martedì 1 agosto 2017

Trentatreesima tappa. Nina e il tesoro dell'ultimo khan di Siberia. Da Barabinsk a Ubinskoye



Lei è Nina.



Avrà una sessantina d’anni. Vive a Ubinskoye, in questa bella casetta qui.
Nina vive sola. Probabilmente da tanto, tanto tempo.
Madonna quanto parla Nina. Un fiume in piena, una parlantina nilotica inarrestabile, corredata di gesti e smorfie perché così, ovviamente, è convinta che io possa capire meglio. Io percepisco una scriptio continua e pure bustrofegica e a malapena distinguo una parola dall’altra. Troppo, troppo in fretta parla Nina.
Mi ha raggiunta strascicando le ciabatte  fin davanti alla statua di Lenin, che stavo fotografando.
“Hai fatto una foto alla mia casa? E’ quella lì blablablabla” e intanto indica l’izba accanto.
Sì… E’ molto bella, ho scattato questa foto. E le mostro l’immagine sul telefono.



“Da dove vieni? Blablablabla”
Dall’Italia. E anticipo le inevitabili altre domande: vado in Mongolia, in bici, da sola.
E domani dove vai?
Mannaggia, questa in effetti non l’avevo prevista. Mento. A Novosibirsk! (in realtà di arrivo tra tre giorni, ma non stiamo a sottilizzare).
Ahhhh. Blablablabla, Vieni che ti do qualcosa da mangiare! E blablabla…
Esito. Non ho voglia di passare la serata con Nina; non per lei. Per la fatica del conversare. Seriamente, non ce la posso fare.
“Dai, per favore!” insiste lei. E parole a cascata per invogliarmi.
E va bene. Mi immaginavo già un tè ustionante e qualche dolcino, perché alle 19 Nina ha già cenato da un paio d’ore almeno. Mi immaginavo i supermercati poi chiusi e la cena saltata e la zuppa di lacrime e barrette tutte spiaccicate e sciolte.
Invece… Invece Nina non mi ha fatta entrare in casa. Voleva offrirmi i prodotti del suo orto. Un gran bell’orto indubbiamente.




“Qui i fagioli, qui le patate, qui le cipolle. I pomodori non sono ancora maturi perché blablablabla”. E poi mi ha mostrato alcune erbe che si usano come spezie, triturate e essiccate. “Prendi, prendi blablabla!”.




Ma Nina, mannaggella, ti ho detto che viaggio in bici. Adesso mi metti in imbarazzo. Adesso ti devo dire di no, tu ti offendi e non è bello.
“Prendi, prendi per favore” e mi indica la terra bassa in cui ancora stanno accoccolati gli ortaggi ignari.
Non posso, Nina, è roba che finirebbe in pattumiera. Non posso trasportare né cuocere a dovere. Dai. Fa’ la brava.
E Nina capisce, per fortuna, senza che io debba spiegare più di troppo.
“Avanti là c’è la piazza con la chiesa e il monumento” mi dice. E dopo una stretta di mano, e un altro infinito diluvio di parole, mi lascia andare. Al ritorno passerò davanti a casa sua quasi correndo, sperando non mi riattacchi il pistolotto.
Nina, dicevamo, abita a Ubinskoye, come me stasera.
Arrivare qui è stato faticoso. La tappa, di poco meno di 100km, è stata quasi per intero controvento. Un vento teso, pieno di polvere e tafani, così maledetto, gratuito, non necessario. Io odio il vento. Fa fare la fatica che si fa in salita, ma costringe anche ad un continuo sforzo delle spalle, delle braccia, delle ginocchia, di tutto, per non farsi sorprendere dalle raffiche laterali. Oggi in certi tratti non sono riuscita a superare i 16km/h. La cosa che del vento mi fa imbestialire è che potrebbe non esserci, o potrebbe essere a favore. Una salita è faticosa, ma è lì, lo sai, la prevedi, la metti in conto, inizia e finisce. Il vento no. Una tappa come quella di oggi, senza Eolo incazzato, si fa in scioltezza: strade decenti, poco traffico, dislivello minimo, kilometraggio onesto. E invece no. Bisogna soffrire! Sarà il pathei mathos di cui parla il Prometeo eschileo, sarà quell’imparare attraverso il dolore. Magari me lo merito, magari è il karma (e sangue freddo), chissà che ho combinato in altre vite. Magari è proprio sfiga. Però che fastidio, il vento.
Ho notato tra l’altro che qui la steppa di Baraba si fa più boscosa, i cespugli e le erbe cedono il passo alle betulle e ad altri alberi ora radi ora fitti in foreste cupe. Il paesaggio sta mutando di nuovo. Percepisco il brivido delle radici e il bisbiglio sommesso dei rami alti, sento le gocce di luce filtrare tra le foglie ed esplodere in un mosaico tra verde e verde.






I tronchi sfidano il vento e i cieli inclementi. E vincono, per ostinazione e pervicacia, questa muta battaglia.





Come accennavo ieri, non era certa di trovare una tana in quel di Ubinskoye, primo paese sulla strada ad una distanza giusta per fare tappa. Su internet non risultava nulla, fuorchè un pallino marrone con il simbolo del letto su Google maps. “Chudnova” era il nome della struttura, cosa anche sensata essendo in ulitsa (via) Chudnova. C’era anche un commento della scorsa settimana, lapidario e misterioso: “strade dissestate”. Zero foto, nessun numero di telefono, nessuna possibilità di usare street view (perché in questi paesi non è passata la solerte macchinina di Google). Mi puzzava tantissimo questa Chudnova. Aveva proprio l’aria di non esistere. E infatti non esiste.
Tuttavia, lungo la strada, ho incrociato questo cartello. 



La distanza era più o meno giusta perché il fantomatico hotel cadesse proprio in Ubinskoye, dove c’è anche l’ospedale, anch’esso segnata lato sul cartello. Coincidenze? Mi sono fidata e ho fatto bene. Il sesto senso di volpe a pedali mi diceva di andare a Ubinskoye e così è stato. Dopo aver attraversato la campagna in periferia, mi sono diretta al Chudnova.







Lì ho trovato sì la strada dissestata, ma non l’albergo. Un uomo curioso da qualche minuto stava fisso ad osservarmi. Ho colto la palla al balzo. “Isvinitie, scusi, gdie gostinitsa? Dove sta l’albergo?”. Torna indietro, a sinistra, avanti un tot e lo vedi sulla destra. Allora c’è una gostinitsa! Ottimo, grazie, spasiba, che figata! Torno sulla strada principale, che costituisce il centro del paese, l’ulitsa Lenina, e seguo le indicazioni. Fatti circa 500 metri inizio ad avere di nuovo dei dubbi perché di alberghi proprio non ne ho visti. Fermo un anziano in camicia, bretelle e coppolino e chiedo lumi. Nemmeno risponde verbis. Con la mano fa segno di andar dritto. Ok, seconda conferma, allora esiste davvero. E infatti eccola qui la Gostinitsa Sibir, enorme e cadente e perfetta. 



Entro e non c’è anima viva.



Il ristorante sta chiudendo (alle 17, come quasi tutti i locali dove si mangia). Salgo e trovo una grossa donnona in grembiule. Mi accordo per la camera (prezzi sovietici ancora registrati sulle tariffe del ‘25) e inizia il teatrino: “Da dove vieni? Dove vai? Sei tedesca? Vai sul Bajkal?” No sono italiana e vado in Mongolia, però dal Bajkal sì, passo. “E’ lunga dalla Germania a qui!” Ma veramente… “La bici mettila giù in garage, non stare a portarla su, hai già pedalato tanto da Berlino a qui”. Va bene. Sono tedesca. Danke. La donna poi è stata così presa nel chiamar tutte le sue amiche e conoscenti per dire che c’era una tedesca che andava in bici al Bajkal da dimenticarsi di darmi le chiavi, farmi vedere se dove ci fossero servizi, doccia, cucina eccetera. E’ rimasta al telefono a parlare di me almeno due ore (e siccome in questo gigantesco e scricchiolante edificio ci siamo solo noi due, e io taccio e lei parla a troppi decibel, non è stato difficile capire su cosa vertesse la conversazione). Comunque benedetto Sibir, che mi hai evitato un’altra cinquantina di kilometri controvento.





Ubinskoye si visita piuttosto in fretta, poi.
Ci sono le casine in legno belle e sempre più storte e provate dalle intemperie e dagli anni, 






c’è Lenin, 




c’è la chiesa con la sua piazzetta





e ci sono i morti.







Centinaia di morti. Nomi e nomi, lettere vuote e senza più volto, fredde nella pietra. Nomi e nomi. E sono morti. Per cosa? Per essere nomi e nomi. Ecco il lunghissimo scontrino che si srotola dall'Europa all'oceano, ecco quanto è costata la vittoria.









Ubinskoye è uno dei villaggi rurali più grandi della regione (conta circa 6000 abitanti) ed è anche uno dei più antichi; infatti non è stato fondato con la Transiberiana, che pure ferma anche in questa stazione, ma già a inizio Seicento, con le prime spedizioni esplorative russe in Siberia, in cerca di oro e pellicce. Il primo insediamento venne presto bruciato (nel 1628) in una rivolta dei tartari Baraba, che, all’inizio, riuscivano anche a far valere le loro ragioni con le fiamme e i coltelli. Nel 1675 il villaggio viene ricostruito e diventa un punto di appoggia per i viandanti sulla strada tra Tara e Tomsk. Durante il ‘700 vengono costruite fortificazioni tutt’intorno, nella zona, presidiate da guarnigioni di cosacchi (che gli zar mandavano volentieri così a oriente, nel nulla, oltre i confini noti e disegnati sulle carte). Così, da una di queste fortificazioni, nasce anche Kargat, da cui passerò domani. A metà del XVIII secolo vengono qui deportati prigionieri politici e dissidenti perché lavorino la terra. Il villaggio cresce, vengono costruite case, aziende, la chiesa, altre case. Nel 1896 viene costruita la stazione della Transiberiana e il processo di espansione del paese accelera. Per il resto le vicende qui seguono il fluire della storia del resto della Russia senza attriti.
Un’altra cosa va detta. Proprio qui a breve distanza si trova il lago Ubinskoye che dà nome alla città; in tataro Ubu significa palude, acquitrino. In effetti le acque sono basse e stagnanti e piene di alghe e insetti.



Dal fondale si estraggono pregiati fanghi usati come cosmetici. Un tempo era ricchissimo di pesci ma, dagli anni ’90 del secolo scorso, sono quasi del tutto scomparsi a causa dello sfruttamento eccessivo e dell’inquinamento; ora le cose stanno di nuovo migliorando e ci sono buone speranze per il futuro. Tenetevi forte perché adesso vi do una notizia che vi cambierà la vita: qui, per la prima volta in tutta la Siberia, nel 1929, è stata acclimatata l’orata d’acqua dolce. La pratica si è poi diffusa in tutti i laghi della regione.
No, in realtà la questione interessante è un’altra. La leggenda narra che sulle sponde di questo lago Kuchum, l’ultimo re del khanato di Siberia, abbia sepolto il suo enorme tesoro perché non cadesse, anche in caso di sconfitta, in mano ai russi.



Siamo nel 1580. Ivan il Terribile scaglia contro l’ultimo dei khan i suoi cosacchi a cavallo, veloci e terribili come una tempesta nera. Kuchum è una figura eroica e tragica che si staglia grandiosa sulla prua di una nave che affonda. Era riuscito a prendere il potere eliminando due suoi potenti rivali che già erano vassalli della Russia; aveva imposto la fede islamica per compattare tutte le etnie e le popolazioni su cui regnava, dedite a religioni sciamaniche e animiste, aveva compiuto raid a Perm e in territori cosacchi, fatto che diede a Ivan il pretesto di scagliarli contro il khanato, guidati da Yermak; la capitale, Qashliq, cadde in mano loro in brevissimo, ma Kuchum continuò a lottare ritirandosi nelle steppe e radunando ribelli, soldati e mercenari; all’alba del 6 agosto 1584 il khan attaccò i cosacchi di sorpresa. Quasi nessuno scampò alle frecce e alle lame ricurve, nemmeno Yermak. Kuchum tornò a Qashliq, ormai distrutta, e tentò di stringere alleanze con altri nobili tartari e khan, per creare una forza che si opponesse al Terribile; tuttavia non riuscì a concludere nulla: tutti erano ormai vassalli e fedeli al russo; dopo un attentato alla sua vita per mano di uno di questi signorotti asserviti, il khan si ritirò con la sua orda a sud, sull’Irtysh, e qui fece un ultimo, disperato tentativo di costituire un regno antirusso, liberando i tartari locali dalle imposte in pellicce (yasaq). Ma sull’Ishym vennero catturate il figlio e due mogli, poi i russi si accanirono contro i prigionieri che venivano presi in raid nei villaggi alleati al khan; allo scorcio del secolo furono catturati altri figli e figlie, altre mogli e amici e sudditi di Kuchum. I russi credevano di poter negoziare la resa per la restituzione degli ostaggi, ma il khan si mostrò sordo e fiero nella sua ormai inevitabile sconfitta. Morì per cause sconosciute, non si sa dove, nel 1605. I suoi figli si convertirono al cristianesimo e furono assorbiti dalla nobiltà russa. Il suo tesoro, vuole il mito, riposa qui, sulle rive del lago.



E mentre mi chiedo se sia più prezioso il tesoro del khan (o del gat) oppure quello di Nina, entrambi sepolti in questa terra, il sole scende e porta il fresco della sera anche in questo agosto siberiano di cieli immensi.







1 commento:

  1. Sono contenta di rivedere anche il tuo bel sorriso e non solo una parte di braccio bionico. Due frasi mi hanno colpita: il "lunghissimo scontrino che si srotola dall'Europa all'Oceano, ecco quanto è costata la vittoria" e i "pregiati fanghi del lago usati come cosmetici. Ciao. Sila

    RispondiElimina