è nota anche per i gulag e i campi di lavoro in cui son finite migliaia di anime, prima sotto gli zar, dai decabristi ai marxisti, poi sotto il regime sovietico, in particolare, nemmeno a dirlo, con Stalin. Oggi, nonostante tutto, potrebbe essere una città carina, con il suo arco di trionfo e le poche schegge di fiume Kan che si intravedono dal ponte, se solo non mi avesse tirato un altro pacco con gli alberghi.




Dopo la tappa campale, che davvero non vedevo l’ora finisse perché ero bollita dalla fatica e disseccata dal vento, m’è pure toccata la sorpresina finale.
Puntavo alla gostinitsa Sibir’, nome che porta evidentemente sfiga per gli alloggi (si chiamava così anche quella dei bimbi randagi), immenso blocco in cemento tanto brutto quanto grande e facile da trovare, in pieno centro. Arrivo, entro tutta feliciona e, in due parole, la rospaccia platinata della reception, sgarbata e gonfia, mi fa incrinare il sorriso sul volto: “Niet miesto”. Non c’è posto. Ma dai. Ma che significa. Ma sei sicura? A Kansk, qui, in questo bucio de culo di una terra dura e inospitale, così tanta gente da riempire un hotel? Da. E che sfiga. Dopo molto insistere, il biondo batrace mi dà l’indirizzo di un’altra struttura, a 4km circa, tale Medved (orso), fuori dal paese. La trovo anche su Google e via che riparto, con l’ansietta che sale e sale.
I 4km, tra l’altro, erano tutti di strada devastata dai lavori in corso, praticamente da fare con la bici a mano. Ha anche iniziato a piovere. Mancava davvero solo il lamento di un violino triste in lontananza. Raggiungo finalmente il Medved, che è il classico motel sulla strada, e, una volta dentro, prima che io proferisca verbo, vengo bloccata sull’uscio da un “Niet miesto” di un secondo batrace, sosia di quello del Sibir. Non ci posso credere. Ma un divano, una poltrona, un anfratto, un tavolaccio? Niet miesto. E che cazzo.
A quel punto ho avuto, per un attimo, una frazione di secondo, un totale crollo. Stava facendo buio. Ero troppo stanca per fare altri kilometri. Pioveva. La strada era tutta a salite e buche e sassi. Ma dai. Perché devo essere così sfigata? E adesso? Dormo qui al bar che è aperto 24 ore? E se poi mi cacciano prendendomi per una barbona? Ma sono, fino a prova contraria, una senzatetto, adesso. Cerco un taxi? Trovarne uno che porti la bici, qui e quest’ora, è impresa quasi impossibile. E intanto la disperazione monta e fa perder lucidità, tutto si annebbia, si annacqua, e la confusione grigia e opaca sale e sale e confonde ogni cosa. Per fortuna io sono strutturata come certe navi, con le porte stagne e impermeabili da chiudere per limitare le falle, per contenere l’acqua che entra dalle ferite aperte sullo scafo. Se imbarco acqua di disperazione e inizio a inclinarmi, molto, molto prima di lasciarmi affondare, chiudo ermeticamente la porta da cui entra la paura e guadagno tempo e lucidità per trovare un porto dove condurre in salvo la nave, cioè moi.
Con molta, moltissima calma ho chiesto alla brava rospa se ci fossero altri motel sulla strada e lei mi ha risposto che sì, a 800 metri sulla destra c’era l’Uyut. Cerco su Google e mi risulta sia solo un kafè, che per altro sta per chiudere. Le spiego il problema e lei ribadisce che no, ha anche le stanze. Ok. Sperem. Rimonto in sella e faccio gli ultimi, questa volta davvero, metri della giornata, arrancando nella sabbia fradicia che si mangia le ruote della Signora.
Mi si para davanti una struttura bella, tutta a fiori e piante, finestre e tendine. Un paradiso ritrovato. “Siate buoni non ditemi che non c’è posto o è chiuso o altri cazzi per favore per favore accogliete una volpe stanca per favore non ho dove andare e fa buio ormai e freddo per favore” pensavo entrando. Dopo qualche attimo di panico in cui l’anziana e occhialuta receptionist mi ha guardata come se fossi una folle di dio a chiederle se avesse una stanza, mi dice che sì, certo, c’è posto per me, c’è il garage per bici. Signora con gli occhiali, ti amo tantissimo.


potenti mezzi in parata


In breve prendo possesso della camera e, per di più, mi viene portata la cena in stanza perché il ristorante sta chiudendo. Sicchè cuoca, cameriera, receptionist e altre clienti di mezza età un po’ brille mi adottano e mi coccolano in tutti i modi, tra cibo, chiacchiere, complimenti e aiuto concreto nel portare i bagagli. La cosa si ripete anche la mattina successiva, con colazione dello chef a base di pane, cotechino e burro. Una roba leggera.

la cena: pesce pressochè intero fritto, purè, insalata a tocchi grossi di ver-dura, pane






Ciò mi ha dato ulteriore conferma dell’impressione raccolta i giorni scorsi in merito alla gente di questa Siberia sempre più difficile e disumana: la durezza e le asperità dei luoghi, del clima, della storia di sangue e cemento e di un’economia che ride solo a pochi (perché la Rivoluzione è fallita sì) sono una lama affilatissima che divide le persone in due gruppi ben distinti. Da un lato stanno coloro che hanno accettato la durezza e si sono adeguati ad essa, diventando a loro volto cemento e acciaio, ghiaccio e pietra. Gli stronzi. Dall’altro ci sono quelli che, invece, proprio reagendo alla difficoltà di essere esseri umani da queste parti, rispondo al freddo con il calore, con l’accoglienza, con la gentilezza. Per me, per la mia tenuta psicologica e fisica, è indispensabile avere a che fare con i secondi, ed evitare come la peste i primi. D’ora in avanti una delle grosse difficoltà sarà questa: imparare a distinguere le ombre sui volti, intuire con le vibrisse di volpe dove stiano coloro di cui ci si può fidare, perché ancora umani e capaci di sentire i bisogni del prossimo, e tenermi alla larga dagli anaffettivi, dagli indifferenti, da coloro che, per i rigidi inverni e la molta fatica, hanno ormai il cuore di ghisa.




La tappa di oggi, per fortuna, è stata breve. Salite e vento contro ci han provato di nuovo a rendermi impossibile il viaggio, ma sono arrivata a destinazione prima della stanchezza. Avevo bisogno di ricaricare le batterie ed è stata l’occasione per fare un po’ di kilometri d’avvicinamento a Tajset, meta di domani. Dovrò partir presto, perché, uscendo dal krai di Krasnoyarsk ed entrando nell’oblast di Irkutsk (ebbene sì, che bello! Il Bajkal si avvicina… O meglio, sono io che mi avvicino al Bajkal!) perderò ancora un’ora a causa del fuso. E’ l’ultima volta che sposto in avanti le lancette. Poi ci sarà il frastuono del rewind di 6 ore tornando a casa, ma questa è un’altra storia.
Da Kansk si esce così, con un Lenin che dice: "Ma che bel tempo di merda anche oggi!"

Dunque oggi pochi kilometri, tutti nel verde verdissimo dei boschi dei Saiani, in un continuo bisbigliare d’argento delle foglie. Luce di latte, cielo bianco e azzurro a strappi, rami, gocce di luce, linfa che corre nelle vene dei tronchi. 









Pedalando ho visto la mia ombra, di lato, a terra, spostarsi in questo ambiente surreale, così altro, così lontano. Ho avuto un brivido di consapevolezza che questi attimi sono eterni, ormai, nel loro effimero divenire, eterni per me che son misura di tutte le cose, eterni sotto la pelle e impressi nell’iride, scritti sulle linee lunghe del palmo della mano. Eterni, attimi già fuggiti, eterni e miei per sempre. Sto scrivendo la mia storia, che è una gran bella avventura, e questa sono io, e la mia vita è una collezione di istanti, non tutti pieni di luce, ma nessuno del tutto inutile e privo di valore. Io che ho sempre avuto la paura di vivere un’esistenza eterodiretta, decisa da altri, di essere ammanettata ai fili di un qualche burattinaio, ecco, ora ho disinnescato queste ansie. Tutta questa fatica è libertà guadagnata metro a metro.
Con questi pensieri sono approdata alla vicina meta di oggi, passando per Ilanskij, città “rossa” dalla prima rivoluzione del 1905 e bolscevica non per forza ma per amore (cosa rara da queste parti, dove quasi tutte le città, casa di imprenditori, mercanti e borghesi, si erano schierate dalla parte dei bianchi).



Poi ho attraversato Verkhniy Ingash, città lineare, con una fila di case a destra e una a sinistra rispetto all’autostrada che passa in mezzo 




e infine Nizhny Ingash, 



dove mi sono fermata al Bayazet. Anche qui la signora non voleva darmi la stanza ed è stato tutto un gran contrattare e impuntarsi; alla fine, mi son trovata sola in una camera enorme, una reggia per volpi. Fuori, i consueti animali imbalsamati a render tutto più macabro.








Avendo tempo, ho esplorato il paesino, fondato nel 1775 e considerato città dal 1961.
Ci sono le consuete casine di legno e i palazzoni









L’immancabile monumento ai caduti, in una piazza centrale che, nonostante i fiori, è piuttosto tristerella






Il municipio con un cranio di Lenin molto, molto serio e corrucciato, che vede che fine ha fatto il suo sol dell’avvenire




Una chiesa in legno e una che pare una bomboniera brutta







E un lago che invece riporta alla pace dei sensi.







P.S. concludo rapidamente il resoconto perché è appena sfrecciato lungo il muro un ratto grosso come un vitello. Anche qui! Già ho sempre il mio bel da fare a casa con quelli che mi portano i gatti… E niente, adesso devo andare a caccia.





2 commenti:

  1. Anche da noi nonostante il clima temperato c'e' chi ha il cuore di ghiaccio.... ed occorre guardarsene

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  2. Speravo che tu potessi ricordare la tappa di Ferragosto meno faticosa e meno frustante. La belle persone e la struttura " tutta a fiori e piante, finestre e tendine", dove ti sei fermata per la notte, siano di buon auspicio nel proseguire questa tua "gran bella avventura". Sila

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