mercoledì 30 agosto 2017

Sessantesima tappa. Ulan-Udè, tra Buddha, Lenin e le icone ortodosse. Il crocevia di transiti e l'istante eterno



Quando arrivi in una città (mai sentita nominare prima, ignoranza mia grande), e, nel giro di 5km trovi, nell’ordine, un Buddha d’oro, 



la più grande testa di Lenin del mondo



e la cattedrale ortodossa di san Odigitrievskij che svetta candida con le sue cupole blu,



quando finisci in un frullatore culturale che ha mescolato ortodossia cristiana, buddhismo e comunismo, capisci due cose: la prima è che sei ormai abbastanza lontanino da casa, anche perché tutti han volto orientale e occhi a mandorla; la seconda, che di lì la storia è arrivata per vie diverse e da tutti e 4 i punti cardinali, in un complesso incrocio di strade dell’umano.
Ulan-Udè, capitale della Repubblica autonoma di Buriazia, è proprio così. In questo oriente di Siberia (non estremo: da qui a Vladivostok ci sono ancora quasi 4000km!) la Russia, con le sue ideologie e ciò che ne consegue, dall’architettura ai volti della gente, vacilla e sfuma, cedendo il passo a ciò che giunse da sud, dalla Cina e dalla Mongolia. Il dominio politico ed economico della Russia tiene insieme tutti i frammenti di questo folle mosaico, ma la cultura non è stata russificata del tutto: ogni scritta è bilingue, le persone parlano in buriato e ascoltano la radio in auto in buriato, ci sono più Buddha che croci di legno e le statue raffigurano personaggi con gli occhi a mandorla. Solo i modelli ritratti nelle foto delle riviste di moda non hanno tratti orientali, ma quelli sono gli standard idioti del consumismo che arriva dall’Europa e dagli Usa, con la febbre della globalizzazione di questi decenni; gli slavi di Russia non c’entrano.

Andiamo però con ordine.
Dopo la notte trascorsa nell’appartamento di Kabansk, Raymond ed io ci siamo salutati all’alba, dopo colazione: 




lui alle 7 era già in strada sotto ad un gelido sole, io sono uscita due ore e mezza più tardi, per poi recuperarlo all’ingresso di Ulan-Ude, a 100km di distanza.
La cittadina rurale che si adagia sulle sponde del fiume Selenga, là dove le montagne esauste di precipizi son morbide colline verso il Bajkal, mi ha salutata con la sua sovieticissima piazza centrale, con monumento ai caduti quel tantino vistoso. 



Percorsa l’unica breve strada che attraversa il paese, mi son trovata subito immersa nella meravigliosa valle del fiume, che dovrò percorrere per tre giorni fino a risalire quasi alla sorgente, sui monti che marcano il confine tra Russia e Mongolia.





Pare di esser già qui in un altro mondo, in un altro universo rispetto ai fradici boschi sulle rocce del Bajkal. I colori e la luce son diversi, i profumi, gli insediamenti, l’intero orizzonte e persino il cielo; tutto è mutato in pochi kilometri e questo nuovo volto della federazione mi rende euforica: percepisco il cambiamento, sento di essermi spostata, di esser giunta lontano; a volte la Russia, con la sua enormità e compattezza, inganna: pare di non essercisi mai spostati dal primo villaggio di case in legno incrociato dopo Mosca. E invece ora no, ora tutto manifesta lontananza, significa spazi nuovi e sconosciuti da esplorare.





Restando in valle, la strada è stata clemente e quasi del tutto in piano, protetta da entrambi i lati dalle pendici morbide e brulle delle colline; sul Selenga si srotola una striscia quasi ininterrotta di campi a spighe d’oro e paesini di legno scuro e storto; nel mezzo capre, mucche e strappi cobalto di un cielo finalmente azzurrissimo.
Non inganni il sole, però: fa freddo. La temperatura è così bassa che, intorno alle 11, la grandine di ieri ancora non s’è sciolta sui prati.



La strada segue il fiume, dicevamo, e dunque per metà tappa ho proseguito verso est (ultimi 50km in questa direzione, dopo quasi 6000 ostinati) per poi piegare bruscamente a sud, dove sono diretta da ora alla fine del viaggio. La longitudine ora per me resterà quasi immutata, su questa linea immaginaria che segna per me l’estremo oriente del viaggio; ora mi muovo verso il meridione, con il sole in faccia che mi disegna un arco tra occhio sinistro ed occhio destro.









Il panorama muta ulteriormente, piegandosi la valle, e tutto si fa ancor più brullo e deserto escluse le basse rive del fiume dalle acque torbide.
In tutta la tappa ho incrociato una sola salita, per superare una collina dove le cicale assordano nascoste tra i cespugli e i tronchi. La cosa bella, ma bella davvero, è stato trovare, sulla cima, non una croce né un cartello con freddi numeri, ma un minuscolo rotolo da preghiera e due “totem” buddhisti coperti di nastri colorati (a terra, un mare di monete, con tanto di pover’uomo intento a raccoglierne manciate, che agli dei i rubli non servono, a lui sì per il pane e la vodka).




Sono sulla strada giusta, evidentemente.
Una volata di discesa ed ecco di nuovo il fiume, una cappella ortodossa e la valle, sempre più chiusa tra i rilievi, sempre più brulla e diversa da tutto ciò che finora ho visto.









A meno di 10km da Ulan-Udè ho recuperato Raymond, che nel frattempo aveva incontrato un cicloviaggiatore cinese (che però andava nella direzione opposta, quindi solo rapidi saluti); ancora qualche curva tra terre brulle, ancora qualche riverbero dell’acqua sotto al sole ed ecco i cartelli che segnano l’ingresso alla città, cui si accede attraverso due ponti: quello sull’Uda e quello sul Selenga.





La meta era l’Hotel Buriazia, prenotato da Ray con l’idea di passar bene, in un lusso buffo per il nostro tipo di viaggio, l’ultimo giorno insieme. Viene chiamato Mammuth e si capisce: è un palazzone enorme di epoca sovietica, tutto rimodernato in stile buriato; svetta nel cuore della città ed accoglie ospiti di riguardo, attori cantanti e politici, di cui ci son le foto appese nei corridoi; io e Ray siamo entrati nella hall con le bici cariche, il caschetto e i vestiti luridi, sotto agli sguardi attoniti dei presenti, uomini e donne d’affari tirati a lustro, tra cravatte e gioielli. Che godimento.







Dopo aver preso possesso della camera con vista sulla valle,




ci siamo diretti subito a ciò che più mi interessava vedere in città: il tempio buddhista più importante di Buriazia e di Russia, il datsan “Rimpoche Bagsha”, che si trova sulla vetta del monte Lysaya. La città e i suoi dintorni sono pieni di monasteri e templi simili, ma qui ha sede la scuola buddhista e valore aggiunto, si gode di una vista unica su Ulan-Udè. 








E’ stato istituito solo nel 2000, su un sito già sacro per gli sciamani, da tal venerabile Eshe Lodoi Rinpoche con la benedizione del Dalai Lama; nel 2002 è stata portata qui dalla Cina (che allunga in Russia le sue zampine appiccicose in ogni modo) la statua del Buddha, che pare sia la più grande di Russia e d’ “Europa” (così si legge sul sito del monastero… Ma quale Europa?!).

 








Nonostante la recentissima costruzione questo luogo trasmette un senso di pace ancestrale, di sereno equilibrio nel fluire delle cose, e pare il tempo si fermi, cristallizzato in un eterno attimo di vento e luce obliqua, come se l’intero universo, per un istante, trattenesse il respiro e confluisse in quel punto preciso, in un abisso di costellazioni, maree, nomadi in transito, urla di guerra e semi che germogliano, tutto insieme, tutto risucchiato dall’immobilità del momento.









L’incantesimo si incrina al suono sordo della campana, che i fedeli suonano prima di far girare i rotoli delle preghiere, e la magia si spezza nel volo dei corvi, per poi ricomporsi ancora, e di nuovo infrangersi e ricomporsi, in continue ondate.













Notevoli le statue dei demoni e degli spiriti, che paiono personaggi dei fumetti giapponesi e forse lo sono anche, chissà.






Dopo aver respirato a pieni polmoni quest’aria sacra che accoglie in sé tutte le nature del cosmo, le luci e le ombre, siamo tornati in centro, sull’ulitsa Lenina (l’ennesima); si respira una calma nuova, tra le vie della città, e la luce è diversa, più dolce, più morbida. La pietra e il metallo s’impastano con questi colori di miele e tutto pare caldo, accogliente, a misura d’uomo pur nel mezzo di una natura sconfinata. Così sono la piazza del teatro











e la Sovetov, dominata dall’orrendo cranio di Lenin (8 metri) e da alcuni palazzi governativi d’epoca sovietica; la statua in bronzo risale al 1970, centesimo anniversario della nascita di Lenin; è luogo d’incontro per la gioventù locale, setting per foto dei matrimoni e per selfie assurdi. La mia attenzione si è fissata irrimediabilmente sulle spropositate narici e sul dubbio se, in nome del realismo, dentro vi siano scolpite ciclopiche caccole. Per fortuna, no.




Da lì siamo poi scesi verso la locale via pedonale e di negozi, l’Arbat di Ulan-Udè, calma di statue e aiuole fiorite, un po’ troppo commerciale e turistica per i miei gusti, così è.










La passeggiata termina alla cattedrale di Odigitrievskij, ottocentesco simbolo del barocco siberiano.



Lì intorno si trovano quartieri di case in legno dei mercanti, risalenti al secolo scorso, mescolate ai blocchi di cemento sovietici e ai palazzi ultramoderni ancora in costruzione.
Ulan-Udè (che significa Ude Rossa e porta questo nome solo dal 1934), infatti, è stata fondata sì dai cosacchi nel 1666, che han sottomesso Evenki e Mongoli buriati, ma si è sviluppata grazie alle ricchezze portate qui dai commercianti che trafficavano tra Europa, Russia, Cina e Mongolia. Nel 1878 è stata semidistrutta da un violento incendio, per poi esser del tutto ricostruita e fiorire con l’arrivo della Transiberiana, nel 1900; dopo la rivoluzione, tra ’20 e ’22, è stata anche capitale della Repubblica autonoma dell’Estremo oriente, poi annessa anche formalmente all’Urss. Qui, da sempre, transitano anime e merci, e ancor di più dagli anni Cinquanta, quando è stata costruita la linea ferroviaria Transmongolica, binario unico e non elettrificato che corre da Pechino a Ulan-Udè attraverso, appunto, la Mongolia, e si connette in città alla Transiberiana. Sono proprio questi i binari che seguirò d’ora in poi fino ad Ulaanbataar, che ormai è tanto vicina…
La giornata si è conclusa con una cena proporzionata alla nostra fame, in un ristorante dove Raymond ha, senza sapere, ordinato un piatto lungo un metro, con carne e formaggio, pannocchie e verdure alla griglia; nonostante tutto, abbiamo avanzato ben poco!




E’ bello vedere qui, per le vie e nei locali, volti orientali, con gli occhi a mandorla e i capelli finissimi e neri neri, mescolati a visi dai tratti slavi; in ogni compagnia di ragazzi ci sono entrambi, indistinguibili nel vestire e nel comportamento, ma così diversi, e così uguali. E’ bella questa distanza che avvicina, a cui ora anch’io appartengo e che mi appartiene.
Ora io e Raymond dovremo salutarci. Lui muove ad est, verso Vladivostok e poi in Giappone, in un viaggio di altri 3 mesi. Io a sud. La Mongolia dista solo due giorni di pedalata, e ormai, quasi, ci sono.





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