1/8/18
Quella di oggi è stata una giornata strana sul finale, storta in parte ma poi raddrizzata dalla famosa, ed ora comprovata, grande ospitalità uzbeka. Che stavamo per dormire al cimitero, la solita collina erbosa con le tombe abbarbicate, e invece siam finiti tra le grosse braccia di una mamma contadina e della sua famiglia.
Il punto è questo: oggi avremmo dovuto incontrare gli amici francesi di Raymond, alcuni proprio suoi compaesani della piccola Martignè-Ferchaud di Bretagna, che stanno viaggiando in bici già da febbraio e qui ci si sono arrivati in 6 mesi. Staranno via almeno altri 6 mesi, e son stati raggiunti, in queste settimane estive, da altri amici e amici di amici; sicchè sono un branco di 8. Loro di solito sono aanti a noi di qualche centinaio di kilometri, ma ora stanno tornando indietro da Samarcanda a Bukhara con i nuovi arrivati. Ci saremmo dovuti incontrare per via, e s'era optato per Ishtichon, un villaggio a 105km di distanza per noi e 60 per loro. Solo che non sono stati rispettati nè i tempi nè i luoghi stabiliti, e per di più fino a sera è stato impossibile contattarli. Questo ci ha fatto perder tempo, chè noi li si aspettava, e ci siamo trovati ormai verso il tramonto con la necessità di trovare un luogo per campeggiare, visto che di hotel o motel, così vicini a Samarcanda, non ce ne sono. Il problema è che, trattandosi di area rurale, son tutti campi e cascine, casette sparse e paesi. C'è un viavai continuo e non è semplice appartarsi per la notte: qualunque imbosco verrà scoperto dal curioso di turno che verrà a fare un giro di ricognizione e poi avviserà tutta la comunità.
E qui entrano in gioco i contadini uzbeki, ma non bruciamo le tappe: prima ci sono 112km di sole e vento e cielo e prati da raccontare.
Stamattina siamo partiti da Navoiy con calma, dopo abbondante colazione: qui in Uzbekistan la strada è piana e non abbiamo finora trovato gran vento; perciò ci muoviamo in fretta, con una media di 20km/h e, considerando che avremmo dovuto percorrere poco più di 100km e poi attendere gli amici di Raymond, ce la siamo presa comoda.
Lasciata la soviet-città alle spalle ci siamo rituffati nell'autostrada M37, che attraversa la valle chiusa tra colline violette nella distanza; è una valle fertile di orti e frutteti, e nemmeno un millimetro di terra grassa è sprecato. L'acqua arriva dai canali e tutto questo verde fa bene al cuore, all'anima e al respiro. Ho capito ormai che non posso stare più di un mese senza linfa a scorrere intorno; sarà questione cromatica, psicologica, psichiatrica. Ma devo avere intorno alberi e piante, almeno un pochino, altrimenti alla lunga mi manca il fiato e mi sento distante dalle cose, svuotata come un melone, con il cucchiaio. Si vede che il mio senso della terra ha le radici e le foglie, o che nella vita precedente son stata un filo d'erba o una foglia d'acero. Mi piace pensarlo. Mi piace credere di aver avuto radichette minuscole e affamate, ma con moderazione, conficcate nel petto del mondo, a sentir vibrare la storia che fu, il trotto dei cavalli in guerra e il pesante passo dei carri carichi di grano in pace. E aver avuto la ragiuda addosso anche, ogni notte, ogni alba.
A farmi riprendere da questi miei deliri vegetali è la strada, che dove non è scassata è costutuita da grossi lastroni di cemento dietro cui, secondo me, c'è lo zampino dei russi. E' una cosa troppo komunista questo democratico, solido, grigio e terribile cemento del popolo, su cui corra la rivoluzione ma un po' a tonfi e scossoni, scalcagnante.
Qui delle più popolari mucche han sostituito i cammelli, e se ne vedono miste a capre e pecore un po' ovunque, nei campi e a bordo strada, intente a brucare placide come si confà ai ruminanti.
Dopo qualche kilometro arriviamo ad un primo importante monumentone: quello che indica il passaggio dalla regione di Navoiy a quella di Samarcanda. Ci fermiamo per farequalche foto con le bici, come rito di passaggio in senso stretto, quando dall'ombra dei vicini alberi spuntano fuori dei brilli, ciarlieri e sbilenchi individui, di cui alcuni con la faccia da scemo del villaggio.
Per fortuna prendono di mira Raymond e iniziano a toccacciare la sua bici e le sue cose, mentre dicono robe in mezzo russo e biascicano assai. Dire che son curiosi come scimmie non rende. Vogliono anche provare a pedalare ma per esperienza so che è meglio di no: cadono, rompono la bici e si fanno male. Quindi, anche se insistono a livello di tentare di staccarci le mani dal manubrio, no. Saltiamo in sella e si riparte.
Arriviamo così ad uno dei tantissimi paesini che si affacciano sulla M37. Nella fattispecie questo è Sulanabod, ma è il prototipo di mille altri: in periferia casette nuove e ordinate, al centro bazaar e caos di merci e umanità piccola che si affolla a vendere, comprare, trasportare, spostare, spostarsi. Ci sono i negozi veri e propri e molte bancarelle, piramidi di angurie e meloni sotto cui è sepolto chissà che faraone, sacchi, sacchetti e borsoni colmi di roba, gente che contratta, conta, fa affari. Bisogna fare attenzione perchè in zona mercato il traffico, per qualche centinaio di metri, è folle. Inoltre chi ci vede, come sulla strada del resto, ma qui è tutto moltiplicato, saluta, fischia, grida e fa versi, cosa che ogni volta mi fa o prendere un infarto o imprecar forte perchè quando è troppo è troppo.
Tra un villaggio e l'altro si aprono gli scorci di verde e azzurro che ci fan riprendere fiato, e per fortuna son molti e ampi.
Ogni tanto nemmeno c'è un paese vero e proprio, ma un blocco (sovieticissimo) di abitazioni da cui, giustamente, escono Lada e carretti con l'asino.
perfetto di mitto, -ere, III sing. |
Percorsi agilmente 65km decidiamo di fermarci un po': è presto, non è nemmeno l'una, e abbiamo ancora solo un paio d'ore in sella. Sotto a questa paglia passeremo metà del pomeriggio a bivaccare; Raymond ordina una zuppa (che arriva doppia) con carne e verdure, una salsa tipo tsatsiki con il pane (che arriva doppia) e uno spiedone di carne grigliata al momento. Il proprietario del localino ci porta le cose facendo gesti che indicano quanto siano gustose e ottime, e in effetti è vero. Poi ci dice che qualche giorno prima è passato di lì un cicloturista inglese che, dopo avergli chiesto il caricatore del telefono, glielo ha rubato andandosene. Eh, ci sta, purtroppo.
Dopopranzo ci accomodiamo su un divanone e io scrivo mentre il bretone dorme. Per evitare il sole, fra l'altro, si stende con il culo ben piazzato sulla zona centrale del divano, deputata al cibo. Immagino cosa abbiano pensato i presenti, a fronte di questi zozzi europei he rubano e mettono il culo sulla tavola.
Prima di ripartire, circa 3 ore dopo, facciamo un acquisto sbagliato.
Dal colore avremmo dovuto intuirlo, ma ahimè speravamo in qualcosa di fresco e dissetante; la bibita gassata gusto kiwi e mente e isotopi radioattivi si rivela invece un bel troiaio, che tentiamo di mescolare all'acqua delle borracce per renderla meno teribbile.
Il capitolo igiene e tyalet merita sempre un poco di spazio. In queste lande non c'è l'idea dell'acqua corrente negli edifici, se non per la cucina e forse. Il bagno è il solito buco in terra, protetto da muri di paglia e fango, mentre per lavarsi le mani si usa una brocca piccina e urfida che viene lasciata a terra, vedi foto qui sotto. E' il soggetto più triste che potessi immortalare, sa di infezioni e nero sotto alle unghie. E diti sudizzi e maroni. Ahhh.
Una volta tornati in sella procediamo spediti con un vento leggero a favore. Oltre a urla e schiamazzi e saluti, veniamo accompagnati da questo enorme ouzbeko che parla un po' russo (chu chu, poco poco) e un po' una lingua che non riconosco, con suoni arabi. Magari è uno dei famosi dialetti tajiki qui tanto diffusi. L'omone non ci molla anche quando aumentiamo il passo e continua a blaterare senza che noi si capisca alcunchè; prima con Raymond, poi con me, poi con lui e via così, rimbalzato da silenzi imbarazzati. Ci segue e ci segue, fino a che, a un certo punto, in mezzo al nulla, si ferma, saluta e torna indrè. Mah.
Di campo in albero, di mucca in roggia, ci portiamo svelti verso la meta, mentre il sole si abbassa e la luce diventa dolce come un sorriso accennato. Qui poi non fa mica caldone: si arriva, al massimo, a 40 gradi, ma comunque con ampie zone d'ombra in cui trovar riparo e acqua che rinfresca. A me pare d'essere in Engadina praticamente.
Lasciamo infine la M37 per entrare ad Ishtichon, il paese in cui attendiamo l'arrivo degli amici di Raymond. Ci sono matrimoni in corso nei ristorantoni di pessimo gusto del centro, e un gran caos nell'unica strada, quella centrale su cui si affacciano tutti i negozi. Innanzitutto le mie speranze di trovare una gostinitsa si vanificano; chiedendo ai passanti scopro che fino a Samarcanda (altri 60km) niet.
Quindi tentimo di contattare i francesi per capire a che punto siano e accordarci su dove campeggiare insieme.
Dopo lunghe attese e mezze risposte, scopriamo che i giovanotti si sono fermati a 10km di distanza, da un'altra parte e fuori dalla strada principale. Per noi significherebbe fare 10+10km in più, su strade distrutte tra i campi; chiediamo che si avvicinino un poco e la risposta è negativa. Allora, incazzata io per il tempo perso e la mala organizzazione, e un po' preso male il Raymond per il fatto di non vedere i suoi amici (che però non hanno dato segni di grande interesse nell'incontrarci), decidiamo di stare per conto nostro e sulla nostra rotta.
Però ormai sono le 19.30 e inevitabilmete si dovrà comunque campeggiare. Dobbiamo attrezzarci con acqua e cibo, tanto più che il gas per il fornello è finito e non possiamo cucinare.
Dopo qualche difficoltà e una marea di curiosi che si fanno i gran cazzi nostri sia durante le discussioni con gli amici del Puill sia poi quando decidiamo il da farsi, troviamo un negozietto un poco più grande degli altri, che porta l'altisonante insegna di supermarket. Dentro ha poca roba e sbagliata.
Compriamo due vaschette di formaggio e scopriamo che è latte condensato. Il tonno in scatola non c'è e tentano di rifilarci della carne inquietante; optiamo per due tipi di pesce indefinito di cui scopriremo la vera natura prossimamente. Panene abbiamo, anche se scopriremo poi esser metà muffo power. 6 mele. Io vado anche su due pacchi di biscotti che non si sa mai, i pescetti in tolla non mi ispirano fiducia.
Dopo un'ora di acquisti (perchè capire e capirsi è dura) usciamo e sistemiamo acqua e provviste nelle borse. In due tornate esce il commesso a regalarci prima un melone profumatissimo, poi un pane con il sesamo e l'anice, ancora caldo. Merci!
Ci rimettiamo in strada e torniamo sulla M37, in cerca di un luogo adatto all'imbosco notturno. I pastri rientrano dai campi con le bestie e la luce si fa sempre più bassa. Tutti tornano a casa. Noi, che la casa l'abbiam lasciata alle spalle ed è lontanissima come una stellina fioca, cerchiamo un liogo minimo, una buca, una radice alta, per passar la notte. E non si trova nulla.
Raymond vede, fuori da un paese, una delle molte colline d'erba su cui sono sepolti i morti, chè qui i cimiteri sono così, come il monte degli olivi, come Spoon river, ma de noantri. In effetti il posto è tranquillo. Inoltre non ha cancello che possa essere chiuso ed ha una zona coperta con tettoia e panche sotto. C'è pure un poco di connessione internet e siamo nascosti dalla strada. Che si vuole di più?
Pochi istanti dopo esserci fermati ci raggiunge un uomo di mezza età in bicicletta. Prima fa finta di nulla. Poi si avvicina e ci chiede chi siamo. Capisce che vogliamo passar lì la notte e armeggia nel tentativo di aprire alcune porte che paiono un bagno e una piccola moschea. Non ci riesce. Ci pensa su un attimo e poi, in un impeto di generosità, si mette le mani a tetto sopra le testa e poi a palmo aperto si indica il petto: ci sta invitando a casa sua. Ci fa poi segno di seguirlo e noi, contenti per la botta di culo, obbediamo docili come le caprette.
Ci porta di là dalla strada, in un minuscolo villaggio di poche case e molti bambini che schiamazzano in un campetto da calcio, ora che è il crepuscolo e non fa troppo caldo per giocare. Non ci sono nemmeno strade, ma sentieri sterrati tutti sassi e fango. Qualche altro contadino, di rientro dalla lunga giornata nei campi, saluta e chiede al nostro ospite chi siamo. Non è frequente vedere stranieri qui.
Giungiamo infine alla casa dell'uomo gentile, dove dormiremo. E' una piccola cascina con le stalle e una zona che funge da casa. Il bagno è il solito buco in terra, in cortile. L'acqua corrente non c'è: c'è una pompa che cigola e c'è un secchio di plastica, a cui attingere con una teiera per lavarsi le mani. Le mani soltanto, s'intende.
Prima di entrare ci imbattiamo in mucche e capre, un cane e dei gatti.
Poi alcune donne, che ci diranno dopo esser la moglie dell'uomo (lei 40 anni, lui 46) e le figlie (14, 16 e 20 anni), un bambino sui 6 anni e un ragazzo che pare il fidanzato di una delle fanciulle, ci accolgono nella sala principale, che stanno preparando per la cena. Ramazzano e posano a terra lunghi cuscini sottili ma morbidissimi, e al muro, per appoggiar la schiena, cuscini più grandi. In centro si mette la tovaglia.
Ci sediamo tutti attorno alla tavola, in terra, a gambe incrociate. Raymond fa fatica a stare in quella posizione e tenta di allungare un poco le gambe, ma i piedazzi lerci finiscono sulla tavola e subito l'uomo lo riprende: hey babai! Hey nonnino! Che ti pare il caso?
A cena si parla ma non ci si capisce, perchè loro il russo lo masticano poco e noi ancor meno. Ci intendiamo a gesti e sorrisi. Ovviamente sono molto incuriositi da noi, strana coppia, e vogliono sapere delle nostre famiglie, quanti anni abbiamo, se ho figli e sono sposata, se Raymond è nonno, dove andiamo, ma un lavoro lo abbiamo?
Intanto le donne portano il cibo, che è pane (compreso il nostro), melone (il nostro, apprezzatissimo e spazzolato, con domanda: ma lo avete portato da Navoiy? The big city, per loro), insalata di cetrioli e pomodori raccolti nell'orto tre secondi prima e il piatto forte: una sorta di lagman, zuppa di spaghetti pallidi e mollini con ceci e altri legumi, cotti e affondati nello yogurt, con una spruzzata di curry in cima. BUO-NIS-SI-MI. Infatti facciamo il bis ela scarpetta.
Si beve tutto con succo d'uva home-made, molto, fin troppo dolce. Alla fine del pasto il tè verde, che viene versato da una ragazza nelle coppe e poi offerto sempre con una mano al cuore, non per vezzo ma perchè è un gesto che a loro viene automatico.
Capiscono poi che siamo cotti e si preparano i giacicli proprio dove prima c'era la mensa: son cuscinoni con coperte e altri cuscinini. Si dorme a terra ma sul morbido. E molto zozzi, lerci, appiccicosi e pieni di crema solare impastata alla terra e al sudore, e alla miriade di insetti che spiaccico.
Prima di dormire, però, son tutti curiosi di vedere cosa faccio col computer e cosa fa Raymond col tablet. E vogliono vedere le foto, di casa, dell'Italia, della Francia, dei parenti. Quando vedono una mia foto con i capelli lunghi biondi è delirio generale, mentre quando si apre una foto di mia mamma in piscina con le amiche, in pareo e costume, la signora dà delle giocose botte al marito che guarda troppo.
Ci chiedono se vogliamo vodka, ma no grazie. E la luce si spegne.
Le zampine degli animali che camminano tra me e il pavimento e i cuscini invece corrono corrono corrono tutta la notte.
2/8/18
La mattina alle 5.30 son già tutti svegli, e il pater familias ci allieta intonando il canto di richiamo delle galline, a cui sta dando da mangiare. Poi ci saluta e ci dice che quando torniamo indietro ci ospita ancora. Noi ringraziamo. Salta in bici e va a lavorare, come ci ha fatto capire facendo il gesto di zappare. La terra è bassa/ la vita è storta/ e al camposanto poi nun se canta...
La signora invece ci prepara la colazione, mentre le figlie si svegliano una a una come principesse di una fiaba. Il primo pasto della giornata consiste in una prelibatezza che la donna ha preparato apposta per noi: patatine fritte. Dico chips e ridono. Insomma si è alzata alle 5, ha tagliato patate e le ha fritte. Come fare una torta. In effetti sono assai buone, anche se pagherò tutti i grassi saturi in sella di lì a poco. Poi ci sono l'insalata di ieri, il pane di ieri e il tè di oggi. Una teiera piccola da cui spilla infinito infuso, per tutti, più volte. Nella coppa si schiaffa un grosso pezzo di zucchero o miele solido che sia, e lo si usa per diversi giri, tra 4 e i 4000, di tè.
Si mangia e ci si prepara, mentre le solerti fanciulle aiutano in tutto, dal chiudere le borse al portarle fuori e rimetterle sulle bici al lavarci le mani. Si vede che vengono da una famiglia dove la schiena è spesso piegata.
Salutiamo donne e animali della casa, che restano sull'uscio e sul sentieri, e ripartiamo. 54km ci separano da Samarcanda la grande, la capitale di Tamerlano, la città meta, in un certo senso, di questo viaggio sulla via della seta.
Si esce dal villaggio mentre già i contadini sono al lavoro o stanno andando ai campi o a portar le mucche al pascolo. C'è un gran silenzio, perfino sulla nostra M37.
La luce delicata del mattino non fa male e la mia pelle cotta e gremata è felice dell'arietta che l'accarezza, mentre intorno ancora prati roridi e il cielo azzurro richiamano la bandiera di questo paese, che è azzurra sopra, bianca in mezzo e verde sotto, così come questa foto.
Facciamo una breve sosta perchè Raymond ha con sè due yogurt e due ovisodi che necessitano d'esser graziati, e intanto impostiamo il navigatore sull'hotel in cui abbiamo deciso di pernottare in Samarcanda, proprio al cuore della sua storia, accanto alla tomba maestosa di Tamerlano e della sua famiglia, che spicca con la cupola azzurra e i minareti altissimi e ci guida il cammino.
I 50km corrono in fretta tra venditori di cose e monumenti alla teiera. Così, all'improvviso, il nome di cui da tanto andiamo in cerca:
Non mi par vero. Ci siamo arrivati. Eccola qui Samarcanda. Con i suoi carretti in periferia e il traffico assurdo e le pietre alte, gli ori e le maioliche azzurre, le cupole e i palazzi. Eccola qui, che sta per dischiudersi ai nostri occhi.
Prima di accomodarci in hotel facciamo una foto davanti al mausoleo di Tamerlano. Ne parleremo bene domani di tutta la storia che è passata di qui. Ma dopo aver incontrato ciò che resta di Gengis Khan, l'anno scorso in Mongolia, ora la Signora ha posato con le spoglie di Tamerlano. E che dire. L'Asia centrale ormai è il nostro regno.
Per chi se lo stesse chiedendo: la nera signora della canzone di Vecchioni è qui come ovunque, sempre presente e silenziosa su tutto. Ma non la si può vedere, finchè si ha la capacità di guardare. E mi perdoni Epicuro per la maldestra citazione.
SULLA TRACCE DI MARCO POLO
RispondiEliminaHai finito le provviste?
Samarcanda ormai è alle viste!
Ti potrai rifocillare
dopo tanto pedalare.
Samarcanda misteriosa
di mosaici luminosa,
della via che porta in Cina
resta sempre la regina.
Monumenti ce n’è a josa
da vedere senza posa,
quando torni ci dirai
siam curiosi più che mai...