venerdì 17 agosto 2018

48-49. Scalata al passo KALDAMA (3062m). Pic nic kirghizo con vodka. Cavalli e nomadi






14/8/18

Questa e la prossima giornata sono entrambe di avvicinamento e scalata del primo grande passo che ci attende qui in Kirghizistan, il Kaldama; sono 3000 metri di roccia levati al cielo come un muro e protetti da colline e altri monti minori, da conquistare uno ad uno prima dell'ultima, grande, arrampicata.

Siamo usciti da Jalalabad tardi: prima abbiamo perso gran tempo alla ricerca di un supermercato o di negozi dove poter acquistare il necessario per essere autonomi con il cibo nei giorni wild di montagna; per l'acqua nessun problema: ci sono fiumi e laghi, torrenti e ruscelli in ogni dove. Possiamo bollire l'acqua o sanificarla con le pastiglie.

Il problema è stato mettere insieme il cibo necessario. In centro città non ci sono negozi che lo vendono, perchè la gente lo acquista sfuso e marcio al bazaar; i supermercati stanno in periferia, ma molti sono comunque piccoli e sforniti. A nostre spese abbiamo anche appreso che molto del cibo sugli scaffali è scaduto da mo: la falsa nutella (invero un budino al cioccolto) e il latte condensato sono state una fonte di cagotto, l'altro gettato presto in un prato. Il tè non è in bustina ma sfuso, il tonno in scatola non si trova, a vantaggio di strani pesci in salsina e carne urfida. Per fortuna ci sono invece molti tipi di noodles tipo saikebon, pasta, zucchero in zollette, pane e croccanti di miele e semi. Il caffè 3 in 1 si trova facilmente, il resto anche no. Abbiamo avuto persino la fortuna di incappare in confezioni di formaggio stile "Tigre" o "Mio", quello fuso che non va in frigo, ma va pulito perchè ha comunque la muffa.
Non è strano che già da Jalalabad io sia partita mezza in sciolta, insomma.
E con raffreddore e mal di gola catarrino regalati da uno dei bimbi dell'ostello di Osh.

Pian piano comunque abbiamo iniziato a risalire la valle, che non significa stare in piano ma con pendenze limitate e strade asfaltate. Fuori città ci sono 40km di villaggi rurali e campi, contornati dal profilo evanescente dei monti. Questi intorno arrivano a 4500m e sulle vette si intravede la neve.






In Kirghizistan l'idea che la strada sia di tutti significa che proprio tutti ne fanno l'uso che meglio credono; ieri abbiamo visto un camionista riparare il suo ingombrante mezzonell'esatto centro di una strada assai trafficata; oggi abbiamo assistito al passaggio di una mandria di mucche con pastori a cavallo che non si son dati il minimo disturbo nel tenere le bestie a lato. In fondo sono la grossa parte della loro ricchezza, avran pure la precedenza!







Abbiamo anche incontrato due ragazzi tedeschi che venivano giù a manetta su un tandem ballerino dai raggi assai scassati; ci han raccontato di quanto la strada, percorsa da loro in direzione opposta alla nostra, fosse tutta distrutta e sterrata male, causa di infiniti problemi al mezzo. Erano contentoni di esser tornati sull'asfalto e si vedeva. Non oso immaginare che montagne russe da farsela addosso abbia visto la ragazza, costretta sul predellino frontale senza un minimo appiglio.






A pochi metri dall'attacco delle prime montagne decidiamo di fare una pausa all'ombra, ma passiamo l'intero tempo a schermirci dalla curiosità eccessivamente appiccicosa e tutta manine dei bimbi del luogo, che in effetti non han molto da fare se non tormentare i "turist" di passaggio. Prima uno, poi due, poi quattro e cinque. Provano il casco e gli occhiali, toccacciano la bici e tentano di pedalarci. Sono veramente pestiferi. "Guardare ma non toccare, questa è la regola da rispettare" diceva mia nonna. E invece. Poi chiedono caramelle (che non ho davvero) e soldi (che non voglio dare). Sarà così più e più durante il valico. Ahimè povertà e sporadico passaggio di cicloturisti han creato questo mostro. Ci salva il fatto che la loro attenzione viene subito spostata sul camion colmo di sabbia che passa vicino; urlano, corrono, si appendono al cassone e vanno via così.






Noi pure ce ne andiamo e ricominciamo a salire piano piano. Passiamo le prime ger, o yurte, che qui sono però ben meno diffuse che in Mongolia. Sembra quasi vengano tenute per vezzo. Quanto a dove andare, sappiamo che all'ultimo paese della valle dobbiamo svoltare a sinistra, attraversare un fiume e cominciare a salire.






Svoltiamo a sinistra, scendiamo ad un fiume, lo attraversiamo e iniziamo a salire, sempre seguendo la grande strada nuova in asfalto che abbiamo finora percorso. Dopo alcuni monti che par d'essere in Cappadocia, passato un fiume rosso di metalli e fango, la strada impenna e noi ci arrampichiamo.





Ahimè la nostra gioia ci si ritorcerà in breve contro. Continuiamo a ripetere quanto sia bella la strada e quanto nuova; salutiamo con la manina gli operai che ce la stanno costruendo sotto al culo. Ci diciamo che finalmente i kirghizi han compreso che se offrono vie di comunicazione decenti i turisti arrivano. E ammiriamo il paesaggio biondo di spighe e di morbide pendici.











Appena passato questo mausoleo, simbolo dellla favola bella che ieri ci illuse (o Ermione) un suv accosta davanti a noi e ci fa segno di fermarci. Un kirghizo in Rayban inizia con calma a dirci che siamo gli ennesimi turisti che toppano strada e che quella lì su cui stiamo pedalando è nuova, sì, ma ancora in costruzione, e va da un'altra parte. Noi all'inizio opponiamo qualche debole resistenza ma poi il Gps ci smentisce definitivamente. Abbiamo proprio cannato. 15km di salita per niente. Eppure non abbiamo visto altre strade! Offro una caramella a Raymond che dice di essere "a little depressed" e giriamo il culo delle bici. Bisogna tornare indietro. I cavalli e i merli azzurri ci deridono.






Dopo non brevi ricerche, tornati all'ultimo paesino della valle, troviamo la strada giusta, che poi è l'unica e principale che conduce alla città di Kazarman, che ha persino un aeroporto. Però non un cartello nè uno straccio di indicazione per arrivarci. E' la più isolata città kirghiza perchè circondata da monti e l'unico modo per raggiungerla è fare passi oltre i 3000 metri, impercorribili per ghiaccio e neve tra settembre e aprile. Ma è anche la più isolata perchè i malefici kirghizi non mettono mezzo cartello!

Comunque apprezziamo il metodo rapido che si usa qui per tagliar l'erba nei prati. Si appicca un incendio.



Inizia poi la vera salita, sulla strada giusta. Se non altro, è fatica ben spesa. La strada, all'inizio ancora asfaltata, attraversa minuscoli paesi, sempre più piccoli e con più cavalli che cristiani. Pardon musulmani.







Alcuni contadini dividono i semi dai fiori di girasole così, nel bel mezzo della strada. Le rare macchine passano a lato, e noi pure.







Salutiamo l'ultimo lembo di soviet-asfalto e inizia lo sterrato. E' un fondo terribile fatto di sabbia mista a sassi abbastanza piccoli da sgusciare sotto alle ruote, ma sufficientemente grandi per far sbandare. Nella sabbia la ruota posteriore gira a vuoto. Io ODIO lo sterrato (come puffo quattrocchi). In più con le mie braccine di formggino e i gomiti bionici pieni di viti sono anche proprio una mezza sega. Eh vabe', con i giorni mi abituerò anche a questo. Il paesaggio intorno, se non altro, giustifica tutto questo sudar la cresima.











Più avanziamo più le case si fanno rade, fino a sparire del tutto. Aumenta invece il numero di cavalli, che non sono selvatici ma vengono lasciati liberi di pascolare e muoversi su tutti questi colli. E loro gironzolano con piglio austero ora, ora con fare da babygang di quartiere. Sono un poco giudicanti nello sguardo, comunque, sempre.




Inizia a far buio e troviamo un bel posto per piantare la tenda. Per oggi, con 85km di cui 30 da non contare perchè su strada sbagliata, abbiamo dato. Dobbiamo farne almeno 50 al giorno e ci siamo. Il grosso della salita verrà poi, ma ora è bene riposare.


La notte è densa di rumori, e son tutti animali e vento. Qualche lampo minaccia di pioggia, ma per fortuna ciò non avviene. In compenso il buio è percorso dal calpestio degli zoccoli e dallo sbuffare dei cavalli, da qualche muggito e da passi più brevi e piccoli, forse cinghiali. Mi pare di udire in lontananza, un paio di volte, degli ululati in branco. Cani randagi o lupi? O forse è soltanto la febbre. Santo Paracetamolo, ora pro nobis.


15/8/18

Veniamo svegliati da un curioso discorso che un gruppo di mucche tiene con un pari gruppo di cavalli.




Poco dopo, mentre si fa colazione, ci raggiunge anche un pastore a cavallo; probabilmente è venuto a controllare che non si stia facendo nulla di male nelle terre dove pascolano le sue mandrie. Qui è lecito nonchè assai frequente campeggiare wild: lo spazio non manca e tanti sono ancora i nomadi che vivono da generazioni nelle ger. Sicchè non son due ciclisti nei loro sacchi a pelo a far problema. Qui sui monti pare che la religione musulmana abbia preso poco; gli uomini mi salutano e mi stringono la mano, a volte prima che a Raymond. Nella città sulla valle di Fergana è diverso, ma non tra i pastori che han secoli e secoli di roccia e vento addosso e non si fan certo stregare da quattro balle cacciate da un pulpito.




Si riparte sotto ad un sole caldo ma steperato dall'aria fresca. Dobbiamo risalire tutta tutta tutta questa valle e poi scalare quell'ultimo muro che si vede là in fondo all'orizzonte.


Per fortuna l'acqua non manca e, seppur vada sanificata, abbiamo sempre 5 litri in boccia + 2-3 litri in bottiglia + le borracce piene.  Beviamo almeno 7-8 litri al giorno a testa, quindi con un ricambio prima della sera va benone.


Su queste strade diserte si incontrano quasi più turisti offroad che locals; infatti ci raggiunge una coppia di ragazzi italiani (altoatesini tedesco-parlanti tra loro) in auto. Hanno noleggiato il mezzo qui e stanno facendo un giro non dissimile dal nostro. Ciacchieriamo un po' e poi loro, gentilissimi, ci lasciano acqua sana in bottiglia e una preziosa banana.


Ogni tanto passano anche mezzi altri, tipo i furgoni con sopra i cavalli con sopra i cowboys. Non smontano dalla sella nemmeno quando sono sul camioncino. Chissà se dormono anche, così.


Passano poi altre mandire di muuuucche che bloccano la circolazione e lo sviluppo del centr'Asia, sicchè dobbiamo aspettare che la strada si liberi. Raymond ha anche perso una vite che sorregge gli agganci delle borse. Io la cerco nella polvere ma nulla, lui intanto ne trova una simile e ripara il guasto.




La strada è tutto men che deserta e veniamo raggiunti pure da due bimbi carinissimi a dorso d'asino. Parlo un po' in russo con il più grande, che poi traduce al fratellino minore facendogli le voci. Il piccolo sbarra gli occhietti a mandorla e muove i piedini zozzi di fango ben più vecchio di lui. Poi loro mi stanno subito simpatici: non vogliono soldi ma confiet, caramelle. Stavolta le ho e le regalo volentieri.




Fissata (fixed) la borsa rimontiamo in sella. La febbrina mi dà dolori al collo e alla schiena, che si amplificano ad ogni sasso e ad ogni buca. In più alcuni rigagnoli d'acqua trasformano in fango la terra sabbiosa e i nostri copertoncini fighetti da 1.5cm poco tassellati (Marathon plus), ottimi su asfalto, piangono forte su questo fondo impietoso.







All'ennesima salitella dove si scarliga via, butto la bici (delicatamente, eh! E' pur sempre la mia Signora, nella buona e nella cattiva sorte) a lato strada e mi stendo a terra in forma di stella marina, o gamberetto, che è il mio alter ego quando son molle e trista. Al sole nella polvere fottesega. Io. Da. Qui. Non. Mi. Muovo. Il povero Raymond, con santa pazienza, cerca intorno un buon posto per fermarsi all'ombra. E lo trova a breve distanza, proprio accanto al fiume.


Mentre lui pranza io cado in un sonno nero di stanchezza e febbre. Dopo circa un'ora vengo svegliata dalla caciara che fa un gruppo di kirghizi che ci ha raggiunti per un pic-nic. Poco dopo arriva anche una carovana di 4x4 colma di turisti europei, con autisti e sherpa che preparano a loro, già panzuti abbastanza, un pranzo tipo Natale. Indovinate tra i due gruppi chi ci invita al desco? Esatto, i kirghizi.


Per fortuna non abbiamo bisogno di mangiare e possiamo solo fingere di. Il pic nic consiste in: una tovaglia stesa a terra, attorno a cui ci si siede. Nel centro un mischione di cioccolatini e caramelle incartati, dolcetti e biscotti mezzi masticati, ciancicati, rotti e risputati e buttati insieme al pane, tutto smozzicato e risalente a diverse ere, come dimostra la stratigrafia rapida che faccio a occhio, alla frutta secca, ed altra roba che è meglio non sapere.



Poi ci son due piattoni con patate, carne d'agnello e uvetta, da cui si pesca con cucchiai comuni, come mi era capitato in Mongolia. Anche le tazze, che fungono da bicchieri, son comune. Ce ne vengono porte due COLME di vodka, nella quale galleggiano formiche annegate felici. La donna sotto, in foto, tiene la boccia di vodka e continua a riempir bicchieri. Poi questi guidano, oh! Per i bambini e i turist compare anche un succo di frutto che bevo pensando a che piscina di batteri possa essere. Ce ne andiamo prima che arrivi la salmonella in persona, mentre una delle donne raccoglie il legno e prepara il tè alla Raymond, su fuoco vivo, in una teierona enorme in ghisa. Soviet power!


Dopo il pasto prendiamo l'ultima acqua per il pomeriggio e attraversiamo una zona di casette sparse di pastori. Qui le yurte non sono tanto usate, benchè qualcuna comunque si trovi. Preferiscono vivere in container di metallo su ruote o simili baracchi.








Piano piano, rincoglionendoci sullo sterrato, arriviamo alla fine della valle, dove il fiume è piccolo piccolo ora e scorre nel letto grande che occupa nei mesi di disgelo. Ci sono arnie sparse qua e là.



Inizia a questo punto la salita vera e propria, quella con i tornanti. Procediamo veramente a passo di volpe lenta, perchè le pendenze si fan sentire e il fondo, soprattutto all'altezza delle curve, è una tragedia. Io lo faccio sempre di corsa e tenendo il fiato, sperando di poter risalire la piccola frana di sassi e sabbia, come Willy Coyote quando precipita ma risale saltando di masso in masso.






Davanti, sempre, a mangiarsi l'orizzonte, sta il passo. Ci avviciniamo metro dopo metro, e siamo stanchissimi. Io benedico il farmacista, Gaetano Veronelli di Bareggio (ciao!) che mi ha caricata di medicine, per cui posso sfarmi di tachipirina. L'aria rinfresca in fretta.





La vegetazione si fa sempre più rada e più nera la roccia. E' la prima volta che salgo così in alto, sia in bici sia a piedi. Il mio massimo è stato lo Stelvio a pedali. Temo di subir malori per la quota ma nulla, e sono ben felice di non avere un ulteriore fastidio da gestire. Già devo controllare le vertigini, che a valle la montagna precipita nel dirupo. E devo controllare la paura dello sterrato. E la fatica. E il poco sonno. Insomma, basta così!










A 4km dalla vetta ci riforniamo d'acqua per la notte. A conti fatti, arriveremo al passo con il primo buio e dovremo fermarci lì. Approfittiamo delle cascatelle di cui ci ha parlato un ciclista molto british, con accento molto british, che abbiamo incotrato stamani; lui scendeva a manetta con una bici tipo downhill e solo bikepacking al telaio. Si lamentava del caldo. Oh my gosh e il tea delle five o'clock con il mignolo alzato allora no?







Il sole è ormai basso, bassissimo, e fa pure un grand frecc. A breve ci saranno pochi gradi sopra lo zero, forse. Incrociamo una coppia di olandesi che è in viaggio da 6 anni e vive in van. Chiacchieriamo un po', ci offrono acqua e cibo ma siamo a posto. Dobbiamo raggiungere il passo prima dell'ombra. E così accade. Sono soddisfatta. Felice. Stanca morta. Ma ci siamo. Daje!


Il Kaldama è preso, con la sua aquila senza testa e il suo laghetto. Ora bisogna non prendere la broncopolmonite, sudati come siamo e tutti in corto, con il vento gelido e la neve a pochi passi.



Decidiamo di metter la tenda lì lì, proprio al passo, accanto al cartello che segna la fine della regione di Jalalabad e l'inizio di quella di Naryn. Incocciamo in un'allegra famigliola che vive lì da qualche parte. Sono assai curiosi e ci tempestano di domande; poi ci danno una mano a metter la tenda e ci regalano delle mele.


Si aggiunge un altro pastore smart-phone munito e scopro che qui al passo c'è connessione internet. Incredibile. Io mi infilo nella tenda per cambiarmi e mettermi addosso tutto quel che ho portato di pesante. Per fortuna basta e avanza. Una bimba continua ad aprir la porta della tenda e curiosare. Poi tutti si congedano e restiamo Raymond ed io. Ci cuciniamo un lauto pasto (doppia dose di noodles istantanei piccanti e tè con biscotti) direttamente nella tenda, perchè fuori si gela.


E poi cadiamo entrambi in un sonno di piombo, nero come la notte ma pieno pieno di stelle luminosissime che ammiccano e ridono parlando di casa.

1 commento:

  1. LA BICICLETTA
    Pedali un giorno intero
    poi dormi dove trovi,
    mangiare è un bel mistero
    con cibi sempre nuovi.
    Viaggiare in bicicletta
    è sempre un po’ speciale
    si vive senza fretta
    in modo originale.
    Dialetti e lingue strane
    e facce incuriosite
    confini e poi dogane
    con lingue mai sentite.
    Da Napoli al Giappone,
    da Brindisi a Cantù,
    la bici è un’emozione
    che non ti lascia più.



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