giovedì 9 agosto 2018

43. KOKHAND. Dopo tanta, tanta, troppa salita, finalmente la VALLE di FERGANA

9/8/18



Facciamola breve: oggi è stata una tappa mortale dal punto di vista della fatica e del caldo. Il pedaggio per entrare nella valle di Fergana, il frutteto dell'Uzbekistan, nonchè zona di tumulti politici e instabilità sociale, è una scia di sudore lunga 137km precisi. Infatti per accedere al paradiso terrestre verdissimo che sta chiuso tra Tajikistan e Kirghizistan bisogna scalare una codina del Tien Shan, fino al passo Kamchik, che sta sui 2200 metri.

Stamattina abbiamo volentieri lasciato l'hotel Fayz di Angren, dove il personale è scortese e si paga pure per respirare: nulla è incluso nel non piccolo prezzo. Già dalle prime luci il paesaggio ci si è mostrato così, bello e immenso. Sapevamo di dover scalare e dunque ci siamo armati di pazienza. I kilometri di salita, alla fin fine, sono stati 55, parte a risalir la valle del fiume Angren, parte sugli ultimi tornanti e nelle gallerie in vetta.


Siccome da Gugolmàps pareva che tra il nostro punto di partenza, Angren, e la prima città in valle dall'altra parte, a quasi 140km, ci fosse l'assoluto nulla, abbiamo fatto una spesa abbondante per essere autonomi per 24 ore e poter campeggiare sui monti. La boccia da 5 litri d'acqua comprata da Raymond è arrivata del tutto intatta qui a Kokhand, la città a 140km; un po' perchè non è affatto vero che in questo spazio non c'è nulla, anzi, fioriscono bagarini, bancarelle e locali dedicati ad automobilisti e camionisti (e io ci avrei scommesso: dopo due settimane in Uzbekistan ho capito come gira il fumo: se c'è strada con transito, ci son bancarelle con cibo e bibenda); un po' la boccia è intonsa perchè alla fine mica s'è campeggiato: abbiamo fatto una tappissima tremendissima e abbiamo portato il nostro culo a Kokhan, o Qo'qon in uzbeko. Di questa città domani visiteremo, prima di partire, il palazzo del khan. Perchè tra metà '700 e metà '800 questa fu capitale di un khanato autonomo e rivale di quello di Samarcanda, invischiato nelle vicende della conquista russa.. Ma ne parliamo bene domani.

Comunque, al supermercato dove abbiam fatto spesa, i commessi si sono assai interessati alle nostre faccende, ed han voluto provare i miei occhiali, che paiono andare a ruba: non è la prima volta che mi capita, e idem col caschetto. Poi ridendo i locals chiedono quanto costino quegli occhiali. Se dicessi il prezzo vero, che equivale a 4 notti per due persone in un hotel di qui, si creerebbe dell'imbarazzo.


Siamo usciti rapidamente da Angren, per scoprire che anche la metà orientale è brutta, semiabbandonata e tutta a palazzoni-formicaio ed ecomostri.





C'è pure un'altra centrale nucleare ben grande, a nemmeno 20km da quella che abbiam visto ieri. Sembrano impianti vetusti lasciati qui dai russi. Qui che tra l'altro è zona ad alto rischio sismico. Per la serie: dio sta in alto, lo zar è lontano, se ti pieghi a novanta lo pigli nell'a... Però è una zona tax free, eh.




Con la pazienza delle radici iniziamo il saliscendi, sempre più sali che scendi, che ci porta nel cuore dei monti. Andiamo proprio nelle loro fauci di roccia, incontro alle pareti alte, nella pancia del mostro di pietra che ancora dorme, ma a breve si sveglierà e noi dovremo passar svelti sulla sua schiena per non essere inghiottiti.

Da un lato il Pamir, dall'altro il Tien Shan, siamo sempre più circondati e lo sappiamo: non si scappa, non c'è altra via se non scalare.

Per fortuna i colori sono morbidi, è un gran disegno pastello che sfuma nell'umidità e nella nebbiolina radioattiva. Son colori placidi, un sussurro: nulla urla ed il silenzio è un balsamo che permette di restare concentrati e liberi da ogni pensiero. Sembra un ossimoro ma non lo è.







Dopo alcune colline iniziamo ad intravedere il grande bacino artificiale che fornisce acqua a tutta la valle di qua, raccogliendo ciò che i monti han da offrire e i letti sparsi e torrentizi dell'Angren. In tutta questa arsura, in questo caldo abbacinante, dopo tanto deserto e tanta polvere bruciata, a veder l'azzurro in lontananza il mio cuore fa le capriole. Mi sento come i cammelli che ho cavalcato in Mongolia, che, quando han visto l'acqua in lontananza, hanno iniziato a fremere e scalpitare, impazienti. Raymond mi ha detto che possono bere fino a 120 litri d'acqua in una volta. Io anche. E vorrei fare il bagno. Un tuffo di bollicine, un brivido azzurro. Ma non si pole, ahimè. Bevo con gli occhi e tanto basta, osservando dall'alto la bellezza del riflesso del sole sulla superficie del lago. E' un caleidoscopio di scaglie d'oro e azzurre.Il gioiello più prezioso del khan.


















Seguendo il corso del bacino continuiamo a risalire la valle, fino a che il grans serpente azzurro sparisce alla vista e tornano intorno solo roccia e pietre. La strada è in condizioni terribili e tanto faticano le gambe sui pedali quanto le mani e le braccia sul manubrio. La schiena è crocifissa a tutte le buche e i sassi. Si inizia a far fatica per davvero, mentre gli occhi bruciano per il sudore che gocciola giù dalla fronte.





Ricompare, in un valloncello, l'Angren, così strimnzito qui verso la sorgente che fa quasi tenerezza. Si riduce a striscine d'acqua che gorgoglia per darsi un tono. Ora è anche estate, ma le vette intorno raggiungono i 3500 metri e di certo tra qualche settimana ci sarà la neve.


Giungiamo ad una sorta di paesino senza nome, costituito da bancarelle che vendono merce difficile da identificare (pane e funghi? Muffe domestiche? Biscotti dell'ottobre '17?) e da una moscheina piccola piccola. Compriamo altra acqua, giusto per portarci del peso inutile appresso. sarà poi tutto un susseguirsi di mercatini e ristoranti. Ma vuoi mettere la figata di salire in quota con una bici che passa i 40kg? Raymond stanotte probabilmente ha messo a letto la boccia da 5l, coprendola con il lenzuolo, dopo averle cantatto una ninna-nanna.







Percorriamo ancora qualche kilometro ma siamo esausti. Fa caldo da esplodere come una frittella buttata nell'olio bollente. La strada fa schifo perchè è fatta di lastroni di cemento giustapposti, ed ogni due metri babum, babum, babum, le ruote incocciano i bordi dei piastrelloni tutti rovinati. Intorno la vegetazione si fa più rada, segno che stiamo, quantomeno, guadagnando in altitudine.















Di fronte a noi si para il passo dove dovremo scollinare, ed una collina terribile tutta a tornanti. Sembra la torre di Babele del famoso quadro. Sembra la torre di Pisa ma costruita dai giganti, e dritta. Sembra l'incubo che ci tocca a breve per scontare qualche colpa commessa in un'altra vita, o dai nostri avi.

Decidiamo che prima di tanta pena è bene fermarsi a riposare. Optiamo per il classico ristorante con divanoni e vista sullo strapiombo. Raymond si fa due teiere e due spiedoni di carne arrostita al momento, io vado di pane speziato e cipolle, come gli schiavi d'Egitto. Perchè qui la carne arrosto arriva sempre accompagnata da  un piattone di cipolle crude. Poi te credo che nei ristoranti alla cassa vendon pure le cingomme alla menta. Vedrai.



Mangiamo e dormiamo anche. Vengo svegliata da un crescente numero di mosche che mi disturba il sonno, e aprendo gli occhi scopro il perchè. Due pecore, credo, penzolano da un ramo, alla mercè degli insetti e degli artigli del sole. Il Raymond sta lì accanto, e si è appena svegliato: tutto nella norma.










Prima di ripartire ci rinfreschiamo presso il sistema uzbeko di refrigerazione dei prodotti da frigo. Da conservare in luogo fresco e... no, asciutto no. Siccome qui non hanno gran che di corrente elettrica, il frigorifero è sostituito dal getto d'acqua fredda pescato direttamente dal fiume. O dalla fogna, non mi è chiaro. Al banchetto accanto si vendono cose di cui non so il nome nè la funzione.




Pronti, via. Si sale senza sosta, con percentuali tra il 7 e il 12. Vediamo alle nostre spalle srotolarsi la valle, nella luce più bassa.




Iniziamo ad attaccare i tornanti dell'ultimo monte, che girano tutto tondo tondo intorno ai fianchi del rilievo e sono come una gran scalinata che permette di salire al passo, ormai vicino in linea d'aria.








Ed eccoci qui, nel punto più alto, finalmente. Ai nostri occhi, in basso, appare la strada, una striscina ridicola vista da qui, un bisciolino che va a perdersi in seno alla roccia all'orizzonte, poco sotto alle nuvole.





In verità il passo, in foto qui sotto, non si raggiunge davvero; a pochi metri è stato di recente scavato un tunnel, buio e pericoloso e trafficatissimo, che porta di là dalla sella. Prima di accedere alla galleria si passa alle forche caudine del check poin. Militari in mimetica e passamontagna, con mitra spianato, chiedono i documenti. Poi, prima di ridare i passaporti, fanno mille domande. Come sempre sono troppo curiosi e capiscono poco, sfogliano le pagine più e più volte e più e più volte rimirano il visto. E finalmente ok, bye bye.



Ahimè di là dalla galleria non c'è la discesissima sperata, o, almeno, non ancora. Un po' di falsopiano, un altro passo, un altro tunnel. Si scende un poco e si risale altrettanto. Le guardie qui non ci fermano, inshallah, ma smadonniamo assai per i camion che passano in galleria a manetta e ci fanno la fettina di culo.



Finisce a questa galleria, e finalmente inizia la discesa vera. Dura quasi 50km ed è pura libidine. I primi 20 sono piuttosto ripidi, ma la strada è nuova e bella si può scendere a randello senza toccare i freni. Superiamo molti camion e ci godiamo il fresco e il vento in faccia. Ah! Che bello! Com'è giusta la legge della strada, che impone che tanto si sale tanto poi si scenda, e tanto si fatichi tanto ci si riposi dopo. Com'è sensato questo equilibrio, questa omeostasi dell'altitudine.




Anche da questo lato, che ho fotografato poco perchè se vieni giù a 70km/h è meglio che tieni le mani sul manubrio, tutte e due, ci sono baracchini e ristoranti.Si vendono soprattutto mele e albicocche e la frutta abbonda: si vede che stiamo entrando nella valle di Fergana.

La discesa prosegue meno ripida e più dolce, perfetta, meravigliosa. Il paesaggio muta in colline brulle caramellate dalla luce bassa del tardo pomeriggio.



Compaiono in primi paesi e i primi campi, qui già d'oro di spighe. Ma in lontananza si intravede un gran verde, che sono i prati e i frutteti che m'attendo da questa regione. Indanto scendiamo, e ci lasciamo portare dal vento e dal declivio sempre più in basso.





Giunti alla fine della lunghissima, inebriante, discesa, iniziano davvero i prati, i campi, i boschi e i filari. Passiamo il fiume Syr Darya, che rende così verde questa valle. Il tasso di umidità nell'aria sale e torna a fare caldo, e si fatica a respirare. Sembra di essere in una serra.



Superiamo il monumento che segna l'inizio della valle di Fergana, ed abbiamo già passato i 100km. Iniziamo ad accarezzare l'idea di poter giungere a Khokand, che dista ancora solo 35km; così possiamo evitare il campeggio tra zanzare e paludi, e possiamo lavarci, che siamo sudati e luridi da far schifo ai cani (infatti i pochi randagi ci girano alla larga davvero). Siamo stanchi ed io inizio a pagare il pranzo leggero, ma si prosegue.




Arriviamo a Dangara, dove ho visto esserci un grande motel sulla strada. Siamo felicissimi quando varchiamo la porta della reception, ma dico a Raymond, per scaramanzia, di non esultare troppo ed attendere di avere le chiappe in camera. Infatti. Chiamatemi Cassandra. Ci dicono che non han camere libere, e non è vero perchè su booking ne vedo ma non riesco a prenotare perchè la connessione fa schifo. Accampano spiegazioni sul genere "Eh ma c'è uno che forse viene forse no per quello su Booking si vede...". Insomma, in un motel immenso, nel mezzo del nulla, a meno di 10km da una città turistica piena di hote, full booked. Ma che scherziamo? Sti stronzi non vogliono mollar la camera perchè qui in fergana la polizia fa davvero i controlli sui documenti, anche agli albergatori. E accollarsi due "turist" è troppo sbatti, ciè, zio, anche no. So che in centro a Kokhand ci sono varie strutture, ma fisicamente non riesco a pedalare per altri 10km. Seguiamo allora il consiglio della reception degli stronzi: dopo la ferrovia al secondo semaforo a destra 400 metri c'è il Nigina. E che è? Un postaccio assai economico ma con una doccia e un letto. Ottimo.


Così tiriamo avanti, stringendo i denti e le chiappe, ancora 3km. Entriamo in Qo'qon, o Kokhand, ma restiamo in periferia. Troviamo il lezzo Nigina e qui l'urlante pescivendola proprietaria ci molla le stanze senza far casino. 10 euro e camminare. La doccia fa un pisciolino di 3 gocce al minuto, tre quarti delle cose presenti, dal condizionatore alle finestre, dal lavandino alle tende, dal materasso alla tv, non funzionano. Sembra di essere in Russia. C'è tutto ma non va nulla. Nie rabotet! Però quel che ci serve c'è, soprattutto un ristorante ottimo (sono infatti turchi) a 5 metri dall'albergo.

Domani, prima di partire per l'ultima tappa interamente uzbeka, visiteremo Kokhand e il palazzo del khan. Poi ci aspettano tra i 100 e i 130km verso Andijan, la città della rivolta contro lo zar e dei tumulti per le rivendicazioni territoriali tajike e khirghize. E dopodomani saremo già in un altra nazione, ad Osh.



Per gli appassionati di storia wikipedante, metto qui il link alla pagina di Wikipedia: merita una sguardo, davvero, questo breve lembo di terra chiuso fra i monti, dove tante civiltà si sono incontrate, scontrate e mescolate.

https://it.wikipedia.org/wiki/Valle_di_Fergana

1 commento:

  1. È ARRIVATA LA MONTAGNA
    Già intravedo la montagna
    e il paesaggio ci guadagna,
    le mie gambe non lo so
    giunta in cima vi dirò.
    Strade rotte, buche, sassi
    non son certo degli spassi,
    ma la volpe è un tipo duro
    “Ce la faccio di sicuro!”
    Pedalando col Raymond
    che ha girato tout le monde,
    ho imparato che avventura
    non fa rima con paura.
    Riassumendo la questione
    non ti serve esser campione,
    serve tanta volontà
    poi ciascuno ce la fa.

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