mercoledì 2 agosto 2017

Trentaquattresima tappa. "Il groviglio delle strade/ si districa viaggiando". La Via siberiana e il giorno in cui zar e imperatore cinese s'intesero in latino. Da Ubinskoye a Chulym



Oggi parliamo di strade.

“E le spiegò che la bellezza di un rettilineo è inarrivabile, perché in essa è sciolta qualsiasi curva, e insidia, in nome di un ordine clemente, e giusto. È una cosa che possono fare solo le strade, le disse, e che invece non esiste nella vita. Perché non corre diritto il cuore degli uomini e non c'è ordine, forse, nel loro andare.”  (Questa storia, Baricco)



Non sempre sono dritte nemmeno loro, possono diventare labirinti e far smarrire la diritta la via.
Però dipende più che altro dal timoniere che fa la rotta. Perché la strada sta lì, al di là del bene e del male.
Dicevo, parliamo di strade. 
Perché finora vi ho raccontato di paesi nati insieme e grazie alla Transiberiana, che pure è una strada anche lei, ferrata e folle, e tanti problemi delle altre matasse di strade ha risolto, all’epoca. Oggi invece mi trovo a Chulym, o meglio, alla sua estrema periferia, nel solito autogrill casereccio con quattro stanze per naufraghi in piccionaia. Chulym, città dal 1947, ha sì la sua stazione, dal 1898, ma già esisteva dal 1762, anno di fondazione. Non è una data casuale: si tratta del momento esatto in cui si spianò anche qui la sottilissima e così importante striscia di terra battuta, la “Via siberiana” (sibirskij trakt), detta anche “strada di Mosca” o “Grande strada”. Univa la Russia Europea alla Siberia e alla Cina. Ci vollero più di 100 anni per completare l’immane opera.



 La sua costruzione fu infatti decretata dallo zar Pietro il Grande nel 1689, subito dopo la firma del trattato di Nercinsk; con questo documento in latino, con traduzioni in russo, cinese, mancese e mongolo, si poneva fine all’annosa questione delle invasioni cosacche (per grano e pellicce) nei territori dell’Amur, regioni che stavano sotto l’egida del celeste impero e venivano con forza difese dai suoi soldati dagli occhi finissimi. Sconfitte avevano subito anche le truppe di soldati russi inviati a conquistare territori a sud del Bajkal. Lo zar fu, di fatto, costretto dall’imperatore cinese Kangxi a trattare la questione dei confini attraverso la diplomazia, anche grazie all’intervento di due gesuiti che tennero riunioni nelle cinque lingue suddette. Era la prima volta che l’impero Qing trattava alla pari con una nazione straniera: prima la Cina si era sempre posta come unica portarice di civiltà, superiore agli altri paesi, abitati da barbari. E parliamo delle nazioni europee. Pare che certe dinamiche non cambino né per latitudine né per longitudine.
Comunque, fatto il trattato, Russia e Cina decisero di aprire le frontiere ai commerci e di stabilire un’alleanza fatta di merci e denaro, spezie, carovane e tè in continuo movimento da oriente a occidente, da occidente a oriente, come onde di un mare bifronte.



Allora si capì che era necessario dotare la Siberia almeno di una strada. Fino ad allora esploratori, avventurieri e mercanti si erano mossi lungo la rotta carovaniera di Babinov, che aveva scoperto, a fine ‘500, il punto più basso per attraversare gli Urali e poi, in Siberia, quasi esclusivamente lungo i fiumi, che rendevano morbido l’andare ma costringevano ad allungare il percorso e a difficoltosi sbarchi e imbarchi e trasbordi.

“Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno un padre, un amore, qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume immaginarlo, inventarlo e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.” (Oceano mare, Baricco)

Dicevamo che il 22 novembre 1689 lo zar decreta la costruzione della Via siberiana. I lavori iniziano solo nel 1730, perché la Russia è grande e si muove piano, pianissimo. Finiranno Più di un secolo dopo.



In un primo momento la Via Siberiana seguiva la via di Vladimir, da Mosca all’omonima città, poi passava per Kazan, Perm, Ekaterineburg, Tara, Tomsk, Irkutsk, e, di là dal Bajkal, arrivavava a Ulan Ude (ci arriverò pure io). Qui si divideva: un ramo proseguiva verso est, uno scendeva in Mongolia attraverso Kjachta (che sarà anche il punto dove attraverserò io il confine), dove si collegava alle carovane di cammelli e scendeva verso una porta della Grande muraglia, a Kalgan. A inizio Ottocento il percorso della via Siberiana fu spostato a sud, verso Omsk, Acinsk e Krasnojarsk (tutte città che il mio viaggio lambisce). Per queste strade passarono soprattutto tè, il migliore della Cina, e radice di rabarbaro essiccata; il tè veniva compresso in veri e propri mattoni, poi caricati sui cammelli. Nel 1915 la Cina esportò in Russia 70.300 tonnellate di tè… ci si poteva costruire un’altra grane muraglia (solubile!).



Insomma, questa città che si sta pian piano addormentando alle mie spalle è nata proprio come villaggio di lavoratori della Via siberiana.
Certo oggi spostarsi è ben più comodo. Tranne quando la traccia mi fa prender la via del bosco e mi fa passare in mezzo ai bricchi, s’intende.





Stamattina è iniziata così, con le campagne vaste d’orizzonti immensi e i sentieri di polvere. Fortuna non piove, altrimenti qui diventa un mare di fango e tocca sgranar rosari. Ho pedalato in questi sentieri di campagna per un tratto breve ma sufficiente per vedere un altro spaccato di vita rurale siberiana. Che è vita vegetale, di spighe e arbusti, tronchi e gemme, e vita di insetti, muschi e rapaci a caccia di topolini. Vita multiforme e vibrante, vita principalmente non umana... Volpi felici per l'azzurro a parte.





 Poi mi sono rituffata sull’autostrada, qui sempre più piccina e stretta ma ben tenuta e pochissimo trafficata. Il paesaggio di steppa e boschi è più verde e meno brullo e fa da morbido sfondo all’andare (che oggi non era del tutto controvento, solo a tratti, per fortuna). Incredibile quanto sia rossa la terra, pare sangue e invece per una volta no, è bellezza incruenta.






Sulla strada, all’altezza di Kargat, mi sono imbattuta in questa struttura troppo bella e kitsch per non meritare una sosta.







La città è stata fondata nel 1750 come fortificazione militare per proteggere i nuovi insediamenti rurali, di contadini e pastori, con cui lo zar stava popolando a forza e così conquistando la Siberia. E i solerti proprietari di questo complesso hanno voluto ricostruire una copia dell’originale fortezza in legno, con tanto di chiesina e interni in stile, samovar e balalike. E uccelli impagliati.















Presto e bene sono giunta alla meta di oggi, U Tatyany, che non è un toponimo sardo ma il nome del ristobarostello in cui dormo stanotte. Le camere sono grandi ma mezze scassate e con arredamento minimal.




 (merenda con gelato all'uva!)

Talmente minimal è l'arredamento che la finestra, che si affaccia sull’ingresso del ristorante, sul parcheggio e sull’autostrada, non ha tende. Sicchè il rischio di mostrar tette a tutti e culo urbi et orbi è più che alto. Ho messo le borse sul davanzale, così al più traspaiono solo candide fettine di ciccia volpina.


 (camera con vista e vista su camera)

Il cibo invece è buonissimo e costa niente. E poi è a self service, vedi quel che prendi e non commetti errori (o quasi). Sicchè stasera ricca cena a base di: polpetta stesa ricoperta di patate lesse ricoperte di cipolla gratinata con formaggio, a lato montagna di purè con salsa mistica à la Rasputin (perché poi hai le visioni degli spiriti del Golgota, tanto è piena d’aglio) e ben tre diversi tipi di insalatine russe, ma russe doc proprio, che ormai sono diventate una droga.



L’errore di oggi è da imputare proprio a una di queste insalatine, la più falsa, la più mendace (in foto, in alto al centro). Quelli che parevano innocui sfilaccetti di pollo, mescolati a insalata, cipolle e maionese, erano in realtà fili non meglio identificati di carne strana, a mio avviso, di me che non sono e non voglio essere esperta, interiora. Per fortuna la generosa valanga di condimento annichilisce qualunque sapore e ptrebbero servirti pure i topi morti, così annegati nella maionese. Mi torna in mente il buon Ilya, conosciuto in ostello a Mosca l’anno scorso, laureato in lingue, chitarrista, occhi a mezzaluna, nato sul Volga e ora impiegatuccio nella capitale. Mi cucinava sempre la cena e faceva la spesa per entrambi e mi dedicava canzoni dei Beatles, il buon Ilya. Lui metteva la maionese su tutto e ne consumava qualcosa come mezzo kilo al giorno. Il suo forte era la colazione con pasta scottissima e molla, impiattata nella scodella del latte e immersa in un quintale di maionese fredda da frigo. Ah, i russi…
Comunque, tra una pedalata e l’altra, domani arrivo in un paesino che si chiama Ob’. Così, per ricordarmi su quale fiume sto per passare; il nome di questa città prima era Tolmachevo, e infatti proprio qui sorge l’aeroporto omonimo, che è uno dei più grandi interni alla Russia e serve Novosibirsk. In questa capitale di Siberia giungerò dopodomani, con una pedalatina minima per spostarmi dalla periferia al centro ed avere l’intera giornata a disposizione per visitarla.
Sarà bellissima e fulgida nell’attimo in cui la saluterò, poi, via di nuovo verso il vento.

A proposito di strade, vi lascio una citazione lunghetta di Oceano mare (stasera va così, di Baricco a bizzeffe). L’ho sempre trovata bellissima.

“Preghiera di uno che si è perso, e dunque, a dirla tutta, preghiera per me. Signore Buon Dio, abbiate pazienza, sono di nuovo io.
Dunque, qui le cose vanno bene, chi più chi meno, ci si arrangia, in pratica, si trova poi sempre il modo di cavarsela, voi mi capite, insomma, il problema non è questo.
Il problema sarebbe un altro, se avete la pazienza di ascoltarmi. Il problema è questa strada, bella strada questa che corre e scorre e soccorre, ma non corre diritta, come potrebbe e nemmeno storta come saprebbe, no. Curiosamente si disfa.
Credetemi (per una volta voi credete a me) si disfa. Dovendo riassumere, se ne va un po' di qua, un po' di là, presa da improvvisa libertà. Chissà.
Adesso, non per sminuire, ma dovrei spiegarvi questa cosa, che è cosa da uomini, e non è cosa da Dio, di quando la strada che si ha davanti si disfa, si perde, si sgrana, si eclissa, non so se avete presente, ma è
facile che non abbiate presente, è una cosa da uomini, in generale, perdersi. Non è roba da Voi. Bisogna che abbiate pazienza e mi lasciate spiegare. Faccenda di un attimo. Innanzitutto non dovete farvi fuorviare dal fatto che, tecnicamente parlando, non si può negarlo, questa strada che corre, scorre, soccorre, sotto le ruote di questa carrozza, effettivamente, volendo attenersi ai fatti, non si disfa affatto.
Tecnicamente parlando.
Continua diritta, senza esitazioni, neanche un timido bivio, niente.
Diritta come un fuso. Lo vedo da me. Ma il problema, lasciatevelo dire, non sta qui. Non è di questa strada, fatta di terra e polvere e sassi, che stiamo parlando. La strada in questione è un'altra. E corre non fuori, ma dentro. Qui dentro. Non so se avete presente: la mia strada.
Ne hanno tutti una, lo saprete anche voi, che tra l'altro, non siete estraneo al progetto di questa macchina che siamo, tutti quanti, ognuno a modo suo. Una strada dentro ce l'hanno tutti, cosa che facilita, per lo più, l'incombenza di questo viaggio nostro, e solo raramente, ce lo complica. Adesso è uno dei momenti che lo complica. Volendo riassumere, è quella strada, quella dentro, che si disfa, si è disfatta, benedetta, non c'è più. Succede, credetemi, succede. E non è una cosa piacevole. Io credo che quella vostra trovata del diluvio universale, sia stata in effetti una trovata geniale. Perché a voler trovare un castigo, mi chiedo cosa sia meglio che lasciare un povero cristo da solo in mezzo a quel mare. Neanche una spiaggia. Niente. Uno scoglio. Un relitto derelitto. Neanche quello. Non un segno per capire da che parte andare, per andarci a morire.
... So perfettamente qual è la domanda, è la risposta che mi manca.
Corre questa carrozza, e io non so dove. Penso alla risposta, e nella mia mente diventa buio. Così questo buio io lo prendo e lo metto nelle vostre mani. E vi chiedo Signore Buon Dio di tenerlo con voi un'ora soltanto, tenervelo in mano quel tanto che basta per scioglierne il nero, per scioglierne il male che fa nella testa, quel buio nel cuore, quel nero, vorreste? Potreste anche solo chinarvi, guardarlo, sorriderne, aprirlo, rubargli una luce e lasciarlo cadere che tanto a trovarlo ci penso poi io, a vedere dov'è.
Una cosa da nulla per voi, così grande per me. Mi ascoltate Signore Buon Dio? Non è chiedervi tanto, è solo una preghiera, che è un modo di scrivere il profumo dell'attesa. Scrivete voi dove volete il sentiero che ho perduto. Basta un segno, qualcosa, un graffio leggero sul vetro di questi occhi che guardano senza vedere, io lo vedrò. Scrivete sul mondo una sola parola scritta per me, la leggerò. Sfiorate un istante di questo silenzio, lo sentirò. Non abbiate paura, io non ne ho. E scivoli via questa preghiera con la forza delle parole, oltre la gabbia del mondo, fino a chissà dove. Amen.”








1 commento:

  1. Il primo libro di Baricco che ho letto (Seta) è stato grazie a mia figlia che frequentava il liceo; adesso questo, "Oceano mare" lo leggerò grazie a te che semini emozioni e cultura tra una lunga pedalata e la successiva. Sila

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