giovedì 23 agosto 2018

52-53. La valle del fiume Naryn e il passo Kara Koo (2800m)



Il racconto del viaggio si è interrotto 6 giorni fa a Kazarman, era il 17 agosto. Prima di riprendere la narrazione in ordine cronologico, faccio una premessa datata oggi, 23 agosto, data in cui firmo la fine dell'incubo di roccia e sassi, di freddo e febbre in cui ho vissuto negli ultimi giorni. Ho visto cose che voi umani. Panorami bellissimi ed un'umanità che vive un altro mondo, un altro tempo ed un altro pianeta. Forse davvero non ero più sulla terra ma altrove nel cosmo bello. Bello e duro, e gelido, e impietoso.Senza bombole d'ossigeno e con la tosse, su per i passi (5) da 3000 metri o più, tra i laghi e la neve, le yurte dei pastori di cavalli e un cielo sempre indecifrabile e disumano.

Abbiamo passato, dopo Kazarman (che già si raggiuge in 3 giorni di sterrato con un 3000 in mezzo e molte salite minori), 5 giorni di assoluto nulla. 350km con in mezzo 3 villaggi dove, se ti va bene, trovi dei biscotti scaduti e delle cipolle, se ti va male nemmen quelli. L'acqua non manca mai ma è quella dei fiumi e dei laghi, e ci son molte bestie al pascolo libero: va bollita o sanificata. Dopo Kazarman, l'ultima città, ci sono, a salire al lago SongKol, due passi, un 2800 e un 3346, a scendere altri due, 3400 e 3000 (ma chi li conta è stronzo perchè si è già in quota e son salite da meno di 10km, le altre superano i 50km). La strada è TUTTA sterrata male, di roccia, sassoni e sabbia scivolosa, soprattutto sui tornanti, e in concomitanza delle numerosissime frane mai pulite. Quando piove o quando qualche torrente esonda si fa il fango, appiccicoso: più fatica a pedalare ma meno pericolo. Dopo due ore su questo fondo non c'è nulla che non faccia male, soprattutto le mie braccine bioniche, perchè pare di lavorare col martello pneumatico a spaccare l'asfalto. Raymond ha dovuto più volte riavvitare tutte le viti allentatesi per le vibrazioi; avrei voluto fare lo stesso con quelle che ho nei gomiti. Il rischio di cadere è comunque sempre molto alto, in salita perchè la ruota posteriore slitta nella sabbia, in discesa perchè i freni miei andavano sì e no, in piano semplicemente per il fondo di merda. Non mi vergogno a dire che mi son cagata a tal punto sotto più volte da fare dei tratti a piedi (hey, ho una bici da quasi 40kg, sono a 3300m con il raffreddore, devo anche cadere?); Raymond è proprio caduto qualche volta, per fortuna senza farsi nulla. Ultimo problema: il clima. si parte da 35 gradi a Jalalabad e si arriva allo zero sulle vette, ogni giorno con sbalzi di venti gradi e passa. Di notte fa freddo. Di giorno dipende se c'è sole, vento (a volte capita), temporali (spesso capitano), grandine (una volta è capitata). Se si è malati come lo ero io non è un toccasana, tanto più che in salita sudi comunque, in discesa comunque hai freddo: bisogna sempre avere un giro di cambio asciutto e vestiti per ogni tempo. Almeno ho usato l'invernale e il k-way che mi son portata dietro nel deserto con 50 gradi, almeno. Da ultimo, per questo sbalzi climatici e comunque l'asseza di strutture, non ci si lava e si mangia quel che si può: io ho tolto i calzini tecnici (nel senso ormai diplomati) dopo 5 giorni, 120 ore di presenza fissa. Abbiamo mangiato noodles tipo Saikebon ogni sera e pane e formaggio o tonno ogni pranzo, pane e Nutella ogni colazione, tè e caffè e biscotti e latte condensato come generi di lusso.

Diciamo che ieri, quando ho rimesso ruota sull'asfalto, ed era in discesa, e portava ad una città con ostelli, mi sono commossa e mi son sentita come un soldato che torna dal fronte. Io non ho ammazzato nessuno, se non forse la vecchia me stessa. All'inizio è stata una lotta corpo a corpo con la montagna, poi ho imparato a scivolare e scorrere come i rivi d'acqua tra i sassi e il muschio, lungo la linea di minor resistenza. Raccontare non è facile, ci provo.
Riavvolgiamo il nastro

18/8/18 (palindroma!)

Da Kazarman, la città più isolata del Kirghizistan, non siamo usciti sotto i migliori auspici; mentre eravamo nella ger a far colazione, un temporale di circa un'ora ci ha pisciato in testa trasfromando non l'acqua in vino ma la sabbia in fangazza orribile, la temibile rasputiza, versione ex repubblica socialista.
Io, tra l'altro, ero felice di aver sistemato i freni della Signora ma ancora terrorizzata all'idea di trovarmi di nuovo in una situazione simile a quella del giorno precedente: in discesa senza freni. Sapevo che avremmo avuto molti giorni di montagna e nessun appoggio in mezzo, e l'ombra della paura mi si attorcigliava allo stomaco.

Appena spiovuto, comunque, siamo partiti. Abbiamo salutato chirurgo e ottico di Roma che viaggiano in moto scortati dal cosacco Sergei (in foto) che li segue in auto, e che auto. L'anno prossimo pure io voglio viaggiare così, con un Sergei che ti porta i bagagli e ti pianta la tenda e ti solleva di peso, te e la bici, per portarti di là dal fango. Che scherziamo.


Se Kazarman è brutta col sole, con il maltempo è proprio orribile; immaginatevi d'autunno e d'inverno, quando resta isolata dal resto del paese per la neve sui passi: negozi vuoti, scaffali depredati; ubriachi per le strade e nessun altro. Un incubo! Comunque, uscendo dal paese, siamo passati accanto all'aeroporto, che dal 2012 non ha più voli. E si capisce. Ci sono carcasse di aerei, alcune ancora con la sigla CCCP. Tra parentesi, la compagnia aerea kirghiza è nella lista nera tra le peggiori per incidenti e cancellazioni e ritardi; certo le tempeste sui monti non aiutano, ma non è solo quello il problema.




Altra particolarità gioiosa dei paesi kirghisi è questo uso di lasciare barili di bitume e vasche del medesimo nero e untuoso liquido a bordo strada. Perchè? Boh. Forse lo han lasciato i russi quando volevano asfaltar la strada e poi nessuno ha più saputo cosa farsene. E resta lì così. I bimbi ci giocano vicino e la gente ci butta la monnezza.






Uscendo da Kazarman apprezzo uno dei primi cimiteri musulmani di questo paese che riesco a vedere da vicino. Ci sono tombe ben grandi, in forma di piccola moschea, lungo tutta la collina (naturale, non creata artificialemente in modo buffo come in Uzbekistan). La strada, tra tombe, cielo nero e bruttura, assume un aspetto sempre più inquietante. Almeno quanto le medicine acquistate nella minuscola orribile farmacia cittadina, lugubre e priva di qualunque traccia di anglofonia.






Finisce la città con una falcemartello che è lì dai tempi ed iniziano alcuni piccolissimi villaggi agricoli, che son cascine sparse ed isolate. Purtroppo. a nostre spese, impariamo presto che la gente qui guida davvero di merda, perchè ubriaca e piena di vodka o perchè stronza; molti (pochi invero, il traffico è minimo, ma in percentuale) fanno apposta a passare vicinissimi, a pelo della bici, ed è assai pericoloso perchè la strada è sterrata e basta poco, per noi, per esser costretti a fare improvvise piccole deviazioni. Raymond all'inizio si impunta, si incazza e sta in mezzo alla strada. Al secondo rischio morte sbassa le regie. Io decido di fermarmi fuori dalla carreggiata ogni volta che sento un motore avvicinarsi.









Dopo aver passato il posto di blocco dei tacchini cativi* e gloglottanti, arriviamo al fondo della valle. Qui si presenta un bel problema che ci terrà impegnati per una buona mezz'ora, tra carte e mappe, mentre il cielo decide di rovesciaci addosso quel poco di spisciolino che gli è rimasto. Il busillis è questo: su Google Maps la strada principale che trascorre la valle e porta all'altra città, Naryn, sta alla riva sinistra del fiume (Naryn), cioè dove siamo noi. Ovvero: non dobbiamo attraversare le acque, niet ponti. E però pare proprio che tutte le poche auto, le tracce di copertoni e la strada principale passino alla riva destra, seguendo quella che su Google è una viuzza urfida che dopo 30km di salita finisce nel nulla dei monti. Un bel problema. Solo che quella che risulta esser la strada principale, nella pratica, è ormai un sentierino di fango ancor più -ino e -ango delle altre strade. In bici e a piedi ancora ancora fattibile, in auto non di certo. Viene in nostro aiuto una contadina cui chiediamo lumi e ci conferma che la strada per il lago è invero non quella di Google ma quella più grande. Allora l'illuminazione: qualche giorno fa ho letto che tra 2015 e 2016 violenti temporali hanno letteralmente lavato via la strada che collegava i paesi della valle. Vuoi vedere che questa, assente sul più grande motore di ricerca del globo, è quella nuova? E così attraversiamo il Naryn e iniziamo a salire, tra fango e frane e sassi che rotolano giù dai fianchi dei monti. Per fortuna gh'avemo il caschetto!








Intanto il cielo sorride un poco e tornano i grilli a cantare. Per tutto il giorno, tra colline e saliscendi non eccessivi, sarò accompagnata da un profumo paradisiaco di cui non so dire il nome. Sicuramente è un'erba che da noi non c'è. E' un misto tra menta, lavanda e fieno. Il dolce della terra che esala come un incenso al dio delle piccole cose.








Passiamo tra gole strettissime e pareti alte di roccia viva. Nel silenzio del disteso mezzogiorno si sentono i sassi rotolare e spaccarsi a terra. Sto lontana dai fianchi dei colli. Si sale e si scende ma dolcemente, per ora.









Ogni tanto una cascina od un caseggiato dove belano le capre interrompono l'assoluto vuoto d'umanità che regna sovrano tra queste pendici. Per chi s'accontenta, non è difficile vivere, qui. L'acqua non manca e l'erba cresce rigogliosa. D'estate asciuga in fretta ed il fieno profuma. La legna si trova e le pietre pure, per costruire. Si vive come l'uomo ha sempre vissuto fino a un secolo fa, e non per forza peggio. Non se non hai mai visto cosa c'è in valle. Non se lo hai visto e ne hai avuto spalancato orrore.




Dopo una sosta a pane, formaggio e tè, come i veri pastori (e penso a Titiro che sta all'ombra del faggio e alla metrica che fa ridere sempre) ripartiamo e la strada inizia a salire con maggior decisione. Ci sono i tornantuzzi franati da bestemmiare forte. Ci sono i rosari e le gocce di sudore che cadono una ad una a bagnare la polvere. Il tempo si ferma e riparte pianissimo. Il tempo è relativo. E' misura del movimento. Si contrae come un muscolo teso. Si dilata sotto alle ruote lo spazio. Uno spasmo. E siamo in cima.











Ci si spalanca davanti agli occhi un secondo vallone con qualche villaggio. Dall'alto sembrano città, ma scendendo (piano perchè non mi fido dei freni) si rivelano un ammasso di cascine semiabbandonate.







Incontriamo prima un tedesco che viaggia solo e da Bishkek muove verso Osh. Poi questo gruppo misto di coppia tedesca e ragazzo bulgaro con camicia bulgara che sta andando a fare la Pamir highway. Loro scendono dal Songkul, il lago dove stiamo andando noi, e ci dicono che da quel punto esatto dista 150km. Orrore. The horror. The horror. Altro che Conrad. Significa che questa nuova strada è più lunga di circa 40km. Ovvero un giorno di marcia in più. Un giorno di dolore in più. Di zozzura in più. Di campeggio al freddo in più. Di acqua lercia in più. Che muerte.






Abbattuti dalla notizia, ci rimettiamo in sella e ricominciamo a salire. Qui gli strappi, sia in su sia in giù, sono più secchi e cattivi. Come se non bastasse, il vento ammassa le nuvole e inizia la rumba dei tuoni, che rimbombano tra le valle con eco sinistra. Decidiamo di finire la salita e accamparci il prima possibile: abbiamo già fatto 57km e non vogliamo montare la tenda sotto il temporale.







Quando pare che Zeus adunatore di nubi stia per dare il meglio di sè, troviamo un valloncello perfetto per la tenda e tiriamo il morso dei nostri cavallini. Stop! E di corsa ad accamparci, prima che il cielo ci cada in testa.








Tanto correre per nulla: le nuvole passano e si disperdono senza nemmeno una goccia di pioggia. Meglio così. Possiamo sfarci di noodles stile Saikebon, ma russi, e piccanti, doppia dose, in acqua clorata, direttamente sul pratone, all'aperto. Poi un tè con i biscotti, per scaldarsi, e la notte scende e si prende l'orizzonte. Sorge pure la luna, mezza, luminosissima: so che portarà questa luce anche a casa, e le affido un "buonanotte" da sussurrare all'orecchio pianissimo.






19/8/18

La giornata inizia bene, anzi benissimo. Quasi non mi sembra di essere lurida, in pancia ai monti, su strade urende e con tutta salita davanti. Mi distraggo facilmente, mi basta una farfalla, un cielo azzurro. Ed è azzurrissimo il cielo, come occhi pieni di grazia. I temporali per ora son lontani. La valle sorride larga e in lontananza, quel che credevo un cimitero, muggisce: i pastori stanno portando le bestie ai pascoli.








Prima di partire un segno di buon auspicio: una delle molte mantidi che vivono qui tra i cespugli spinosi si è scelta per casa il borsino anteriore di Raymond, e non vuole andarsene.









Dopo pochi kilometri di montagne russe e saliscendi capisco che oggi i miei freni sono malmessi: quello anteriore, meccanico, accrocchiato a Kazarman, pare chiuda una pastiglia sola. Quello posteriore deve essersi ri-riempito d'aria con tutte le botte che prende su questi sassi di merda. Devo andare pianissimo e di nuovo mi sento come su una birocia, come una una biglia di vetro su un piano inclinato. Come una persona che rischia la vita insomma.







Veniamo raggiunti tra tre statunitensi che viaggiano leggeri e con i quali sarà un continuo salutarsi e ritrovarsi tutto il giorno. In discesa loro vanno più svelti, in salita noi siamo più rapidi. Alla fine della giornata campeggeremo a pochi metri di distanza. Passa un camion di fieno con sopra tre persone e immagino che figata sia averele montagne russe a gratis con, a gratis, il rischio di prendere un tornante per dritto e finire in vale con le gambe in avanti.




Dopo qualche canyon si inizia a salire. Un motociclista, che ci chiede lumi riguardo alla strada perchè va in direzione opposta alla nostra, ci avverte: "Hey you have a climb in front of you.A big one". A big one. Osti, son quasi 40km di salita poi a conti fatti, tutti tornantini e tornantoni, per arrivare su a 2800 metri.






La prima parte è un serpeggiare della strada (sabbiosa scivolosissima) su su fino alla cima del vallone




poi si giunge ad un punto in cui spiana un poco, prima di attaccare coi tornanti veri e proprio. Io sono cotta, soprattutto per lo stress elettrico da scintille e vaffanculo facile che mi procurano la strada brutta e la paura di cadere. Ci fermiamo. Proprio mentre stiamo mangiucchiando qualcosa inizia a piovere. E allora vaffanculo davvero! Per fortuna il tempo di vestirci e bardarci e il temporale passa. Torna il sole, torna il caldo. Dobbiamo cambiarci id nuovo e rimettere il corto.






Riprendiamo a salire sotto ad un cielo che non mi garba affatto. Tuona e lampa ancora. Purtroppo qui in montagna è variabilissim ed imprevedibile. Si passa dall'estivo all'invernale dieci volte al giorno, e comunque si ha sempre un po' troppo caldo o un po' troppo freddo. Comunque saliamo.




Sotto a rade gocce di pioggia raggiungiamo, finalmente!, il passo. 2800 metri. Tutto brullo. Un vento da portare via. Un cielo che sembra volerci far del male. Tutto ha una forma terribile e inospitale. Meglio andarsene. E in fretta. O almeno, scendere piano piano piano perchè i miei freni altro non consentono che un tristo, cigolante gniiiiiiiiiik di metallo su metallo.









Siamo fortunati. Anzi, fortunatissimi. Squarci di azzurro si riaprono fra le nuvole e, sebbene faccia sempre un freddo becco, torna la luce e possiamo goderci la discesa. Tutta la prima parte dopo il passo, da questo lato orientale, è costellata di yurte e container arrugginiti dove vivono i nomadi d'estate; fuori ci sono i recinti per i cavalli e le mucche, che pascolano liberi durante il giorno. I camini fumano, mi viene ancora in mente Virgilio e quel suo procul; qui non da lontano ma da vicino. Siamo già quasi all'inverno, da queste parti.








Dopo un tornate, una curva come mille, lo spettacolo di meraviglia più pura. Davanti a noi inizia ad intravedersi, azzurra per la distanza, la valle del fiume Naryn, lasciata ieri mattina e ritrovata ora dopo tanta montagna.






Si vede la strada scendere a folli tornanti e già mi cago addosso all'idea di doverli fare con freni sfrenati; ma tutt'intorno il paesaggio è pazzesco, mozzafiato, una cosa mai vista. Siamo su Marte? Su un pianeta lontano? Così a lungo si è pedalato?



















Scendiamo lungo questa strada che è un balcone panoramico sulla bellezza, che spaventa e allaga il cuore allo stesso tempo








Dopo gli ultimi tornanti raggiungiamo una strada diritta, sempre in discesa, che porta quasi al fiume; tornano i campi biondi di spighe mature. Qui intorno ci deve essere un paese. Si vede la mano dell'uomo. C'è infatti il minuscolo Ak-Kya.



Come sempre per 200 metri prima e dopo un villaggio, c'è pure l'asfalto. Il più inutile del mondo. A che serve asfaltare 200 metri a destra e sinistra delle cascine? Mah. Comunque ne approfitto per riposare un poco le mani e i gomiti bionici, ormai incastrati in un'unica posizione e inamovibili.






Ci fermiamo in uno dei due negozi che vendono cibo in paese; in breve diventiamo noi l'attrazione turistica e vengo assalita da un gruppo di ladies che si fa un marea di selfie con me. Poi vogliono mail e contatti whatsapp eccetera. Noi siamo invece tutti mogi perchè abbiamo scoperto che il negozio è assai sfornito: ha solo due bottiglie piccole d'acqua e qualche biscotto, e un formaggetto. Null'altro di utilizzabile. Il pane qui si fa in casa e non si compra. Frutta, verdura e carne vengono venduti tra contadini. Non è facile.




Passiamo il cimitero, che taglia a metà la città, e raggiungiamo la seconda parte abitata. Qui, oltre al solito bimbo su asino, troviamo un altro negozietto, attaccato alla casa dei proprietari. Chiediamo se hanno del prezioso pane, chleb, e la ragazza va in casa e ci dà quello che ha impastato e cotto con le sue manine. Non è molto, ma per un giorno basta.









Ormai è quasi sera ed è ora di fermarci, siamo già a 57km precisi pedalati. Domani ci attende l'ultima grande scalata, quella che ci porterà al lago Songkul. Usciamo dal paese e, sul primo pratone, incrociamo i tre ragazzi statunitensi. Ci fermiamo lì, e la luna, anche stasera, sorride tranquilla sul nostro piccolo andare.









1 commento:

  1. QUESTO VIAGGIO COL RAIMONDO
    Questo viaggio col Raimondo
    è davvero portentoso,
    come un lungo girotondo
    un racconto favoloso!
    Il deserto e la montagna,
    i mosaici ed i cammelli,
    il dormire senza lagna
    all’aperto o negli ostelli.
    Sei partita da Teheran
    all’inizio dell’estate,
    finirai in Kazakistan
    con le gambe un po’ stremate.
    Al ritorno ascolteremo
    com’è andata l'avventura
    e di certo applaudiremo
    questa volpe tosta e dura.
    L’anno prossimo chissà
    quale meta ha nel mirino.
    Il futuro lo dirà,
    non scopriamo l’altarino!

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