venerdì 4 agosto 2017

Trentacinquesima e trentaseiesima tappa. Ci sono un cinese, una volpe e un carro armato. E il cambio rotto (e riparato). Ob e Novosibirsk.



Vi racconto una barzelletta: c’era un cinese.
In coma?
No, non in coma, sveglissimo. Lasciatemi dire.
C’era un cinese, c’erano un T-34, una Signora e una volpe. E altri mille cinesi. A Novosibirsk.



E i cinesi al posto di ascoltare la loro solerte guida nelle cuffiette, invece di ammirare i monumenti nel memoriale dei caduti della Seconda guerra mondiale, hanno rivolto le loro attenzioni a me, che stavo visitando per conto mio il sito ed ero ignara di esser già finita in mille alla n fotografie.
Poi si iniziati gli ohhhhh, gli ahhhh, i ringraziamenti silenziosi a mani giunte con piccolo inchino e i giri di valzer delle foto con tizi-uhn, cai-min, sempron-yan.
E sapete perché questa barzelletta non fa ridere?
Perché in quei momenti stavo prendendo coscienza di aver distrutto il cambio posteriore, e dentro di me non piangevo solo perché ero troppo piena di cristi e madonne per far spazio alle lacrime. Ma che sfiga, ma perché, ma come è possibile. Poi ho capito. Il fatto che le levette andassero a vuoto con un mesto ticchettio molle e sfatto era dovuto al cavo di trasmissione: lì, sotto al manubrio, tutto piegato e sfilacciato. Il motivo? Il malefico borsino anteriore, che per giorni deve aver pigiato in malo modo sui cavi di freni e cambio fino a provocare il danno.



Ma fermiamoci un attimo e riavvolgiamo la pellicola di 24 ore, altrimenti non ci si raccapezza.
Ieri, 3 agosto, è stata una tappa di pura fatica e poca grazia. Sono partita dopo una colazione a insalate russe (quelle giuste stavolta, senza interiora) e Luisochka ripiena di latte condensato, semplice ed efficace per dare energia (sempre che si sopravviva ai picchi glicemici senza infarti).



Poi via verso… Verso una porcheria enorme, ecco verso cosa. Un cantiere di 70km. 



Stanno deviando il corso di un fiume, la strada praticamente non esiste; è fango, sassi, catrame, bitume fumante, sabbia spessa. E’ tutto men che strada, insomma. E poi manca spazio. I camion già fanno fatica a passare per conto proprio, figuratevi a scansarsi per evitare me che non ho bordo in cui pedalare e quindi occupo una fetta di corsia. Naturalmente c’era pure il vento contrario, che sembrava volermi ributtare indietro in quella fucina di Isengard che è stata la non-strada. Con  uno sforzo fisico e mentale sovrumano sono riuscita a non cadere e a non farmi tirar sotto, che son già buoni risultati. All’ultimo kilometro di cantiere mi sono infilata nel primo benzinaio a farmi una pera di succhi di frutta gelidi, perché faceva anche un caldo atroce, anche a causa dei macchinari mostruosi che ribaltavano le viscere della terra e del bitume fuso con cui stavano tumulando tutto. Poi, finalmente, la strada.
Questa è la forma che può assumere a volte una sensazione che per ora chiameremo felicità.



"E improvvisa, inattesa,
fortuita, l'allegria.
Da sola, perché volle,
è venuta. Così verticale,
così grazia insperata,
così dono a sorpresa,
che non posso credere
che sia per me.
Mi guardo intorno,
cerco. Di chi sarà?
Sarà di quell'isola
sfuggita dall'atlante,
che mi é passata accanto
vestita da ragazza,
con spume al collo,
abito verde e un grande
spruzzo di avventure?
Non sarà forse caduta
a un tre, a un nove, a un cinque
di questo agosto che inizia?
Oppure è quella che ho visto tremare
di là dalla speranza,
nel fondo di una voce
che mi diceva: "No"?
Ma non importa, ormai.
Sta con me, mi trascina.
Mi sradica dal dubbio.
Sorride, possibile;
prende forma di baci,
di braccia, verso me;
finge d'essere mia.
Andrò, andrò con lei
ad amarci, a vivere
tremando di futuro,
a sentirla veloce,
secondi, secoli, eternità,
niente. E l'amerò
tanto, che quando verrà
qualcuno
- e non lo si vedrà,
non si potranno udire i suoi
passi - a richiederla
(è il suo padrone, era sua),
quando la condurranno,
docile, al suo destino,
lei si volterà indietro
a guardarmi. E vedrò
che ora è mia, finalmente."
(Salinas)


Sì, tra me e una strada bella e dritta nasce amore al primo sguardo. E’ una storia lunga, ma credete a me e a Salinas.
Così è iniziata la mia nuova parte di avventura sull’autostrada Bajkal, perché pian piano mi sto avvicinando al lago dal cuore nero, e i nomi sono qui a dimostrarlo.
Nel giro breve di qualche respiro sono arrivata alle più lontane propaggini dell’enorme Novosibirsk, che è circondata da una costellazione di villaggi rurali ora cadenti e mogi, ora tutti nuovi per coloro che dello stress della vita metropolitana si son stancati e tornano a vivere in campagna. Ci sono la falce e il martello e il venditore di aquiloni, che volete di più?











Ho pedalato l’ultimo tratto costeggiando, da un lato, la ferrovia (sempre lei), dall’altro l’aeroporto di Tolmachevo, il più grande dei due di Novosibirsk. La mia destinazione era Ob, paesino senza storia (è città dal 1969) che orbita intorno all’economia mossa dallo scalo aeroportuale, nonché sede della seconda più grande compagnia aerea russa, la S7 airlines. E’ tutto casine e palta secca, zanzare e luce al caramello. Reperire una quasi cena è stato pure difficile, non ci sono negozi né supermercati, ma solo baracchini dei gelati e della vodka. Che tristessa.






La mia meta era lo Skazka Hostel, un asettico luogo di transito per gente rincoglionita dai fusi e dalle troppe ore passate in volo.
Da notare l’insegna con la volpe al secondo piano. Non potevo non fermarmici!







Per fortuna la Siberia si è fatta perdonare la giornataccia di fatica con il consueto spettacolo del crepuscolo che sale come una marea che culla al sonno.



La mattina di oggi, invece, è iniziata bene. Il ragazzino della reception, vedendomi fare una colazione tristissima con le barrette avanzate, mi ha preparato e offerto ben due palacinke, una alla marmellata e una alla carne e cipolla. Ma che amorino! Grazie gentile sconosciuto, hai dato avvio ad una serie di colpi di culo che nemmeno immagini, pur in certe sfighe.



Fatta colazione, dicevo, sono partita per una breve tappa per raggiungere il centro della terza città più grande di Russia (dopo Mosca e San Pietroburgo) e la prima più grande della Siberia, con il suo milione e mezzo e più di abitanti. Ho percorso un immane stradone semideserto, godendo di ogni centimetro di asfalto liscio e pettinato.




Sulla strada ho incrociato il polo fieristico della città, che ospita centinaia di esposizioni che vanno dall’agricoltura al software,




e anche questi due personaggi qui.



Poi, prima di attraversare l’Ob, ho fatto una deviazione per visitare il memoriale delle vittime delle guerre (principalmente la Grande guerra patriottica, ma ci sono anche i nomi dei caduti in Afghanistan e su tutti gli altri fronti in cui la Russia ha combattuto). Oltre ai monumenti enormi e alle liste immense di nomi su nomi, nomi e nomi e stelle per altri eroi da dimenticare, 



























sono qui esposti alcuni mezzi militari, carri armati, aerei, cannoni e katyushe, con tanto di caratteristiche scritte in bronz sul marmo (peso, gittata ecc). Un inno alla pace e alla fratellanza, insomma.


















Il memoriale termina con una chiesina dedicata a San Giorgio, simbolo del bene che combatte il male e trionfa. E’ l’immagine, quella del santo a cavallo che trafigge il drago, più spesso associata alla vittoria russa sui nazifascisti. Ah, i simboli… Che gran presa di culo.





Qui è venuto fuori tutto il tran tran coi cinesi, che hanno mollato guida e monumenti per fotografare me e la Signora. Qui mi sono accorta del cambio rotto. Con un filino di morte addosso, perché oggi era l’ultima tappa in piano. Da domani, superato l’Ob, finisce la steppa di Barabinsk e inizia una zona di colline. Senza cambio posteriore, con le borse, in salita… Un inferno. Subito ho cercato su internet se ci fossero e dove ciclisti, che in Russia non è mica così scontato. Google risponde: a decine! Apro il primo pallino suggerito sulla mappa e compare l’immagine di un baracchino che noleggia risciò. No. Apro il secondo e balza fuori la foto di due clown sul monociclo. Ma che cazzo. Apro la terza ed è un negozio di ricambi per auto e moto. Ok, sono spacciata, è li fine. Con l’ultima goccia di speranza apro il pallino rosso sulla mappa più lontano dal centro, dall’ostello, da me, dalle cose del mondo e… Mi si palesa l’immagine di due ragazzi intenti a trafficare in un’officina vera, degna di tale nome. Bingo. Veloservis, aspettami che volo da te. Un po’ rincuorata riparto con l’idea di andare in ostello, lasciar giù armi e bagagli e correre dritta dai meccanici per capire se sno in grado e hanno il materiale per riportare la Signora in salute.
E’ un arrancare il mio cammino. Con il cambio più duro tutto è fatica spropositata, anche lo strappetto più breve.
Però, tra uno sbuffo e un grano del rosario, arrivo da lui, al grande Ob.





Porta le acque degli Altai e di migliaia di fiumi fino all’Artico, al mar di Kara. Nasconde sotto al suo mantello azzurro ricchesse di petrolio e gas, reca il canto antico delle steppe e della tundra, accompagna, da metà Ottocento, l’andare dei mercanti e degli esploratori. Il grande Ob, signore della Siberia occidentale.
Proprio mentre ero sul ponte un’aquila deve aver scambiato il caschetto o qualcosa di simile per una preda facile, ferma e ignara, perché ha iniziato a girarmi intorno in cerchi sempre più stretti e più bassi, accennando a delle picchiate. Poi si è resa conto dell’errore, del fatto che siamo una volpe e una Signora dal culo grosso, e se ne è andata. Ma che spettacolo meraviglioso.






Una manciata di kilometri ancora e sono finalmente giunta all’ostello.
Anche qui è stato tutto complicato. Il 18 di ulitsa Lenina, dove sta la struttura, non è una casa, ma un teatro delle marionette (giuro) seguito da un gruppo di edifici tutti accostati senza logica né ordine. Porte, androni, finestre. Non un cartello. Non un’insegna, non un’indicazione, mannaggia ai russi che fan le cose mezze illegali e quindi si tengono nascostoni. 




Avevo fretta di andare dal ciclista e il maledetto ostello non si faceva proprio trovare. La traccia lo dimostra.



Nella disperazione, chiedo a un tizio che stava trafficando intorno alla sua auto e mi guardava incuriosito. Dov’è il Retro Hostel? “Ah!” risponde “La metro si prende in piazza Lenina, qui a destra a 500 metri blablabla”. Madonna che rincoglionito. Retro non metro. “Sì sì la metro, la linea 1, è qui in piazza”. E va be’. Davanti a questo portone, che poi si rivilerà quello giusto (ma da cosa dovrei capirlo, io?) 



fermo una ragazza della mia età che, già dalle prime parole, mi fa capire che parla inglese. Oh benedetta fanciulla! Le chiedo, non sa. Idea! Le dico se, chiamando la reception con il mio telefono, può parlare lei e chiedere informazioni e poi riferirmele in inglese. Perché al telefono i russi sono ancor peggio che di persona: se dopo tre secondi non capisci e non rispondi in russo fluente, buttano giù la cornetta. Sicchè chiamo, la ragazza parla, chiede e in due secondi digita il magico codice e il portone si apre. “Mi ha detto che sta al secondo piano, ciao!”. Grazie anche a te, gentile fanciulla sconosciuta.




Salgo, mi sistemo e, sempre con la fretta di andare dal meccanico, devo sorbirmi le menate del proprietario. Gentilissimo eh. Ma mi dà in mano un mazzo di chiavi per aprire tutte le porte e le porticine, me le fa provare una ad una, gira di qui, si apre, gira di là si chiude, magia!, e poi su e giù per provare quella della porta esterna e del portone e di ognissanti. Tra l’altro il buon uomo ha disseminato in punti segreti e strategici copie di ogni chiave, perché qui le porte son vecchie e scassate, ergo se ti si chiudono alle spalle che so, per un colpo di vento, e la chiave è dentro, tu sei chiuso fuori per sempre come Adamo ed Eva, e puoi solo piangere sulle sponde del fiume Ob’ ed aumentarne la portata. Ma lui ha messo una chiave sotto allo zerbino, una nella casella della posta, una nel frigo, guarda!, e una probabilmente sta incastrata nel suo retto, sicchè nema problema. Finita la manfrina, sono finalmente partita in direzione meccanico. La bici, senza borse, è così leggera che mi sfugge e fatico a controllarla; trema il manubrio, scodinzola il retro. Pedala pedala sono arrivata dal mio nuovo vero eroe, il proprietario del Veloservis. Il negozio, all’inizio, mi ha spaventata: è un buco umido nello scantinato di un supermercato, con quattro bici da nonna che va a funghi e poco più. Ma lui no, lui sa fare bene il suo mestiere. Spiegato il problema, ha cambiato il cavo in un breve. Intanto mi ha offerto caramelle, tè e un gelato (che stava per mangiare lui prima che entrassi).



Poi, dopo avermi chiesto dove stessi andando, ha deciso di farmi a gratis un check-up completo. Ha registato anche il cambio anteriore, ha tolto le bolle d’aria e rimesso il liquido dei freni, ha controllato e cambiato le pastiglie. Mi ha pure gonfiato le gomme. Il paradiso ritrovato. Il tutto mentre mi riposavo, mangiando e bevendo. Costo dell’operazione e dell’ora e mezza di lavoro: 15 euro. Meccanici del Veloservis, vi si ama una cifra. Così, dopo la foto voluta per il loro Instagram, 



sono uscita dallo scantinato con il cuore leggerissimo, e c’era il sole e tutto era meraviglia. Ma che bella Novosibirsk, non ci avevo fatto caso prima.
Sono tornata in ostello, ho messo la Signora tutta bella ristrutturata e fresca e funzionante al sicuro, mi sono fatta una doccia e via, a visitare la città.
Novosibirsk è una città giovane, giovanissima. E’ stata la più giovane, il secolo scorso, a superare in meno di cento anni il milione di abitanti (negli anni Sessanta). Chi dice che sia tutta a palazzoni non mente: palazzoni di inizio Novecento, in mattoni rossi e legno, case di mercanti e banchieri. Palazzoni grigi che sanno di comunismo pesante, sempre più claustrofobico e asfissiante. Palazzoni ultramoderni, alberghi, banche e sedi d’aziende. Perché qui i palazzoni piacciono, e vanno a braccetto con gli immensi viali e gli spazi sconfinati anche in città, spazi cui noi europei non siamo abituati. Qui le vie sono enormi, dritte e non ci si può perdere. Tutto è razionale e moderno. Non come i dedali dei centri storici e delle medine, nati dal disordine e dalla follia medievali. No. Vialoni. Piste d’atterraggio per aerei presidenziali. Strade su cui far sfilare carri e uomini. Strade su cui trasformare la rivoluzione in dolente marcia di proletari senza volto. Insomma, una città sovietica.





































































Dicevamo che Novosibirsk è giovane. E’ nata nel 1893, non distante da un piccolo villaggio tartaro poi spazzato via dalla terra e dalla memoria. E’ nata in occasione della costruzione del ponte ferroviario sull’Ob, presente anche nello stemma. Questa città ha cambiato nome ben tre volte, seguendo i flussi della storia di Russia. All'inizio era chiamata Aleksandrovskij, in onore dello zar Alessandro III, cui è dedicata anche la cattedrale (la sua statua, non si sa perchè, è incappucciata e par altro).





Dal 1895 il nome divenne Novonikolaevskij, in onore del nuovo zar Nicola II (metti mai di fargli un torto…). Nel 1925, poi fu ribattezzata Novosibirsk. Di zar in effetti non ce n’erano più e anche la loro memoria dava un certo qual fastidio.
Comunque, prima della rivoluzione, anche qui si parlò di Chicago della Siberia per la rapida e forte crescita economica e di popolazione, generata dalle numerose industrie e dal settore dei trasporti, su strada, ferrata e non, e sull’acqua.
La guerra civile, tuttavia, fu pagata anche qui e a caro prezzo. Il ponte sull’Ob fu distrutto. Un incendio devastò la città e decine di migliaia di persone furono costrette a vivere in strada, cosa che provocò fulminanti epidemie di colera e tifo. Dopo esser passata dalle mani dei rossi a quelle dei bianchi e di nuovo a quelle dei rossi, Novosibirsk era un rudere in declino, spopolata e povera. La ricostruzione iniziò nel ’21. La nuova politica economica di Lenin la volle capitale della regione e gli investimenti qui furono ingenti.
Si costruì il monumento ai martiri della rivoluzione, con i soldati di qui e i contadini di là, e Lenin nel mezzo con quel mantello al vento che lo fa sembrare più un cavaliere Jedi che altro. 






Dietro, il più grande teatro di Russia. Era stato pensato perché vi si potessero anche tenere comizi, far sfilare cortei e far atterrare aerei. 






Alla morte di Lenin gli operai finanziarono la costruzione di una casa-memoriale in suo ricordo, che ora è la sede della filarmonica.






Stalin portò avanti il progetto di fare di Novosibirsk una potenza industriale e così avvenne, tra industrie pesanti, siderurgiche e di macchinari, e alimentari. Si rifugiarono qui, per questo, a inizio anni ’30, molti scheletri in fuga dalla grande carestia sovietica; sorsero baracche e accampamenti, ma la città resse il colpo. Sorsero scuole, teatri, comparve il tram. Durante la guerra furono poi trasferite qui oltre 50 attività produttive sensibili, per produrre carri armati e cioccolato, bombe e gallette. Il fronte era distante, ma la guerra arrivò anche qui e portò via migliaia di figli. 









Comunque, oltre ai morti, arrivarono i vivi, i rifugiati, la forza lavoro e le imprese; tutto questo restò anche dopo la vittoria. Negli anni ’50 fu costruita una gigantesca centrale idroelettrica che sfruttava il bacino artificiale sull’Ob, comparvero nuove industrie e le università, soprattutto nella cittadina satellite di Akademogorodok, un vero e proprio villaggio della scienza, tuttora in prima linea nello sviluppo di tecnologie informatiche (e in epoca sovietica sede di segretissimi studi sul nucleare e sulla genetica, pagando gli scienziati con razioni di cibo più abbondanti). Negli anni Ottanta fu costruito pure il metrò, con un ponte sul fiume lungo più di 2km.
Insomma, Nvosibirsk è un cuore di cemento e acciaio, pistoni, vapore e scintille da fonderia che pulsa un ritmo profondo nel suolo di Siberia. Per assurdo, tolti gli spazi enormi e i Lenin, sembra di essere in Europa. Ci sono i centri commerciali, i ragazzi e le ragazze vestiti “come da noi”, cioè scimmiottando la moda americana, con i capelli colorati e lo skateboard. Ci sono i Burger king e Benetton, tra una falce e un martello, tra una banca e un senzatetto. Novosibirsk è giovane e imita i più grandi, cambia pelle continuamente e, a volte, finge di essere ciò che non è. Qui ho trovato la bellezza dei luoghi ma pure il dono prezioso della gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano quando due stranieri si incontrano e si riconoscono, quando uno sconosciuto tende la mano al foresto, al barbaro, e non la ritrae per proteggere la borsa e la roba. Novosibirsk è bella, e lo sapevo. Già la devo salutare: domani si riparte. Mi aspettano una nuova steppa, nuovi cieli, altre luci e altra strada. Parto serena per la Signora in ordine, la meraviglia raccolta tra le ciglia e tutto quell’ineffabile d’azzurro e vento che mi ricama il cuore non si può raccontare, solo sentire sulla pelle. 

Vi lascio con altri scorci della città, così che i colori e le immagini si imprimano in un mosaico fluido nella memoria.




















 (il circo. In Russia quasi tutte le città più grandi ne hanno uno stabile)















Ultima curiosità. Questa cappelletta dedicata a San Nicola, che negli anni del regime sovietico è stata sconsacrata e semidistrutta, è da sempre considerata il centro geografico della Russia. Una bella responsabilità per un edificio tanto piccolo, no?










4 commenti:

  1. ❤️ Indomita donna con indomito cuore ✊️

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  2. Ciao Rita Le tue foto nei paesi e citta riprendono prevalentemente edifici, monumenti, memoriali..detto tra noi alla fine , visti una volta poi sono tutti uguali....lo so che non è facile, ma includere anche le "ghegne"(faccie in bergamasco) di questi russi, sarebbe un valore aggiunto. Perche la foto di una gegna giusta dice molto piu di mille parole. Non mollare !

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  3. ..........Qui ho trovato la bellezza dei luoghi ma pure il dono prezioso della gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano quando due stranieri si incontrano e si riconoscono, quando uno sconosciuto tende la mano al foresto, al barbaro, e non la ritrae per proteggere la borsa e la roba........

    Bello questo

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  4. "...il dono prezioso della gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano..." sono parole bellissime. E poi... il resto dei tuoi pensieri per spiegarlo sono il segno di un cuore semplice e ricco di umanità. Sila

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