mercoledì 21 agosto 2019

51-52. Nel cuore dell'Ohio, tra Amish, ciclabili verdissime e azzurro di cielo e fiumi





19/8
Urbana-Mount Vernon
134km

Quella di oggi è stata una bella tappa intensa, ricca di imprevisti, principalmente in bene; vale a dire: abbiamo avuto una serie di botte di culo inattese.

La prima, il cielo. Gigi ieri aveva guardato le previsioni (cosa che si ostina a fare nonostante io non voglia saperne nulla) e di massima davano pioggia tutto il giorno. Invece no, fin dalle prime ore era già alto un sole caldo e pieno, ancora estivo. Ci siamo rimessi la crema solare dopo diversi giorni che non lo si faceva.
Oltre al sole, il vento anche oggi ci è stato amico quasi per l'intera tappa, spingendoci ad oriente con garbo, ma ostinatamente. Sicchè i primi 50km sono volati nel giro di poco, e non è cosa irrilevante: svoltare i primi 50km significa già portarsi verso la metà tappa, ovvero una prima sosta.
Di positivo oggi c'è stata anche la pianura, o comunque i saliscendi moderati e addolciti da Eolo in buona; da un momento all'altro, ormai, ci aspettiamo che inizino le rampe vere, quelle tremende e continue, quelle impietose e infinite, delle colline che precedono gli Appalachi. Ci siamo, manca poco e lo sappiamo. Ogni ora di pianura o quasi che troviamo in più è un'ora di grazia regalata. Con oggi temo sia finita la pacchia, eh, ma intanto si è portata a casa una tappa in più senza troppo dislivello.
La gente, alla guida e non, si è dimostrata gentile e rispettosa come sempre; il che aiuta e non poco, visto che capita (e oggi è andata così) di finire su strade che d'improvviso, da deserte, si fanno trafficate e strette, congestionate di camion, e poi sfociano in mega svincoli dove convergono anche due o tre interstatali e si spalanca l'inferno.
Dunque, se le strade sono state forse l'unica nota negativa della giornata, e dopo spiego perchè, va detto pure che abbiamo concluso la giornata su un'inattesa ciclabilona di quelle luuuuunghe che seguono una fu ferrovia.

Donc, riavvolgo il nastro.
Siamo partiti dopo una colazione (non pagata nè inclusa, ma regalata pro bono) offerta dal motel.
Riportate giù le bici e le borse (avevamo la stanza al secondo piano senza ascensore), siamo partiti sempre seguendo la nostra cara US 36, che abbiamo pedissequamente onorato fino all'arrivo, salvo gli ultimi 30km in ciclabile (comunque parallela alla strada).

Con il vento a favore e il sole in faccia abbiamo attraversato volando una serie di colline subito fuori Urbana. Qui minuscoli villaggi rurali si susseguono interrompendo la serie di campi di mais e soia e di boschetti incolti. Abbiamo superato Milford Center (1816) e la città di Marysville, che ha per slogan la frase "where the grass is greener" ed è stata designata dalla first lady Laura Bush, nel 2008 "preserve America community".



Marysville, fondata nel 1819 da tal Cuthbertson, che chiamò la città come sua figlia Mary, fu designata come capitale della contea Union. Per qualche decina d'anni rimase una cittadina con edifici amministrativi, la prigione, qualche negozio e diverse case di agricoltori. Poi aprirono le prime banche e le prime industrie (qui nel 1847 sorse la più grande fabbrica di potassa d'America e poi un lanificio, una distilleria, un impianto siderurgico e un caseificio). Nel 1890 la città era cresciuta in dimensioni, numero di abitanti e ricchezza. E la sua felice storia di prosperità ha proseguito anche nel passato recente: qui, dalla metà del secolo scorso, hanno uffici e centri di ricerca e produzione alcune multinazionali come la Nestlè o la Honda.

Di Marysville, tuttavia, non ho foto. Perchè la città, che per altro è una porta d'accesso, da nord, alla capitale dell'Ohio, Columbus, è un crocevia di stradoni di merda. Pericolosi e trafficati di auto e camion che sfrecciano a 130 all'ora. La 36 si getta nel mare magnum di queste arterie gonfie di motori rombanti che assordano e tocca pedalare nel bordo, per fortuna largo, di quelle che sono l'equivalente delle nostre autostrade. Ogni volta che dobbiamo tagliare una corsia di immissione e uscita, percepisco con chiarezza la possibilità di essere tirata sotto da un bisonte di lamiera lanciato a cento all'ora e guidato da una distratta fanciulla che sta messaggiando con le amiche o da un giovanotto alticcio. Poi, per fortuna, quest'alito di finitudine svanisce e tutto va come deve. Ovvero, sopravviviamo.

La strada torna improvvisamente ad essere piccola e tranquilla appena fuori dall'orbita di Marysville-Columbus, e si insinua tra i fianchi morbidi delle colline, ora coperte di boschi scuri, ora bionde di campi. Noi abbiamo bisogno di una pausa, dopo lo stress degli stradoni, e ci fermiamo a New Dover (1856), un paesino così radicato nelle sue tradizioni agricole da avere, fuori dal benzinaio, casse di frutta e verdura locali in vendita. Incredibile! Una rarità qui negli States!
Altra cosa desueta è che qui fanno i panini "freschi", cioè li imbottiscono al momento, e non si limitano a tenere in caldo delle suole di scarpa stagionate. Questo attira camionisti e operai che affollano il locale. Inutile dire che ciascuno di loro ha una parola o uno sguardo per noi, ma sempre gentili e ammirati.



Si riparte, decisi a fare la pausa pranzo a Sunbury, a circa 90km dalla partenza. Nel mezzo ci sono solo colline, e un grande incrocio di strade che ha attirato più negozi e servizi di quanti ne abbiano i paesi qui in zona. Ci sono i soliti fast food, le catene e i motel. Ma non c'è la città. Ci sono solo le uscite di una Interstate. A dimostrazione di quanto stia in auto la gente qui. Praticamente l'americano medio o si ingozza di porcherie, o sta in auto, o al lavoro, o a tagliare il prato, o stiacciare procioni. O due o tre cose di queste contemporaneamente.

Si arriva senza troppo sforzi a Delaware, unica città vera e propria sul tragitto.



Delaware prende il nome dalla tribù di indiani, anche se i primi coloni, due barbuti energumeni in mutandoni di lana, fondarono la città dove già c'era una villaggio dei nativi Mingo. Uno dei due trovò pure, vicino alla sua capanna, una sorgente di acque sulfuree, che oggi dà il nome a un paesino. Delaware si sviluppò però solo a metà del XIX secolo, quando divenne stazione della ferrovia tra Cleveland, Columbus e Cincinnati. Qui, durante la guerra di secessione, c'erano due campi di addestramento dell'Unione.






Superiamo l'Alum creek lake, dove qualcuno, sfidando le correnti, sta facendo il bagno.




E giungiamo infine a Sunbury, che è una città nuova e in piena espansione, che trova la sua fortuna negli snodi di grosse arterie di traffico che passano da queste parti.


Anche noi di qui, dopo una pausa pranzo al Dollar general, la catena in assoluto più diffusa nel Midwest, ripartiamo verso altri lidi e altri porti. Sempre sulla 36, che ci porta tra saliscendi sempre più marcati verso nord-est, tra colline di boschi e campi di granturco, villaggi e paesotti.
Purtroppo la strada qui è ben stretta e senza bordo, e trafficata del flusso di auto e camion che vanno a nord, a Cleveland, verso il lago Eire.



Casualmente incrociamo Centerburg, e presto capiamo il perchè del toponimo.
Nel 1830 questo paese è stato fondato nell'esatto centro geografico dell'Ohio, nel suo cuore geometrico.






A proposito di cuori, proprio qui, inaspettatamente, inizia una bella ciclabile asfaltata che ci porta via, per tutto il resto della tappa, dal traffico, dal rumore, dallo smog e dallo stress della strada stretta. Una benedizione davvero è questa striscia di asfalto che corre fra i campi di mais già alto e i boschi, sempre costeggiando il letto del minuscolo ruscello Dry creek.


Anche questa è una rail-to-trail, ovvero una ferrovia, caduta in disuso negli anni '60 e '70 e trasformata in ciclopedonale (qui niente cavalli, a differenza della Katy). L'intero percorso è asfaltato, super segnalato e pulito. Abbiamo incrociato noi stessi un volontario che aveva appena finito di tagliar l'erba a bordo della pista. Ci sono dei servizi sparsi (bagno chimici, tavoli e panche) e la ciclabile corre parallela alla 36, incrociando i paesi. Serve probabilmente da costola alla lunga pista che, da qui, porta fin su al lago Eire, che è grande come un mare.






Non ci lasciamo sfuggire l'occasione di pedalare lontani dal traffico e ci godiamo così le ultime decine di kilometri, che profumano di fieno e muschio, nel silenzio interrotto dal volo rapido di un cardinal rossofuoco.





Arriviamo a Mount Vernon, dove ho prenotato un motel qualche ora prima (e al telefono ha risposto il solito indiano dell'India con accento da indiano dell'Indiano).
La città si chiama così in memoria dell'omonimo possedimento del presidente Washington, ed è stata fondata nel 1805. Qui si ricordano due eventi, per farvi capire in cosa consiste la storia locale: nel 1953 un incendio interruppe le linee telefoniche e la città resto isolata per mesi; nel 1959 un'alluvione distrusse 500 case e provocò 5 milioni di danni.
Qui però si trova ancora la Woodward opera house, il più antico teatro d'opera degli States.

C'è un'altra chicca a Mount Vernon, e approfittiamo della ciclabile per visitarla subito. Si tratta dell'Ariel foundation park. Sono 250 acri di parchi impeccabile, tenuto perfettamente come una bomboniera, che ha riutilizzato con fini artistici e culturali il sito di una ex fabbrica di vetro. Quello che si sarebbe potuto risolvere in un rudere pericolante e arrugginito, è stato trasformato in un parco pubblico, gratuito, pieno di sculture e attrazioni (labirinto, laghi, un museo, un punto d'osservazione).




Nel 1976 chiude i battenti la Pittsburgh plate glass, e molte famiglie se ne vanno alla ricerca di un altro lavoro. Nel 2000 la Community foundation di Mt Vernon e la contea di Knox versano al comune la cifra di 151.000$ per acquistare il primo lotto di terreni dove sorge la carcassa della fabbrica; tra borse e premi per i bei progetti, l'area del parco si espande e abbellisce, si arricchisce di piste ciclabili (come quella percorsa da noi, e quella del fiume Kokosing); e via così, tra donazioni, architetti e artisti, sindaci compiacenti e tanta buona volontà da parte della Fondazione. Volontà e dollars ovviamente.



Non c'è che dire: il risultato è bellissimo, impeccabile. E' il giusto mix tra malinconici ruderi da archeologia industriale, riutilizzo creativo, arte e storia. Non manca nulla. Io ho anche la bella idea di salire sulla Rastin tower, con le scarpe con gli agganci da bici. A scendere, siccome soffro di vertigini, me la faccio sotto più volte e mi pento dell'idea, poi no, poi sì, poi no.




























Raggiungiamo infine il motel, sgrauso il giusto, e scopriamo che si trova proprio all'altro ingresso del parco. Perfetto! Sarà tranquillo stanotte. Ci tocca andare a far la spesa in bici, perchè il centro non è vicinissimo e in zona c'è solo un supermercato drive thru, di quelli dove entri in auto e non scendi, ma fai acquisti direttamente al volante. Conversiamo un poco con i cassieri e noto che ormai quando dico che siamo partiti da San Francisco molti, in prima battuta, non capiscono, perchè credono di aver sentito male. Ma poi, quando ripeto, si rendono conto di aver inteso giusto e sgranano gli occhi e spalancano la bocca in uno WOW che non finisce più. E direi! Ce lo meritiamo, un pochetto.



Domani inizieranno le colline, e noi dovremo affrontarle, fermi di spirito e gentili di cuore come sempre. Pittsburgh ormai è a meno di 300km, e abbiamo 3 giorni per percorrere questa distanza. Non siamo di corsa e possiamo goderci queste tappe di estate che declina. Saranno impegnative, ma bellissime: la strada corre in valle, lungo il fiume, tra le pendici strette del primo assaggio di Appalachi. Sono curiosissima!


20/8
Mount Vernon-Uhrichsville
127km

Ed eccoci qui, la sera, mentre fuori imperversa un temporale brontolone di tuoni e strappato dai fulmini, dalle famose colline, che poi troppo cattive non sono.

Ieri sera ho studiato un poco il percorso e ho visto che i primi 20km di oggi si potevano tranquillamente fare su ciclabile, evitando un tratto di 36. Qui da Mt. Vernon, in specifico dall'Ariel foundation park, in cui abbiamo praticamente dormito, parte infatti il Kokosing gap trail, una bellissima ciclopedonale che corre lungo l'omonimo fiume.
Ma ne parliamo tra poco.
Siamo usciti dopo una colazione in camera e il sole era già alto ma senza scottare: declina l'agosto e la luce è già più tiepida.
Appena fuori dalla porta del motel imbocchiamo un sentiero dell'Ariel park e ne ammiriamo una fetta che ieri ci era sfuggita: quella che costeggia i laghi. Anche qui tutto è tenuto con la massima cura e regna una sorta di disumana perfezione, come se fossero scesi sulla terra alcuni bravi alieni giardinieri ed avessero rimesso ordine in un mondo divorato dal caos.
Per altro, i sentieri sono deserti: un po' perchè qui hanno le strutture e gli spazi migliori del mondo, ma la gente non li usa perchè pesa troppo il culo a scendere dall'auto; un po' perchè è un martedì mattina fuori ferie, in una zona di paesini piccoli piccoli.
Insomma, si pedala che è un piacere, nel canto degli uccellini che frullano tra i rami.














Si arriva in centro al paese e qui la ciclabile si divide: un ramo porta in downtown, un ramo alla ciclabile che collega l'Ohio al lago Erie, uno alla Kokosing gap trail. Prendiamo questo, già costeggiando il tranquillo fiume verde. Accanto sorgono immensi impianti sportivi, anche questi tenuti alla perfezione e curatissimi, anche questi deserti.




In breve eccoci all'imbocco della Kokosing. Sono 14 miglia di ciclopedonale asfaltata divinamente, con un fondo liscio e pulito, quasi da velodromo, che occupano la sede di un tratto della Pennsylvania railroad che andava da Mt Vernon a Danville; di fatto, è un'altra rail-to-trail, con i suoi cartelli, i servizi ad ogni "stazione", quando si raggiunge un paese, e tutto il resto. Di bello ha passa tra campi e prati, paludi e soprattuttoo boschi fitti e umidi, doove il sole filtra a gocce d'argento, sempre costeggiando il fiume.









A Gambier (1824), uno dei paesini che si incrociano, ci sono una locomotiva 0-6-0 del 1940 e una cambusa (caboose) della Chesapeak&Ohio del 1924. Su entrambe si stanno arrampicando (e stanno cadendo e piangendo) bimbi della materna, sorvegliati svogliatamente da due maestre.
A Gambier si trova anche il più antico college privato dell'Ohio, il Kenyon college, fondato insieme alla città nel 1824.
Il nome del paese deriva da un munifico benefattore della scuola.
Il Kenyon college ha pure 380 acri di riserva ambientale, con centro visitatori e giardino delle farfalle, dove viene preservato l'ambiente del fiume e si possono ammirare la flora e la fauna locali.







Proseguiamo verso il secondo e ultimo paesino della ciclabile, che non seguiremo tutta, ma solo per 20km, fino ad Howard, dove riprenderemo la 36. Incrociamo delle corpulente signore,con amiche e figlie, che passeggiano in bici, con scorte di acqua e cibo decisamente eccessive per il tragitto, e persino un gruppo di cicloturisti della domenica, misti su bici elettriche, reclinate e strane, con tanto di guida e bagagli; si sentono molto seri, nel loro percorrere una cinquantina di km e manco in autonomia. Ci chiedono dove stiamo andando e da dove veniamo. Pensano che stiamo andando SOLO al lago Erie... Alla nostra risposta, rimangono smorfiatissimi e ci augurano buona fortuna con un tono da invidia mista a consapevolezza che la loro "grande impresa" è robetta, per noi. Gne gne gne.
In questo tratto, comunque, si vede qualche ciclista e gente che corre e si allena, compresa una classe di adolescenti costretta a sudare da un serissimo prof. di educazione fisica, munito di smartphone e fischietto.
Howard (1872) ospita, non a caso, una grande scuola superiore che serve l'intera contea.



Qui ad Howard dobbiamo uscire dalla ciclabile e imboccare la 36. Le due strade dovrebbero proprio incrociarsi... Qui.


Ovvero, la 36 corre sopraelevata rispetto alla ciclabile. Cosa che non avevo affatto previsto. E che, tra una madonnina e l'altra, ci costringe ad andare avanti un pezzo sulla pista, uscirne con una salita breve ma cattiva, tornare indietro e finalmente saltare sulla statale che ci porterà ad est per tutto oggi e in parte anche domani. Questa è la ciclabile vista da sopra, nel punto esatto di prima.



Al che, lo sappiamo, iniziano le colline. Non siamo più su una rail to trail quindi le pendenze possono impennare all'improvviso. Così accade davvero. Si susseguono 5 o 6 rampe cattivissime, in su e in giù, ripide e piene di curve, con la strada stretta, senza bordo, e trafficata di camion che vanno ad una cava poco distante. Per un momento mi assale il timore che possa essere tutta così fino a Pittsburgh e mi cedono le gambe dallo sconforto.



Dopo un'ultima, lunghissima, estenuante salita che sembra dover portare alla vetta dello Stelvio e invece saran 300 metri a esagerare, la 36 spiana e il paesaggio si apre. Non più solo boschi stretti intorno all'asfalto, ma campi e pascoli. Siamo ufficialmente entrati nel territorio degli Amish, come i cartelli anche dimostrano. Il traffico è quasi sparito e restano muggiti lontani e lo stormire delle foglie al solletico del vento. Che meraviglia queste colline!





Seguiamo sempre l'acqua. Prima il fiume Walhonding, poi il Tuscarawas. Poco distante si trova la diga Mohawk, costruita negli ani '30 per il controllo delle alluvioni. A Warsaw, poco oltre, facciamo una prima pausa al nostro fidato Dollar general. Ieri notte ho avuto qualche problema di bile (il cibo qui è superchimico, da laboratorio proprio, e che il corpo lo rifiuti non è infrequente); sicchè oggi mi sento un po' vuota e debole e ho bisogno di una merenda in più.
Warsaw, fondata nel 1834, prende il nome dalla capitale un po' lacca e, come tutti i villaggi rurali qui, è un ordinato insieme di casette, disposte in una unica fila lungo la strada; alcune sono abbandonate, altre perfettamente curate.
Intorno, dappertutto, boschi e campi che profumano di fieno e camomilla.






















Qui la strada corre in piano e le fatidiche colline non sono poi così cattive, anzi. Ci lasciano passare in valle, e sembra quasi che scostino la loro sottanona di prati verdissimi per non intralciarci le ruote. Si pedala spediti e senza quasi sudare. In cuor nostro abbiamo già deciso di non fermarci alla prima città con servizi, a 90km dalla partenza, ma di proseguire oltre.





Arriviamo a sfiorare la città di Coshocton, che si trova alla confluenza dei due fiumi.
Qui si erano radunati gli indiani Lenape, scacciati dalle loro terre e costretti ad ovest dalla pressione dei coloni europei e americani; non mancavano le tensioni con gli irochesi, sia per il possesso di terre, che erano sempre meno, sia per il commercio delle pellicce. Coshocton deriva dalla parola che, tradotta, significa "attraversamento di fiume". Tutto questo accadde intorno agli anni '70 del Settecento.
Poi, durante la guerra di indipendenza, i Lenape si divisero tra quelli che sostenevano gli inglesi e quelli che sostenevano gli americani; le presero forte da entrambe le parti. Con il trattato di Greenville i territori di questa zona furono definitivamente spalancati alla colonizzazione dei bianchi e diverse famiglie di contadini arrivarono in quella che, nel 1811, sarebbe diventata capitale di contea. Poi fiorirono le industrie e i trasporti, con il canale verso l'Erie e la ferrovia. Da queste parti, durante la guerra di secessione, erano per lo più nordisti e aiutarono molti schiavi a fuggire.




Facciamo sosta a Canal Lewisville, fondata da tal Lewis nel 1832, come stazione di posta lungo il canale dell'Ohio. Poi ripartiamo, in un'apertura di campi a mais e soia, intervallati da prati e neri boschi. E' la tavolozza del verde in ogni sua sfumatura, e fa bene al cuore.



Così, senza fatica, superiamo anche Newcomerstown. Se, come me, pensate che significhi "la città dei nuovi venuti", vi sbagliate. Questo era il più grande insediamenti di indiani Delaware, che contava quasi 700 abitanti nel 1770. Il capo, Netawatwes, americanizzato in Newcomers, era anche il capo di tutti i Delaware occidentali. Pertanto i mercanti francesi e i coloni inglesi, in ordine di brevità, ribattezzarono il villaggio come il capo, e via. Poi, come già dicevo, questi nativi si spostarono a Coshocton durante la guerra d'indipendenza.


Da qui è un susseguirsi di paesini, piccoli e troppo perfettini per non nascondere qualcosa di marcio. E il qualcosa di marcio è una vena razzista da borgaioli che non sono mai usciti dalla loro fattoria delle bestie. Ora spiego.
Dopo una breve serie di salitelle


giungiamo a Port Washington (1827), dove decidiamo di concederci una pausetta prima degli ultimi 20km.


Qui, accanto alla sede del comune, e vicino ai simboli di pace della foto sopra


ci fermiamo al classico benzinaio con negozietto. Al primo giro va tutto bene: Gigi ed io prendiamo le nostre schifezzine colorate e gassate da bere e ci sediamo sulla panchina esterna per riposare un poco. Poi Gigi rientra, prende un'altra bottiglietta e va alla cassa per pagare. La ragazzina gli dice qualcosa in inglese (che lui non parla) e poi ancora e ancora; e gli fa segno di spostarsi ad un'altra cassa; lui, con le banconote in mano, non capendo cosa stia succedendo, mette fuori la testa e mi chiama per tradurre. Al che si scatena il putiferio e la capa dell'esercizio, convinta che stessimo tentando di rubare, o uscire senza pagare, inizia a fare un casino della madonna, battendo le mani sul bancone e così via. Nel delirio, tentano di far pagare una seconda volta a me la lattina che avevo già pagato e quasi finito di bere. Io ho tradotto e spiegato con calma, e tutto si è risolto. Ma sono uscita con una rabbia in pancia che non so nemmeno dire. Quella lurida schifosa di una razzista faccia di m*rda di una capa, siccome ha visto che Gigi non parlava inglese ed era evidentemente straniero, ha subito pensato che stessimo rubando. Capita spesso, qui, purtroppo. Capitava anche a me in Russia. Nei supermercati e nei negozi ti vedono, ti inquadrano come foresto e iniziano a tenerti d'occhio e a seguire ogni tuo movimento, pronti a coglierti con le mani nella marmellata. Perchè? Perchè sei straniero. E' una cosa che non tollero. Il razzismo mi fa schifo, i razzisti mi fanno vomitare, sono il peggio sottoprodotto di un'ignoranza spaventata e miserrima. E' gente piccola, gretta, meschina e godo pensando che vivono male, nella paura, nella diffidenza costante. Sta bene a loro, e mi auguro che davvero un giorno un nero, o un ispanico, o un italiano, possa salvarli da una brutta situazione, e aiutarli, così da renderli coscienti di quanta me*da hanno nella testa al posto del cervello.
Anzi, auguri a tutti di provare, almeno una volta nella vita, una situazione del genere. Subire il razzismo, essere giudicati a priori come ladri o delinquenti o cattive persone solo perchè si è nati qui o là, è la miglior medicina per guarire da questo male.
A me è successo la prima volta in Scozia a 16 anni, quando un autista di pullman non ci ha aperto le porte dell'autobus perchè ci ha visti, adolescenti e stranieri, in periferia di Edimburgo. Ho provato il dolore di questo marchio che brucia, che sta nello sguardo diffidente, nel sopracciglio alzato con aria di superiorità, nella mezza parola buttata lì un po' con odio un po' con paura. A tanti, tantissimi, farebbe bene scottarsi un poco a questa fiamma. Forse la pianterebbero con quei discorsi idioti nel senso etimologico del termine. Ma in fondo che voglio? Siamo nel paese dove ha vinto Trump. E da noi Salvini cavalca le folle. Davvero, di cosa sto parlando?

Mentre meditiamo su queste vicende, che il diavolo se le porti, pedaliamo verso Gnadehutten. Questa città fu fondata nel 1772 da coloni tedeschi e indiani Lenape e Mohicani cristianizzati e affiliati alla chiesa di Moravia. Chissà che bella macedonia di volti!
Durante la guerra d'indipendenza, questa popolosa comunità di pacifisti, che viveva dell'agricoltura e dei commerci lungo il fiume, tentò di non schierarsi con nessuna delle due parti; gli inglesi, però, occuparono la zona e permisero ai loro alleati indiani di razziare e distruggere. Gli abitanti furono costretti come prigionieri a trasferirsi a captive town, dove morirono di malattia e malnutrizione. Era il 1780.
Nel 1782 i sopravvissuti poterono tornare nel loro villaggio, ma furono subito costretti a consegnare le armi da parte di una milizia della Pennsylvania che voleva vendicare la morte di alcuni coloni, avvenuta tempo prima e per mani d'altri nativi; 96 uomini, donne e bambini passarono la notte cantando e pregando, poichè sapevano che il giorno successivo sarebbero stati ammazzati come conigli. E così avvenne, in quello che viene ricordato come "massacro di Gnadehutten". Oggi viene chiamato "giorno della vergogna", e a buona ragione. Gli indiani furono scacciati definitivamente e al loro posto sorsero negozi e fattorie, un tempio massonico, altre chiese, e la storia è la stessa di tutti i villaggi dell'area, tra ferrovia e canale dell'Ohio.



Passiamo tra Riverside Park e Tuscarawas (dal nome della tribù di indiani locale) e giungiamo alla Indian Hill, ultima fatica di oggi. E' una salitella breve ma tosta, che porta ad Uhrichsville, città dove ci fermeremo stanotte, da nord, evitando un grosso e temibile snodo di stradoni.




Questo nome impronunciabile deriva da Uhrich's mill; ovvero, il primo colono, che si chiamava Michael Uhrich, aveva qui un mulino. Però è stata fondata nel 1833 con il nome di Waterford. In ogni caso, è una cittadina che ha sempre vissuto d'agricoltura e di trasporti: i fiumi, il canale dell'Ohio, le strade e la ferrovia Pan Handle. L'ho citata per ultima, questa, perchè dopodomani la percorreremo fino a Pittsburgh; è stata infatti trasformata in ciclabile, con l'ormai noto progetto rail-to trail.



Pittsburgh e dintorni sono il paradiso dei biciclisti, a quanto pare. Oltre alla sopra citata Panhandle, la città è circondata da un'importante ciclabile, la Montour, e dal suo cuore, il punto dove i fiumi Ohio e Allegheny si incontrano, parte la Great Allegheny Passage, o Gap, che noi pedaleremo fino a Washington DC. E c'è pure la pista che arriva all'Erie, e la vicina "alzaia" del Mississippi, lunga tutto il lunghissimo fiume.

Ma a questo penseremo nei prossimi giorni. Intanto, mentre facciamo check in nel lussuoso Red roof, dove ci hanno incluso la colazione senza farcela pagare (vedo qui si usa molto questa "svista" al front desk), si addensa sulle nostre melonere un temporale coi fiocchi. Tuoni, lampi, un gran casino celeste, e poi la pioggia. Bene, che si sfoghi ora! Gli Appalachi son zona di temporali: montagne a ridosso dell'oceano... Et voilà.


Sia la receptionist sia la cassiera del benzinaio chiedono cosa ci porti da queste parti, perchè, evidentemente, nonostante tutte le ciclabili, non è zona battuta da cicloturisti. Seguono il solito non capire e poi l'usuale WOW apertissimo quando spiego del nostro viaggio. In camera, mentre ceniamo, sfoglio la guida dell'amish county. Mano a mano che approfondisco la conoscenza di questo paese, che è la patria delle contraddizioni, del troppo e del niente, capisco sempre più queste persone che semplicemente si rifiutano di stare al passo coi tempi. Che sono disumani, signori miei.


Dunque, cosa ci attende? Da qui a Pittsburgh ci sono meno di 150km.
L'idea è quella di fare due tappe tranquille, salvo eccezioni di follia momentanea che potrebbero portarci, domani, a pedalare tanto più del previsto.
Di base, pensiamo di far sosta a Steubenville, ultima città dell'Ohio, che stra proprio sull'omonimo fiume, al confine con... La West Virginia, e non la Pennsylvania, come verrebbe logico pensare.
Infatti, dopodomani, attraverseremo quella fettina minuscola di Virginia Occidentale e poi entreremo in Pennsylvania. Ci porteremo verso Pittsburgh con la ciclabile Panhandle; sarà una tappa brevis, così da aver tempo per visitare un poco la città. Poi, da lì, imboccheremo la Great Allegheny; dovremmo arrivare alla capitale in 5 giorni di viaggio circa. Questi sono i piani, il resto saranno la strada e il tempo a deciderlo. Noi, si pedala!

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