sabato 17 agosto 2019

46-48. L'Indiana e la sua capitale, Indy. Raccontarsi vincitori, esaltare la guerra. Non è un paese per ciclisti.







14/5
Greenup-Cloverdale (ma mica in città, al Lieber state park aka inculoailupi)
125km


La tappa di oggi è iniziata benone, è andata via via facendosi teribbila e si è poi riscattata sul finale, ma proprio in corner. Siamo entrati in Indiana, il che già è una notizia. Abbiamo anche spostato le lancette un'ora avanti, riportando il tramonto ad un orario estivo, decente. E abbiamo messo la bandierina sull'ottavo stato attraversato in bici; ce ne sono ancora parecchi, neh: qui ad est i territori sono più piccini, mentre ad ovest tendono a slargare un po', che tanto son vuoti di deserto o monti o natura impervia e disumana.

Comunque, dicevo, siamo entrati in Indiana. Ma mica subito. Da Greenup ci son voluti circa 60km di US 40 per raggiungere il confine; e un tappeto di opossum e procioni spiaccicati, oltre alle tartarughine (gli armadilli sono spariti). Ma pure immensi campi, ma immensi che non potete immaginare, di granturco e soia. Gigi dice che le due colture si guardano in cagnesco perchè si contendono il primato di numero di tollette Bonduelle da riempire. Ma ne vengono fuori tante qui, tante tante!

Per fortuna l'allarme esondazioni, piene, alluvioni, thunderstorms e tornado è rientrato, e il maltempo sembra, appena svegli, un vago ricordo. Il sole è alto ma non scotta, e c'è la temperatura ideale, la pura perfezione climatica per pedalare.
Impacchettiamo le borse e la rumenta che son le nostre cose (urge lavatrice, tutto pute, tutto è unto) e via, dopo abbondante colazione in camera alla magna-porco.

Greenup ride nella luce alta di questa terra sull'orlo del fuso, e i colori sono velati da una patina argentea che fa brillare le foglie. Si sta bene davvero qui in Illinois, e il cielo e la terra sono docili alla pedalata. Strano, ma nemmeno troppo, che neanche qui ci siano ciclisti o persone in bici. Chi mi crederà quando dirò che in due mesi e mezzo negli Usa avrò visto, sì e no, 30 persone in bici, di cui metà straniere e le altre concentrate tutte in un paio di ciclabili?




Si pedala volentieri, e gli automobilisti sono cortesi; passano larghi ben più del necessario e spesso mettono dei gran pollicioni d'apprezzamento fuori dal finestrino. Si potesse andar via dritti così, senza nemmeno grosse salite, fino a New York, ci metterei subito la firma. Ma non si può dettar legge alla strada, soltanto obbedire. La scelta si gioca tutta tra l'affrontare o il rinunciare, ma noi questa decisione l'abbiam già presa da tempo.

In breve raggiungiamo Casey, che è una città di per sè insignificante, ma ospita il maggior numero di oggetti/sculture da Guinness dei primati (nel senso delle scimmie) del mondo. Vanta infatti il wind chime (sonagli a vento) più alto, la sedia a dondolo più grande, i ferri da maglia e l'uncinetto più lunghi, un forcone, una cassetta postale, una voliera, una matita giganti e altri inutili oggetti più grandi del mondo. Si possono vedere facilmente? No. E quindi nulla, si va via spediti, testa bassa e pedalare.






Tra boschi e campi raggiungiamo anche Marshall, città, come Casey, costruita negli anni '30 del 1800, poco dopo l'arrivo della National road.
Nel 1863 Marshall fu la scena del conflitto in cui i Copperheads locali, o democratici per la pace, che si opponevano alla guerra civile, cercarono di proteggere i soldati che avevano abbandonato l'esercito dell'Unione. Nel marzo 1863, però, furono arrestati diversi disertori. Un giudice locale, Charles H. Constable, lì liberò e ordinò invece l'arresto di due sergenti dell'Unione con l'accusa di rapimento. Ciò non piacqua affatto: 250 soldati sotto il comando del colonnello Henry B. Carringtonsu furono inviati con un treno speciale da Indianapolis, circondaronoil tribunale, liberarono i sergenti e arrestarono il giudice Constable. Questo fu tuttavia assolto diversi mesi dopo aver presentato una difesa altamente tecnica.
Marshall fu anche sede della Handy Writers 'Colony, dal 1950 al 1964. Lo scrittore più famoso associato fu il romanziere James Jones , che costruì una casa a Marshall e vi abitò (1952-1957).

A proposito di National road, due parole, viste che la stiamo seguendo già da un po'.
Si tratta della prima grande strada costruita dal governo federale, in direzione est-ovest, tra il 1811 e il 1837. Collegava i fiumi Potomac e Ohio e fu, insieme alla ferrovia, la principale via di accesso al centro e al far west della nazione per migliaia di coloni. Quando fu ricostruita negli anni '30, fu una delle prime strade fatte con macadam. Oggi, di fatto, è ricalcata dalla US 40.

Così arriviamo alla linea di confine. La fine dell'Illinois è segnalata, mentre l'inizio dell'Indiana, no. O meglio, forse lo è sulla parallela Interstate 70, di cui noi sentiamo solo il frastuono ovattato.



La strada che stiamo seguendo si getta nella freeway vietata alle bici e ci tocca prendere una via secondaria, che però si rivela una piacevole deviazione tra pratini e casette delle bambole XXL. Non ci vivrei mai, ma nemmeno pagata, in un posto del genere. Troppo perfetto. Qui secondo me accadono i più efferati delitti, all'ombra dei boschi tosati e tra i muri ritinteggiati di fresco.


In un attimo, dopo aver superato un ragazzo che sta facendo a piedi il nostro stesso viaggio, ma all'inverso, con un carretto su cui reca la scritta "Sono un veterinario disoccupato", arriviamo a Terre Haute. Qui certo non mancano i toponimi francesi, e sono molto più numerose le chiese cattoliche, benchè restino comunque una minoranza tra il moltiplicarsi allucinante di confessioni e chiese riformate, vecchie e nuove, dai quaccheri ai satanisti.

La città sorge sul fiume Wabash, dove correva il confine tra Canada e Louisiana, tra territori inglesi e francesi. Fu fondata nel 1816 in una zona dove già esisteva il villaggio indiano. La loggia dell'ordine della freccia di questo grandissimo ca**o che ce ne frega dei loro nomi roboanti, insomma, i Boy scout, oggi qui portano il nome dell'ultimo capo villaggio di Wea, Jacco Godfroy. E questo è tutto ciò che resta dei nativi.



La popolazione crebbe dal 1818, quando la città divenne capoluogo della contea, e, negli anni '60 del XIX secolo, da centro agricolo e di allevamento di maiali divenne un gran centro industriale e di trasporti (grazie al fiume Wabash, l'omonimo canale e la US 40). Sorsero industrie siderurgiche e di lavorazione dei metalli, ma pure distillerie e birrifici, nonchè miniere di carbone destinato ai treni. Così la città si sviluppò e crebbe, furono costruiti ospedali, chiese, banche e saloon. Divenne anche un punto di riferimento per l'educazione e le scuole, di tutti gli ordini, come ancora è oggi.




La sera della domenica di Pasqua nel 1913 un tornando portò via mezza città, e l'altra metà fu inondata per via delle forti piogge che fecero esondare lo Wabash.
Ma la natura, che sapeva cosa stesse facendo e lo faceva a ragione, non è riuscita del tutto nella sua impresa. Tant'è che 10 anni dopo, nel 1923, qui si è tenuto il più grande raduno del Ku Klux Klan dell'Indiana, con 75.000 incappucciati, sfilate e croci ardenti.






Tra alti e bassi economici, questa città si è ripresa del tutto dalla Grande depressione sia durante la seconda guerra mondiale, che qui negli Usa è stata una bella fonte di guadagni, sia dopo, con grandi aziende soprattutto nell'ambito dell'agroalimentare.
Oggi è un centro tranquillo e pettinato, che si lascia attraversare volentieri senza resistenze nè attrazioni. E' proprio il simbolo di quelle parti d'America che, se non stai attento, passi senza nemmeno accorgerti. Non si lasciano scalfire dallo sguardo nè lasciano particolari segno impressi addosso. E' una doppia impermeabilità: il luogo a me ed io al luogo. Dovrò approfondire questo discorso, ma è ancora presto.


Pedaliamo su una ciclabile che porta in centro, e non c'è nessuno. Le nuvole, il vento freddo e le foglie già di colori autunnali fanno sembrare che per un attimo si sia balzati avanti di una stagione. Ma natura non facit saltus, e appena torna il sole sparisce questa cappa d'ansia di un ottobre anticipato senza autorizzazione.



Deming Park è l'ultima cosa che vediamo di Terre Haute, che ci lasciamo alle spalle filando via dritti ad oriente, per riprendere la 40.



Anzi, il parco non è proprio l'ultima impressione di Terre Haute. Vedete questo portale qui sotto?


Trattasi di cimitero. Antico, ottocentesco. E fin qui tutto bene.
Ne esce però, inatteso, un grande obeso a torso nudo e pantaloncini attillati, berretto giallo e marsupio in tinta, che fa jogging nei vialetti, tutto paonazzo e sudato.
La cosa in sè è positiva. Nel senso: una persona inizia a prendersi cura di sè e del proprio corpo.
Ma.
Al cimitero?
Sul serio?

Il grosso dei kilometri è ormai alle spalle. Le scuole hanno davvero riaperto oggi e, intorno alle 14, è un via vai incredibile di scuolabus gialli in pieno stile Simpson, da cui scendono, ogni pisciata di cane, bambini e ragazzine che letteralmente si fiondano, correndo a gambe levate, lungo i vialetti dei giardini, fino alla porta di casa. La mamma di solito li aspetta in veranda. Ma questa corsa mi fa assai ridere: ne han già così i pieni i maroni dopo una sola mattinata di scuola?
Io quando tornavo dal liceo ero così bollita da camminare al rallentatore nel tragitto fermata-casa. Si contraeva il tempo, si dilatava lo spazio. Andavo su e giù per crateri e colline dello spazio curvo Eran 500 metri e duravano tre secoli e mezzo. Questi bimbi invece corrono a perdifiato. Sembra che l'autista li spari fuori a pedate nel culo! Tutti così. Una sventagliata di mitra. Fa troppo ridere!

Si arriva a Brazil, in un continuo succedersi di paesini minuscoli ma comodi per eventuali soste.
Questa cittadina, che sarebbe perfetta come tappa della giornata, non ha nè campeggi nè motel. Si chiama come la fattoria qui costruita nel 1840, quando il Brasile era tema di discussione comune. Ci sono diversi scambi di doni e altri segni di amicizia tra questo paesino e il Brasile.
Ha fatto scandalo che qui sia stato accettato denaro da Kentucky fried chicken e Fiery grilled wings in cambio di loghi pubblicitari sugli idranti. Ma capirai.





Noi, anzi io, che mi occupo di tutto il comparto logistico, nel bene e nel male, prendo una decisione davvero sbagliata. Mi viene un'idea di merda, potremmo dire con finezza da eleati. Per risparmiare 3 maledetti kilometri, pare bene lasciare la sicura e buona 40 e imboscarsi su stradine e sentieri di campagna. Che sarà mai, no? Una piacevole deviazione bucolica.
Del bucolico resta solo il buco, e slabbrato da tanto forte la si è presa in quel posto.

Dunque. Il fatto è che tra Greenup, dove siamo partiti, e Indianapolis, dove stiamo andando, ci sono 200km scarsi; ma non li si può dividere in due tappe da 100, perchè da dove siamo partiti o se ne fanno 80 e ci si ferma a Terre Haute (ma è troppo poco) o si va ben oltre, a 120 e fischia.
Ma nemmeno restando sulla 40, no! A 125km sulla 40 c'è solo Putnamville, nome che la dice lunga su molte questioni. Dunque bisogna pure fare una deviazione a sud, verso un paese che sta appoggiato sulla I70, l'autostrada. La prima cosa che si trova è un campeggio che si chiama Blackhawk, e noi stiamo andando lì, in mezzo al nulla. E con la strada più sbagliata che si potesse.

All'inizio sembra anche una cosa fattibile. Certo manca il bordo e l'asfalto è tutto scassato, ma non c'è traffico e intorno volano basse le rondini in uno stormire ipnotico di foglie. Fa dolce.





Poi però la strada diventa davvero molto, molto scassata. Pericolosa, piena di insidie, di buche, di sassi, ghiaia, sabbia e asfalto rotto. E poi sale e scende con rampe da tagliare la gambe. Il tutto condito dalla presenza di cani da guardia assai feroci e non legati nè chiusi, che ci inseguono latrando tra le colline assassine.









Passiamo l'Huffman covered bridge (questi ponti coperti son tutti segnalati come attrazione turistica e siti storici nei vari paesi che abbiamo passato) e ridiamo delle nostre disgrazie sapendo di essere proprio nel mezzo delle colline: andare avanti significa fare salite, tornare indietro anche. Sembra pure che questa strada mezza sterrata che corre tra i campi di mais non porti da nessuna parte, e inizio scherzare e dire che ci siamo persi e siamo quasi arrivati a Gaggiano. Gigi non ci casca, ma solo sulla parte di Gaggiano.







Invece, incredibile dictu, davvero non ci siamo persi. Tra boschi e torrenti, e salite naturalmente, riprendiamo una strada che ha la forma di strada




e arriviamo sferragliando al campeggio. Sferragliando perchè dovete immaginarvi tutti i 25 kilometri di colline di M fatti con le borse stracariche di spesa per la cena e la colazione di domani. Infatti il campeggio è lontano dai paesi, e lontano con i saliscendi in mezzo. Magari, forse, ma forsino, ha uno store, ma chissà. Certo non mi va di saltare la cena. Sicchè abbiamo fatto la spesa di lattine e tolle varie, e frutta, a Brazil, ultimo porto sicuro, in un supermercato che si chiama Save a lot (risparmia un botto, zio!). E quindi, dicevo, dovete immaginarvi tutte le salite, le buche, le fughe dai cani e il ghiaino con la bici che pesa come un Panzer e sferraglia ed emette suoni di tolle che cozzano. Brutta roba.

Prima di tornare lisssssie e senza grinze, le cose sembrano prende una piega anche peggiore quando arriviamo al campeggio. C'è un ufficio. C'è scritto che è aperto dalle 9 am alle 9 pm. Sono le 18.30, perfetto. Il ventilatore fuori, in veranda è acceso, e così le ventole del condizionatore dell'office, che è anche negozietto. Ma la porta è chiusa a chiave non c'è nessuno. Busso, chiamo, aspettiamo. Nulla. Decidiamo di metter la tenda e sticazzi, se verrà qualcuno, bene. Altrimenti, domattina presto ce ne andiamo e tanti saluti.



Nel campeggio, che è immenso, ci sono diversi camper, Rv vari e pure molte mobilhome. Qui va assai, ad esempio quando si va in pensione, vender casa in città e trasferirsi come residenti nei campeggi, in mobilhome o camper stanziali. Ecco, qui non mancano. Tutte ordinate, un po' marce e fatiscenti come è inevitabile che sia, spesso con una bandiera dei sudisti appesa in veranda, una barca algosa e girandole stinte a contorno. Ci sono le cose, le case, ma non le persone. Regna il più assoluto silenzio, escluse le cicale e gli uccelli, e gridi di aquile in alto.


Scegliamo un sito da tende, con tavolo, braciere e bagni vicini, e ci accampiamo. I bagni non sono sporchi, ma sembra che sia passato un tornado e abbia rovesciato tutto e stortato ogni mobile, tenda e specchio. Poco male: ci sono pure le docce e l'acqua sembra potabile. C'è la carta, c'è il sapone, c'è la luce. Andata.
Inizio a immaginare che stanotte usciranno dai boschi orde di zombie mezzi putrefatti. Ma la verità è un'altra.



Il tempo di fare la doccia e mettere in carica i telefoni basta per richiamare l'attenzione della proprietaria, che ci raggiunge su un caddy. La donna, che avrà 50 anni, è la persona umana più simile ad una rana grassa, nel corpo e nel viso, che io abbia mai visto. Ecco spiegato tutti: qui la gente vive nello stagno, nelle pozze e nei torrenti. Sono una genìa di uomini-batraci. Escono solo dopo il tramonto per chiedere i soldi del pernottamento. Poi, intascati i dollaroni, tornano a tuffarsi nelle acqua ferme, gonfiando il collo per il loro sordo canto.

In realtà la donna è molto gentile, anche se io davvero iniziavo a sperare di farla sporca e non pagare. La signora farà avanti e indietro mille volte, chissà a far che, ora sola, ora con il figlio adolescente, ora con la figlia poco più grande, ora con il marito. Tutti sono simillimi alle rane allo stesso modo. Vivono di fronte a dove abbiamo piantato la tenda, anche loro in una mobilhome.
Sembrano gli unici esseri umani oltre a noi. Evidentemente il Ferragosto non è molto sentito qui, anzi, oggi, come dicevo, sono pure iniziate le scuole! Meglio così: viaggiare in bassa stagione è solo un vantaggio.




La sera, comunque, prende una piega morbida. Ci sistemiamo e ceniamo nell'ultima luce, chiacchierando tra i sussurri delle foglie degli alberi. Fa fresco, al punto da indossare la felpa. Poi sorge una luna enorme e piena, che pare una luminaria appesa agli alberi. Si sente il fruscio di animali nel bosco, ma non hanno cattive intenzioni. Qui siamo al limitare del Lieber state park, un'area verde e protetta che si estende intorno al Cagles Mill Lake, un bacino artificiale costruito negli anni Cinquanta per prevenire le inondazioni.

Siccome non l'ho fatto prima, ecco due notizie in croce su questo stato che prende il nome dalle tribù di indiani che abitavano le praterie e i boschi prima che gli europei prendessero tutto. Cito Wikipedia:
"Il territorio, abitato da popolazioni algonchine, fu esplorato dai francesi che vi costruirono diversi centri commerciali fortificati. Nel 1763 venne ceduto agli inglesi e successivamente, nel 1783, agli Stati Uniti.
Costituito in territorio, venne rivendicato dai vari stati limitrofi insieme al resto del territorio posto ad ovest dell'Ohio (1787-1800). Divenuto territorio autonomo, entrò come 19° stato nell'Unione il 2 dicembre 1816.
L'Indiana è uno degli Stati appartenenti alla cosiddetta Corn Belt, la "cintura del mais": insieme a Illinois e Iowa contribuisce in modo determinante al primato maidicolo mondiale degli Usa. Oltre al mais, i suoi agricoltori coltivano la soia, e allevano grandi quantità di bovini, suini e pollame. L'agricoltura del Corn Belt è molto evoluta sul piano commerciale: gli agricoltori lavorano fissando sempre l'attenzione alla borsa di Chicago".

15/8
Cloverdale (inculandia)-Indianapolis
92km

Dunque, va detto: la tappa di oggi è stata breve e facile, praticamente una tirata unica.
Ma va aggiunto: la prima impressione di Indianapolis non è positiva. E' una città di traffico folle e strade orribili, di gente sgarbata e code oceaniche sgasanti. E' la metropoli meno bike-friendly attraversata finora. E con più brutti musi in giro. Domani la visiteremo da turisti e spero che questa prima impressione risulti errata.

Dunque, dopo una bella dormita (il materassino nuovo non è luxury come il mio rotto ma fa il suo dovere) facciamo colazione a tè di fornello e biscotti e leviamo le tende. Come ieri, anche stamattina non c'è anima viva in giro. Qualche doloretto si fa sentire: un dito affettato ier l'altro aprendo una tolla con il coltellaccio, un'unghia dell'alluce spetasciata chissà come, palmi delle mani e dei piedi ipersensibili e calli al culo, oltre a una probabile botta presa su una placca che ho nel gomito, che mi fa un discreto male. Insomma, sono un catorcio.
Però oggi la tappa è breve e la meta interessante. Così partiamo, e fa quasi freddo. Per i primi kilometri portiamo il gilet antivento giallo da omino dell'Anas.

Dobbiamo uscire dalle colline malefiche e tornare sulla 40, puntando a nord, a Putnamville. Quest'operazione richiede un bel po' di tempo, anche perchè carburare al mattino è storia lunga, storione. E le partenze in salita sono una pigna nel culo.











Tra boschetti e campi, rampe mannaggiaallamannaggia, e scorci pieni di grazia, arriviamo alla città e dunque alla strada.


Non sono riuscita a fotografare per bene, ma se vi impegnate si capisce qualcosa: spesso passano dei camion, preceduti e seguiti dalle auto che avvisano dell'oversize load, che trasportano intere casette, prefabbricate o mobilhome. Qui va alla grande, come dicevo già, probabilmente costa assai meno (e in caso di tornado porta via assai di più). Mi immagino che in quelle casette sui camion ci sian dentro due anziani che sorseggiano il tè in salotto, ignari del fatto che li stanno spostando da una conta all'altra.




Seguiamo sempre la 40, oggi, quasi fino in centro a Indianapolis. Google maps continua a propormi di uscire da questa bella strada e di prendere delle scorciatoie su strade secondarie. Nei bricchi. No grazie, abbiamo già dato ieri. Non mi fido più.

Passiamo l'equivalente di una casa cantoniera che serviva l'antica National road ottocentesca


ed una interminabile serie di paesini tutti uguali: casette, pratini, campo da golf, benzinaio.
Ci sono Mount Meridian, Stilesville, Clayton e Cartersburg.









Poi arriva Plainfield, e si capisce che Indianapolis è vicina. La 40 diventa trafficata, molto, di un traffico brutto, aggressivo e nervoso, di camionisti e gente che corre all'aeroporto. Ma la strada non si fa più grande nè più bella. Anzi, è stretta e tutta scassata, pericolosa davvero. Prendo botte così forti da temere per i raggi, oltre che di cadere. Su una discesa non vedo un grumo di asfalto e, quando riatterro dal carpiato acrobatico, ho perso entrambe le borse, 20 metri dietro, rischiando pure di far cadere Gigi.

Intorno, gran cartelloni pubblicitari, fast food un po' polverosi e odore di fritto e tubo di scappamento, misti.




Un bel pompiere dal sorriso smagliante, dall'alto del camion rosso, ci chiede del viaggio e si mostra assai entusiasta. Per il resto, la gente non è il massimo. Non sono abituati alle bici, probabilmente, nè vogliono tentare di tollerarle, se non rispettarle. E ci fanno via una fettina di culo superando tra madonne e sgasate, occhiatacce e versi ferini. Che vadano a dar via l'organ!


per i marines ci sono solo battaglie vinte. Ah. Buono a sapersi.


Con grande fatica, tra strade sempre più scassate (ma siamo a Kabul?) e traffico sempre più feroce e disumano, arriviamo al ponte sul White river, il fiume della città. Non vediamo l'ora di raggiungere l'hotel, un Super8 già prenotato ieri con colazione inclusa. Roba da sciuri a prezzo pop.


Facciamo tappa a un benzinaio perchè è troppo presto: il check in è dalle 15, sono le 14.30 e mancano solo 3km. Qui ci passa davanti un'umanità variegata e poco raccomandabile; magari non cattivi, ma nemmeno con le migliori intenzioni. Sulla porta del benzinaio sono affisse le foto, prese dalle videocamere di sorveglianza, di ladri e molestatori, come a Los Angeles. Diciamo che qui non ci sente proprio al sicuro nè ci si fida a lasciar le bici slegate fuori dal campo visivo.

Scoccate le 15 ci rimettiamo in sella. Ultime strombazzate di clacson, ultime male parole urlate, e si arriva al motel. Nemmeno a dirlo, pure questo è gestito da indiani dell'India... Siamo abbonati!
La buona notizia è che la camera è bella e pulita e grande


quella cattiva è che il motel non ha la lavanderia e tocca farsi due kilometri e mezzo fino alla prima laundromat; poco male: è accanto al supermercato dove saremmo comunque andati a far la spesa. Vista la distanza e soprattutto il molto carico (dobbiamo lavare TUTTO) decidiamo di andare in bici, con le borse svuotate e riempite di panni sporchi. La lavanderia, come sempre, è un crogiolo di umanità di tutti i colori, ma noi, più di tutti i casi umani che la popolano attiriamo l'attenzione della gente, che ci chiede di tutto: da dove veniamo, dove andiamo, che facciamo qui (indovina?!)... E nulla, se non sono in auto, sono anche gentili questi indianapoletani, o indianapolesi che si dica.



La sera serve a organizzare il giro turistico di domani. Ma non anticipo nulla!


16/5
Indianapolis
15km pedibus

La stanza ad Indianapolis
è buia ma ricordo
ricordo il tuono e il pubblico
e un universo sordo
poi che mi vien da ridere
e faccio per alzarmi
che oggi devo correre
e sto facendo tardi
poi che mi guardo e vedo ma
ci son le stelle fuori
e un mare di colori

E se non potrò correre
e nemmeno camminare
imparerò a volare
imparerò a volare


Questa canzone di Vecchioni e Guccini, che mi accompagna spesso anche nelle pedalate a casa, mi è rifrullata in testa parecchio, oggi e ieri. In fondo siamo proprio qui, ad Indianapolis, patria della famosa gara automobilistica, la 500 miglia, di coppe alzate e rombi di motori, e Zanardi sarebbe di casa.
Se volete ascoltare questo bel pezzo:
https://www.youtube.com/watch?v=aAZwSKr4u9w


Dunque, l'impressione di ieri, ovvero che questo non sia un paese per ciclisti, o per pedoni, oggi è stata più volte riconfermata. Diciamo così: escluso il centro e alcuni parchi, questa città è pensata per salire in auto appena fuori dalla porta di casa, e scendere dall'auto davanti alla porta dell'ufficio, del supermercato o del fast food. Non è possibile, ad esempio, andare a far la spesa a piedi al mall che dista 500 metri, a meno che non si voglia rischiare la vita: zero marciapiedi, zero attraversamenti pedonali, solo immense arterie che si gettano una nell'altra, strade a 4, 6 corsie percorse a tutto gas da un flusso ininterrotto di camion, auto e moto. E' come se numerose autostrade si incrociassero e ci fosse solo quello, appena fuori dall'uscio. La gente poi è nervosa (e ci credo! Una vita passata al volante, imbottigliati nel traffico) e aggressiva alla guida, ed è tutto un concerto di clacson e sgasate cattive.

Comunque, oggi le bici son rimaste in camera d'albergo, e ci siamo mossi in autobus (una corsa all'andata, verso il centro, e una al ritorno, senza le mille peregrinazioni cui siamo stati costretti nelle altre città); ma soprattutto a piedi. Il centro è vivibilissimo, passeggiabile e pedalabile; soprattutto, deo gratia, è piccolo, a misura d'uomo. Tutti luoghi d'interesse sono, al più a 2 kilometri uno dall'altro, a esagerare. Ci si sposta pedibus calcantibus e si risparmia un sacco di tempo, oltre ai danari. A Los Angeles o Kansas city, tra un museo e l'altro, potevano esserci anche una o due ore di pullman! Qui invece il centro è raccolto e a portata di mano, o meglio, di piede.

Stamattina, dopo abbondante colazione offerta dal Super8 gestito da indiani, e frequentato per lo più da indiani, siamo usciti nel clima fresco di un sole velato. A proposito di colazione: da queste parti va molto mangiarsi dei panini caldi "conditi" di salsa gravy, che sarebbe il fondo di cottura della carne allungato con farina e panna. Dunque, in sè la salsa è buonissima. E untissima e grassissima. Io ne metto un paio di cucchiai sul pane e già mi sembra tanta roba. Stamattina ho visto più volte delle corpulente signore riempirsi una SCODELLA di salsa e mangiarla al cucchiaio, come fosse yogurt. Deh.

Abitudini alimentari sane a parte, noi siamo usciti a piedi a prendere il bus che ci portasse in centro, a Downtown.



Accanto all'hotel, una chiesa luterana con tanto di aquila (si vede inscì e inscià nella foto) sulla croce.



Ci avviciniamo al centro in un bus semivuoto ma che presenta comunque un interessante campionario di umanità varia: il ragazzino punk in skate, la diciottene nera con un bambino di due anni in braccio e il pancione, di nuovo, l'homeless che si gratta le croste e l'anziano elegantissimo che si è messo il vestito buono per andare in centro.
Fuori sfila la periferia che è tutta strade e asfalto, e casette malandate, di quelle che i tornado e le alluvioni portan via. E poi iniziano i palazzoni.


Scendiamo al capolinea, proprio in centro; qui grattacieli e lucenti sedi di banche, mega hotel in vetro e uffici delle multinazionali sono la cornice di una società schizofrenica e malata di contraddizione. Homeless, quasi tutti di colore, tossici senza denti e con l'aria allucinata, uomini d'affari in giacca e cravatta, grandi obesi e atleti dal fisico tiratissimo contendono la nostra attenzione. Davvero c'è di tutto, ogni cosa e il suo contrario. E' una civiltà di estremi, di tutto e niente, di troppo e nulla. Qui un senzatetto urla e parla da solo, camminando in mezzo alla strada, incazzato com'è con la vita, ora un businessman sfreccia sul suo monopattino elettrico mentre fattura con le cuffiette senza fili e la mela sopra. Per noi europei è un ambiente umano allucinante, per me, in specifico, un clima di erranza in tutti i sensi. Mi sento come Dante che passa per i mondi ultraterreni, e guarda incuriosito e vede il fondo più fondo dell'inferno e le più auree e luminose altezze del paradiso. Se avessi il sottanone rosso, anch'io me lo terrei sollevato come quando passa nel fanghiglia puteolenta del III cerchio, dove sta Ciacco.



Concedetemi due parole sulla storia della città, altrimenti si capisce un caso. Indy fa quasi 900.000 abitanti, è la città più popolosa dello stato e la 13° della nazione. Sta quasi nel centro geografico dell'Indiana.

I nativi americani che vivevano nella zona, le tribù Miami e Lenape (o Delaware) furono sfollate a cominciare dal 1820, quando Indianapolis fu scelta come sede della nuova capitale dello stato, sostituendo la precedente Corydon, che lo era stata fin dalla formazione dell'Indiana nel 1816. È stata fondata sul White River con il presupposto errato che il fiume sarebbe servito come un'importante arteria di trasporto. Tuttavia, il corso d'acqua alla fine si è rivelato troppo sabbioso per il commercio.
Jeremiah Sullivan, un giudice della Corte Suprema dell'Indiana, inventò il nome Indianapolis unendo con Indiana con la parola greca polis. Un genio! Un poeta! Lo stato commissionò ad Alexander Ralston il progetto la nuova capitale. Ralston era un apprendista dell'architetto francese Pierre L'Enfant, con cui aveva contribuito a progettare Washington. Il piano originale di Ralston per Indianapolis prevedeva una città di un solo miglio quadrato (circa 3 km²). Al centro della città fu posto il Circolo del Governatore, che doveva essere il sito del palazzo amministrativo. La capitale si trasferì effettivamente da Corydon il 10 gennaio 1825. Il palazzo del governatore fu demolito nel 1857 e al suo posto sorge oggi un monumento neoclassico in bronzo e calcare alto 87 metri, The Indiana Soldiers' and Sailors' Monument. La strada circostante è ora conosciuta come Monument Circle o semplicemente "The Circle". L'attuale sede del governo, il Campidoglio, fu costruita nel 1878.
La città si trova sull'originaria ferrovia nazionale est-ovest. La prima ferrovia a servire Indianapolis, la cosiddetta Jeffersonville, Madison and Indianapolis Railroad, entrò in funzione il 1º ottobre 1847 e successivi collegamenti ferroviari resero possibile la crescita espansiva della rete di trasporti e della città. Indianapolis è stata la sede della prima Union Station, una stazione con binari gestiti da due diverse compagnie ferroviarie. Entro la fine del XX secolo, Indianapolis era già diventata un grande produttrice di automobili, rivaleggiando con pionieri del settore del calibro di Detroit. Con strade che portano fuori dalla città in tutte le direzioni, Indianapolis è diventata un importante nodo di trasporto regionale che collega a Chicago, Louisville, Cincinnati, Columbus, Detroit, Cleveland e St. Louis. A tal proposito, si addice alla capitale il soprannome di The Crossroads of America ("Il crocevia dell'America"). Ci passano pure 6 e dico 6 Interstate. Ce ne siamo accorti!
Una rivitalizzazione delle aree degradate della città, come ad esempio Fall Creek Place e il centro, ha avuto inizio nel 1980 ed ha portato ad un'accelerazione della crescita ai margini dell'area metropolitana. La città ha ospitato i Giochi panamericani nel 1987 e, insieme allo stato, ha investito pesantemente in progetti di miglioramento, come l'espansione della Indiana Convention Center, l'aggiornamento della tangenziale della I-465 e la costruzione di un nuovo terminal aeroportuale per l'Aeroporto internazionale di Indianapolis.

Ora è tutto più chiaro. Dunque, il nostro tour parte proprio da Downtown e dalle zone riportate a nuova vita grazie ad uffici e banche, centri commerciali e sedi di multinazionali.





Qui in centrissimo ci sono diversi percorsi ciclopedonali (noi seguiamo, in parte, il cultural trail); ma qui e solo qui. Non fate come me, che mi son lasciata abbindolare dalla guida ufficiale della città, che la spaccia come bike friendly. Non lo è. Si rischia veramente di esser tirati sotto e male appena fuori dai 3x3km del centro.






Tra un palazzone grigio e un palazzone grigio scuro (questo è il colore che predomina, nei muri, nelle strade, nel cielo e nelle fontane che riflettono, come i pensatori), arriviamo al cuore pulsante, nonchè centro esatto, di Indy. In una piazza circolare, tutta attorniata da grattacieli che chiudono lo sguardo, sorge, al posto del fu palazzo del governatore, il soldiers and sailors monument. Questo complesso, chiamato the circle, dove il traffico comunque corre (e figuriamoci se esiste un'area pedonale) è il simbolo della città e si trova pure sulla sua bandiera.





Il monumento è stato costruito tra 1888 e 1902 ed è dedicato ai caduti della guerra di secessione e della guerra contro il Messico e di quella ispano-americana. Oltre ai nomi dei caduti, disseminati anche sulle mattonelle intorno, ci sono numerose statue e gruppi scultorei, tutti in stile neoclassico. In cima si erge l'immancabile Nike. Vogliamo vederci un simbolo fallico, in tutto ciò? Vogliamo vederci una sega a due mani per congratularsi da soli delle vittorie militari? Sì, vogliamo.

Fino a qualche tempo fa nessun edificio, per legge, poteva superare gli 87 metri del monumento; poi è arrivata la Chase tower (nella foto sotto a destra) e ciao.

















Si può anche salire in cima al monumento per godere di una bella vista panoramica su Downtown e sulle 4 strade che si aprono ai rispettivi punti cardinali intorno a The circle. Si può salire a piedi, ed è gratis, o in ascensore, e costa 2 dollari. Noi siamo in forma e prendiamo le scale, con i loro 330 scalini, ciascuno dedicato a un caduto.




La vista panoramica merita la fatica, e dall'alto si percepisce la grandezza di questi edifici; sembra di essere di fronte a un modellino, ma in scala ingrandita. E si vede anche come, appena finisce il perimetro urbano, è tutta un'esplosione di boschi e campi. Asfalto e cemento segnano una linea netta che separa metropoli da campagna, verde da grigio.








Scendiamo e completiamo il giro attorno alla colonna, da cui è difficile staccare lo sguardo, tanto è muta e imponente e austera. Questi uomini qui, congelati in uno sguardo di bronzo, questi uomini eleganti e urbani, hanno scritto la storia con il sangue, a colpi di cannone e sciabola. Questi uomini qui, che sono i grandi che si studiano a scuola, e se ne imparano i nomi e le date di nascita e morte, son tutti assassini. E bravi padri di famiglia e filantropi, ca va sans dire.






Attraversata la strada, si incappa subito nel mastodontico palazzo di giustizia, in stile neoclassico, che ci ricaccia a pedate back home nelle architetture europee de casa nostra.









Tra un palazzone e l'altro, dove non manca nemmeno il camion dei pompieri, e par di essere nel set di un film di Hollywood, si arriva alla University plaza, con la sua bella fontana di nereidi e tritoni. Ma attenzione: già questo spazio fa parte del grande war memorial che occupa un quartiere intero, in un'infilata di piazze, palazzi, musei, statue, targhe, lapidi e monumenti. Una sega a due mani, dicevamo, per raccontarsi vincitori.








Questo affare impacchettato, che si trova a qualche centinaio di metri dalla colonna in onore di soldati e marinai, è il museo dedicato a tutte le guerre cui l'Indiana, e gli Usa in generale, han preso parte. Ricorda il Mausoleo di Alicarnasso, ma è più grande (e figuriamoci). L'edificio è stato pensato all'indomani della Grande guerra, per commemorarne i caduti, ma, a causa della Grande depressione, i lavori si sono bloccati. La costruzione è stata ultimata nel 1951, quando si è deciso di farne un memoriale di tutte le guerre.




Appena si entra si deve lasciare lo zaino (metti che siamo terroristi) e si viene squadrati da un ometto in divisa molto serio; non c'è biglietto d'ammissione. Viene dato un plico di fogli plastificati per i self guided tours, da restituire all'uscita.
Appena dentro, c'è la copia della Liberty bell (l'originale è a Filadelfia), che passò nelle città statunitensi a testimoniare la fine della guerra civile.


Poi esplode a pistolotto tutto l'orgoglio americano nei confronti del suo esercito, dei suoi soldati e delle sue vittorie in ambito militare. Dicevamo, onanismo spinto.





All'interno della conference hall, per altro, si sta svolgendo la cerimonia di consegna dei diplomi. Ci sono ragazzi e ragazze tutti in tiro, tacchi e trucco, scarpe a punta di vernice e fiocchi e gioielli per i neri. I diplomati sono in fila per ricevere la toga e il berretto quadrato. Le famiglie, umanità variegata in ciabatte o tacchi a spillo, aspettano fuori. L'odore di cibo del rinfresco pervade tutte le sale del museo.


Questa esposizione segue in ordine cronologico le varie guerre combattute dagli Stati Uniti e dunque pure dall'Indiana. E' un tributo ai caduti, una dimostrazione di forza, uno sproloquio vanaglorioso ma, in primis, un bel ripasso di storia.



Si inizia dalla guerra d'indipendenza americana, vinta contro gli inglesi








si passa alla guerra civile






 e si giunge alla Grande guerra, vinta anche questa




scarpe a confronto. Interessante! Le scarpe facevano la differenza tra vincere e perdere una guerra












Tra crocerossine e soldati belli e tronfi, morti così, giovani e forti, e morti appunto, si passa poi alla seconda guerra mondiale. Vinta, ovviamente, anche questa. E' interessante notare due cose: anzitutto, la figura meschina che ci facciamo noi italiani.








In secondo luogo l'importanza della pubblicità che ha mosso l'opinione pubblica. Lo sapevano i regimi, certo, ma qui la gente davvero è stata convinta ad arruolarsi, o a comprare i buoni di stato, o a entrare nell'esercito della mietitura mentre gli uomini erano al fronte.















Tanto spazio è dedicato sempre al contributo delle donne. E altrettanto a dipingere i volti sorridenti e fieri, "pilota biondo camicie di seta / cappello di volpe sorriso da atleta" dei soldati. Non si vedono i mutilati, gli invalidi, i volti straziati e quelli alienati degli scemi di guerra. Gli eroi son tutti giovani e belli. E così sembra bello anche morire, come cantava Omero, e ancora dopo, dulce et decorum est pro patria mori.

Dove sono i generali 
che si fregiarono nelle battaglie 
con cimiteri di croci sul petto
dove i figli della guerra 
partiti per un ideale 
per una truffa, per un amore finito male
hanno rimandato a casa 
le loro spoglie nelle barriere 
legate strette perché sembrassero intere.

Si passa poi alla guerra fredda



a quella di Corea






e al Vietnam, unica macchiolina sull'immacolata carriera militare statunitense. Questi sono gli elicotteri che buttavano il napalm sui villaggi, queste le armi usate per ammazzare. Nessuna traccia delle contestazioni, in questo museo dove non c'è posto per obiettori, fricchettoni, pacifisti, capelloni e umani dubbi su ciò che sia giusto e cosa invece no.





Si passa poi alla Guerra del Golfo



notare i fregi alle pareti: proiettili e bombe



All'attentato dell'11 settembre e alla conseguente guerra in Iraq. Questa è la parte più interessante, a mio avviso. Si vede come l'americano medio abbia vissuto questi tragici momenti su cui ancora deve esser fatta chiarezza, al di là delle verità che son state raccontate. Si percepisce l'orgoglio ferito, la distruzione di una bolla di sogno per cui l'America fosse inattaccabile e il panico e le psicosi collettive conseguenti. E la risposta armata, tremenda, in forma di rappresaglia, che non si è fatta attendere.



una poltrona di Saddam





E' interessante leggere anche come gli statunitensi descrivono la loro "utile e pacifica permanenza" in territori come l'Iraq o l'Afghanistan. Sembra stiano solo portando pace, conoscenza e democrazia, sviluppo e crescita. Sembra. Davvero la storia è scritta dai vincitori. E davvero la storia è un auto-racconto per darsi identità. Vale per i singoli, per ciascuno di noi nel privato. E vale ancor più per culture e stati, ovvero nazioni. Ci si racconta la propria storia per darsi un nome e un volto. E' così da sempre.









Mentre penso a queste faccenducole, tra una foto della botola da cui han tirato fuori come un coniglio Saddam e quella di un fucile ipertecnologico, incappiamo nella sfilata dei diplomati, che ridono e scherzano in un profumino di fritto che non vi dico. Anticlimax necessaria, devo ammettere.


Dopo una scalinata tappezzata di nomi incisi nel marmo, e son morti, feriti o reduci



si arriva all'apice della sega a due mani, il vertice ultimo del fiero onanismo bellico del "siamo una squadra fortissimi". Ed è vero eh, sono LA potenza militare per eccellenza. Ma io nemmeno in Russia ho visto tanto, e la Russia non scherza affatto in autocelebrazioni, dimostrazioni vane di forza e sfilate e bandiere. Ma non a questo livello!
All'ultimo piano del museo/mausoleo c'è una sorta di tomba del milite ignoto, a tutti i caduti di tutte le guerre. Sopra all'altare, simbolo del sacrificio, che è anche una tomba, sta appesa un'immensa bandiera a stelle e strisce, che scende da un cielo stellato di neon.







Intorno, alte colonne nere e bandiere, in un gioco di luci soffuse ed ombre, celano i volti dei generali e dei comandanti. Quelli che si fregiarono di cimiteri di croci sul petto, appunto.


Da nessuna parte, mai, nemmeno per vuota retorica, è scritto che la pace sarebbe una via preferibile. Da nessuna parte compare l'orrore, l'atrocità, l'errore della violenza dell'uomo contro l'uomo, contro la natura. E' un tronfio esaltare la vittoria, che è una vittoria in guerra, intrisa di sangue. Sono i migliori, nel peggio.


Ma mica è finita qui. Ancora, procedendo, si incrociano monumenti in memoria dei caduti e strade dedicate ai soldati, ai veterani e ai reduci. Indianapolis vanta di essere la città con il maggior numero di luoghi e monumenti di questa natura. Tutto il centro è oggettiva, tangibile manifestazione di orgoglio patriottico per il proprio comparto bellico.
C'è anche un quartiere dedicato all'American legion, che finisce proprio a ridosso della biblioteca, primo edificio di pace che vedo in questa sfilata simboli fallici.










Tornando indietro verso the circle, non ci lasciamo sfuggire un'occhiata alla Scottish rite cathedral, costruita tra 1927 e 1929 per 2.5 milioni di dollari, alla faccia della Grande depressione. Ogni sua misura è perfettamente divisibile per 3 e risulta essere l'edificio massonico più grande del mondo.




Non a caso, proprio di fronte, si trova il museo della massoneria.


e uno squirello tra i molti che corrono nei prati e sui rami dei parchi.


Torniamo a the circle e ai suoi palazzoni, ora, con un poco di sole, leggermente meno grigi. Mi fa sempre impressione camminare in strade dove il sole illumina solo a mezzogiorno, e d'estate, perchè altrimenti nascosto dai grattacieli.








Superiamo la biblioteca "on the road" e, dopo una rapida pausa pranzo a base di gyros greco, procediamo verso il campidoglio dell'Indiana.







Qui, dove ha sede il governo dello stato, c'è una pietra che segna il passaggio della National road, di cui ho già parlato i giorni scorsi;


non manca poi una statua di Washington



e la citazione di un discorso di Lincoln, che si fermò qui prima di raggiungere la capitale e ricevere la carica di presidente. Disse, il saggio Abramo, che stava alla gente, al popolo, ai cittadini, più che ai politici e ai burocrati, mantenere unione e libertà e consegnarle alle generazioni future.


Passiamo dall'Eiteljorg museum, dedicato ai nativi americani


e dall'Indiana convention center, dalla biblioteca di stato



e dal museo dell'Indiana.





Giungiamo così all'ultimo tratto del tranquillo canale, lungo cui corrono ciclabili e sentieri davvero piacevoli. Quasi non sembra di essere nella stessa città delle stradone trafficate di stamattina e ieri.



Qui si entra nel white river park, il parco che sorge lungo il fiume che attraversa Indy.



Scopo della visita è il NCAA, il national collegiate athlete association. Qui c'è la sede dell'associazione degli atleti-studenti, qui, in un palazzetto degli anni '30, si trova la hall of fame dei talenti sportivi più celebrati a livello nazionale e internazionale. Indianapolis è una città dove lo sport è tenuto in grande conto, dal basket al baseball, dalle gare automobilistiche al golf, e via così.






Questo è il regno di Gigi, che mi spiega la storia dei nomi e dei volti. Qui, ad esempio, c'è l'ideatore del gioco del basket, i suoi appunti, i primi palloni e i canestri ante litteram.





Non manca l'esaltazione delle glorie e delle vittorie sportive. Ma preferisco questo autoincensarsi a quello dei memoriali di guerra. Lo sport è una bella sublimazione, un conflitto non armato, una sfida in pace. Lo è da sempre. Lo insegnano i greci.



La parte bellissima e divertente di questo museo è che ci si può cimentare in prima persona nelle varie discipline. C'è un piccolo campo da basket con a terra, segnati, i punti da cui grandi atleti han fatto canestro.



coach vs arbitro




Poi si può provare a far lanci per il baseball, passaggi del rugby con la palla ovale o calci in rete per il soccer. Ci sono i fucili e le spade, una macchina che simula il sciare e così via. Davvero è un modo interessante per appassionare allo sport, perchè ci si diverte.
I 100 anni dell'associazione sono celebrati in questo logo


composto da migliaia di minuscole foto di atleti. E pluribus unum, come recita anche il motto star and stripes.


Concludiamo la passeggiata raggiungendo il fiume e la pietra che segna il punto dove si trovava la capanna del primo pioniere che mise piede in questa terra, dove simbolicamente nacque la città.





Poi torniamo verso the circle, piano piano, assaporando il nuovo gusto di questa città dai due volti: casino e delirio, traffico e smog in periferia, pace e ordine e tranquillità in centro.






Passiamo dal teatro


e dell'art garden


zone assai belle e riqualificate da poco, dove tuttavia non mancano gli homeless, molti dei quali piuttosto aggressivi e molesti. In California, a Los Angeles o San Francisco, i senzatetto stavano sulle loro, in una sorta di silenziosa, mite rassegnazione; qui invece ci sono rabbia e rancore. Ma si capisce. E' forse la cosa più normale, umanamente parlando, e più sincera, onesta e vera, che abbia visto oggi, tra bandiere e morti in guerra sorridenti.




Aspettiamo il bus in una piazzetta di fronte alla sede del comitato olimpico. Qui ci sono tavoli da ping pong, il calcio balilla, un jenga enorme, tavoli per gli scacchi e la dama, un campo da volley, dondoli meravigliosi, panchine e tavolini colorati, oltre alla wifi libera







e la gente, incravattati con il rolex o barboni, si godono la calma del luogo, chiacchierando, leggendo o giocando. Anche noi, mentre aspettiamo il bus, facciamo qualche partita a calcetto e ci divertiamo come bambini. E così anche Indy si è riscatta.

Certo, per far la spesa (a piedi, in zona motel) rischiamo di far la fine degli armadilli e degli opossum, spiaccicati e stirati sull'asfalto. Ma amen. Sul bus al ritorno una ragazzina nera, dopo essere pappata una pannocchia bollita facendo gran casino di briciole e unto, mi chiede da dove veniamo, dice che vorrebbe studiare il francese, il tedesco, l'italiano e tutte le lingue dell'Europa. Poi le dico del nostro viaggio in bici e la sua unica risposta è "Why?!". E scende dicendo che Indianapolis le fa schifo, verrà in Italia a vivere.

La sera è dedicata a studiare le tappe dei prossimi giorni. Ora puntiamo a Pittsburgh, che dista poco più di 600km; domani resteremo in Indiana, poi si entrerà in Ohio. Andiamo a Pittsburgh perchè lì inizia la GAP, la great Allegheny passage, altra lunga ciclabile costruita sulla sede di una ferrovia in disuso, rail to trail tipo la Katy. Speriamo che le colline e gli Appalachi siano gentili... Intanto, domani, si torna on the road again!

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