domenica 5 agosto 2018

38-39. JIZZAX e GULISTAN, il fortino dei briganti e la Porta di Tamerlano aperta nella roccia viva. E la melonera!

4/8/18

E così anche la maestosa Samarcanda, le sue pietre e le sue cupole azzurro, sono ormai alle spalle, uno dei molti ricordi di cui sto riempiendo le borse; non quelle che porta la Signora, quelle che porto io tra le ciglia e le costole.

Per uscire dalla città abbiamo preso la via turistica, o reale che dir si voglia. Abbiamo ripercorso la strada fino al Registan, poi il camminamento pedonale che conduce alla Bibi-Khanym e alla necropoli. Prima, inevitabile, dovuta, una foto davanti alla moschea dei viaggiatori... "Non per un dio ma nemmeno per gioco". Che viaggiare è una cosa serissima, per me. Il gioco più serio del mondo.


Dopo aver ripercorso in poche pedalate tutta la bellezza di cui ieri ci siamo riempiti i polmoni, in un soffio abbiamo espirato per rituffarci sulla strada, quella con il traffico umano e di veicoli, quella sporca e vera, che i turisti non vedono se non in una rapida sfilata dal finestrino.

Per uscire dalla città ci siamo dovuti arrampicare su qualche collina, su e giù in pieno stile montagne russe, chè Samarcanda, come tutte le antiche città degne di nota, non sta in pianura, troppo difficile da difendere. E Tamerlano lo sapeva bene.


Il caos di marshrutki (vedi foto sotto), i pullmini comuni vagamente ridicoli, che paiono usciti da un manga giapponese, e che sfrecciano all'impazzata qua e là, riprende presto. Idem il più lento passo dei carretti trainati dai muli, con sopra famiglie o bimbi soli, intenti a portare roba da un punto ad un altro. Pare monnezza, plastica e legno, ma alcuni portano fieno o frutta nei vari mercatini accrocchiati nelle piazze..





Giungiamo alla vetta dell'ultima collina di Samarcanda e la salutiamo così, vedendola dall'alto, in un caos allucinante di taxi da e per Tashkent. Anche a noi chiedono, più volte, se vogliamo un passaggio. Ma no grazie, ci andiamo in bici, son solo 300km e poco più! Che vuoi che siano su 5000 e passa che ne abbiam da fare in totale?


Una volta scesi ed usciti definitivamente dalla città, ci ritroviamo sulla M37, che poi diventa M39, ovvero la superstrada che mena alla capitale. I primi paesi sono a vocazione industriale, e qui giungono tutti i prodotti coltivati nelle fertili pianure circostanti, per essere lavorati. Nella polvere dorata del primo mattino sfumano ecomostri di sovietica memoria che trasformano il grano in farina e la farina in pane. Per il popolo uzbeko. Alè alè.


Ricomincia poi la campagna, quella vera, non quella obliterata dai graffi lunghi della città che inurba e inurba e turba e ruba la quiete dei contadini e dei pastori.




I campi però si esauriscono presto, perchè, appena riprendono le prime colline (e oggi non sono mancate, come non è mancato il vento, teso e contrario), le colture lasciano il posto a un rado bosco profumatissimo. Non riconosco gli alberi, ma esalano, scaldati al sole che non perdona, un odore buono di resina e spezie, come di pepe. Per decine di kilometri ci sono solo colline curve sotto il peso di questi tronchi e di queste foglie, che cantano al vento e ridono e raccontano storie d'uomini a cavallo e belle principesse dallo sguardo di tigre.



Non poteva mancare il camionista con le mani nere di grasso che, appena ci fermiamo un attimo all'ombra per riempire le borracce, si avvicina quatto quatto, poco alla volta, come si fa con gli animali selvatici, per poi chiederci una foto e farsene fare. Quando gli dico che io sono italiana e Raymond francese, lui capisce che Italia e Francia siano i nostri nomi e ci dice il suo. Eh, il mondo è bello perchè è vario. O avariato. E soprattutto tondo.


A tratti il bosco si apre e lascia spazio a scorci larghi, mentre all'orizzonte si intravedono le sagome dei monti Tajiki, tanto evanescenti da sembrare un miraggio, o un sogno del primo mattino. E invece sono vere, blocchi di roccia plasmati dai millenni, mani di gigante, che da millenni bloccano il passo a chi vuole entrare, o uscire.
Incrciamo di nuovo la ferrovia, dopo molti giorni a distanza, ed è sempre la Transcaspiana, già incontrata ad Ashgabat, aperta nel 1880 (sì, dai russi, nemmeno a dirlo).






Finalmente i cartelli e i monumenti di dubbio gusto e gran memoria sovietica ci dicono che la regione di Samarcanda è alle spalle, mentre si apre all'orizzonte quella di Jizzax, la città dove siamo diretti e dove faremo sosta stanotte.
C'è anche un posto di blocco della polizia, come sempre ai confini regionali; di solito non veniamo fermati, ma questa volta sì. L'agente vuole sapere da dove veniamo, e che squadra di calcio tifiamo, e se Raymond è contento della vittoria della Francia ai mondiali. E basta, i documenti non gli interessano. Meglio così.




Siamo già a quasi 70km percorsi e viene il momento di fare una pausa. Raymond, per sicurezza, compra dell'acqua in uno nei molti baracchini a bordo strada che riempino i buchi lasciati dai pur numerosi paesi. Qui in Uzbekistan la gente ha l'horror vacui per quanto riguarda i negozi di cibo e bevande. Se per qualche kilometro non ci sono attività commerciali, come è normale tra villaggio e villaggio, compaiono come funghi i baracchini. Metti che in questi metri ti viene sete. O vuoi un somsa, una pasta ripiena di pollo o verdure. Metti che ti viene fame. Come fai? Mica puoi aspettare tre minuti!


Per la prima volta in questa nazione vedo anche delle ger, o yurte, probabilmente di pastori o apicoltori. Sono simili a quelle khirghize, con il tetto alto, più che a quelle mongole che ho visto e in cui ho dormito l'anno scorso.



La strada, sempre in leggera salita, prosegue di paese in paese. In uno vendono a bordo strada solo mele. In uno solo carote grosse come zampe di tavolino. In uno solo miele. Diciamo che hanno capito bene il concetto di monocoltura, un po' meno bene quello di concorrenza e varietà dell'offerta. Però le mele sono belle, più di quelle bielorusse e russe, e sono pure ben impilate nei secchi.











Troviamo infine un posto per fermarci; è il classico ristorante a bordo strada con i divani all'ombra. Sopra ai divano c'è un tavolino, così prima mangi, poi dormi nelle ore calde, senza nemmeno doverti spostare. Mica scema l'idea. La cosa che ho capito inoltre è questa: le persone qui sono abituate a mangiare sedute a terra, con il cibo anch'esso a terra. I divani con il cibo in centro ripropongono la stessa medesima postura e l'identica disposizione di cose e persone, solo che non si è a terra con il culo e la scodella, ma un poco rialzati.


Dopo un'insalata (io) e un piattazzo di carne alla brutta (Raymond), 1.5 litri di Cocacola, una ruota di mane e due caffè, cela ronfiamo sul divanone per mezz'oretta, come si usa qui. Il tetto di foglie che mormorano al vento è per me l'architettura più sontuosa del più magnifico palazzo dello shah. E riposo nel chiaroscuro che si di linfa mentre il sole si fa meno brutale.



Quando torniamo in sella veniamo accolti di nuovo dal verde e dell'azzurro della bandiera uzbeka, che son cielo e campi, nella realtà, eterno paradiso di luce e islam nei simboli. Ogni pochi metri c'è una mucca che pascola tranquilla, in piedi o sdraiata, e ci guarda con flemma e disinteresse. Chissà a che pensano i bovini. Magari hanno scoperto la teoria della relatività unificata, il teorema del tutto o la verità su dio. Però non ne dan mostra, e pascolano lente.





 

Seguono poi alcuni paesi polverosi, con mercatini agli incroci e ristoranti in cui i camerieri tentano di buttarti dentro e rischiano di farsi investire pur di attirare l'attenzione degli automobilisti. Che caracchiano verde perchè qui si mastica tabacco e si sputano gormiti color muschio.





Apprezzo invece la crebra presenza di scuole e collegi, almeno uno, se non più, per paese. E sono sempre strutture grandi, nuove e belle, anche là dove il centro abitato è fatto di fango paglia e lamiera. Bravi uzbeki.


Cominciano infine le ultime colline, quelle un poco più consistenti. Dapprima si stringono fino a far stretta la valle, poi una strada si arrampica in cima (ma non è la nostra) e un'altra corre più in piano, seguendo le anse del piccolo rivo gonfio d'acqua fangosa.

Poco prima dei rilievi che ci separano da Jizzax assistiamo ad una follia commerciale: per circa 5km si susseguono senza soluzione di continuità baracchini quasi identici, che vendono bevande, qualcosa che sta a metà tra i funghi e le caramelle (devo indagare), miele, gelato e caffè. Ogni due metri ce n'è uno, su entrambi i lati della strada. Prima parlavo di horror vacui ma qui siamo al delirio da bibitaro, all'incubo da baracchino, al regno pazzo del roncio, dello zozzo o del lurido, come si chiamano i paninari in volpese.















Senza troppe salite e anzi in lieve discesa imbocchiamo la stretta gola in cui passa la strada. Il fondo è scassato di buche e sassi, sabbia e madonne. C'è da stare attenti, perchè il traffico è pure consistente e la carreggiata stretta. Mi scuso se le foto son tutte mosse!



Il paesaggio cambia in fretta. Si alternano colline coperte di un verde, riarso, tappeto ruvido, che pare d'essere in Mongolia, e roccioni nudi e verticali, isterici come un grido scuro levato al cielo.



















Giungiamo infine alla cosiddetta Porta di Tamerlano, il passo Jilanuti, nelle montagne del Turkistan, che controlla l'accesso alla valle di Zeravshan, Samarcanda e Bukhara e connette alla valle di Fergana. Era un luogo strategico, un importante punto di passaggio a difesa del quale sorse la città di Jizzax.










Dopo un lento scollinare giungiamo, ormai a pomeriggio fatto e a 100km pedalati, nella città dove ci vogliamo fermare, appunto, Jizzax.


Il toponimo deriva dalla parola sogdiana per "fortino" e la città attuale è costruita sul sito dell'antica città sogdiana di Usrushana.
Dopo la conquista araba di Sogdiana, Jizzax servì come città sede di mercato tra i predoni nomadi e gli agricoltori stanziali; gli arabi costruirono una serie di rabat (fortini), i quali ospitavano dei guerrieri ghazi preposti alla protezione della popolazione. I fortini vennero successivamente usati anche nel diciannovesimo secolo dall'Emirato di Bukhara contro il quale si scontrò il generale russo Chernaiev, soprannominato il “Leone di Taskent”; Chernaiev fallì la prima volta che cercò di espugnare Jizzax, ma ebbe successo al secondo tentativo, perdendo solo sei uomini, contro i 6000 caduti da parte dei difensori. Alla fine della battaglia la città vecchia venne in gran parte distrutta, gli abitanti sopravvissuti furono scacciati e al loro posto vennero insediati coloni russi.



Nel 1916, Jizzax fu il centro di una rivolta anti russa, che venne rapidamente repressa, l'anno dopo venne alla luce Sharof Rashidov, futuro segretario del partito comunista uzbeko.
Jizzax al giorno d'oggi è una tranquilla cittadina di 126.400 abitanti, nella quale è rimasto poco o nulla dell'era pre-Rashidov; ospita due università, con un totale di circa 7000 studenti ed è sede di una squadra calcistica, la Sogdiana Jizzax, che ha militato nella Oliy Liga, massima serie del campionato uzbeco.

Noi, con fede cieca in Gugolmàps, ci dirigiamo verso un dei due (unici) grandi alberghi presenti in città, il Grand Royale. La struttura è folkloristica e ben tenuta, con tanto di piscina e ristorante. Peccato che nessuno parli inglese, non ci sia nulla (menu incluso) che non sia in uzbeko o russo e, quando arrivano stranieri, la reception va in panico. Chiedono documenti, carte e scartoffie che nelle grandi città turistiche nessuno vuol vedere. Si vede che è ben raro che dalle porte di Tamerlano escano foresti che poi si fermano qui. Tashkent in fondo dista solo 200km!







Completate le formalità varie, comunque, ci spiaggiamo nelle camere e ne usciamo solo per la cena. Ci portano un menu enorme di cui però han solo 3 piatti: insalata greca, cotoletta di pollo e zuppa di ravioli uzbeki. Indovinate che s'è magnato? Insalata greca, zuppa di ravioli e cotoletta. Esatto. Il caffè non ce l'hanno (!) ma il tè a litri. Indovinate che s'è bevuto. Tè, esatto.

Domani si riparte. Si va a Gulistan, tappa intermedia tra qui e la capitale. Ormai ci siamo quasi. Lì ci fermeremo un giorno, prima degli ultimi 4 che ci conduranno a oriente, al confine Kirghizo, attraverso la valle di Fergana e fino ad Osh.

5/8/17

Ci si muove con calma nella cittadona post-sovietica di Jizzax; dopo una colazione simil russa, con blini (crepes) e smetana, cetrioli e caramelle (di cui ci riempiamo le tasche e le borse senza alcuna traccia di dignità), lasciamo il Grand royale e la sua piscina. Un inserviente dorme sulla sdraio all'ombra: oggi è domenica. E qui, anche se la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana, il giorno festivo è quello russo, da.



Prima di lasciare la periferia compriamo pane e del formaggio a sfilaccetti che vedrete dopo in foto, praticamente stringhe di caciocavallo con retrogusto di merluzzo; il giovane dietro al bancone, appena Raymond si defila per alloggiare le bottiglie d'acqua, mi chiede il numero di telefono, così, senza farsi problemi. Hey bello, ho appena finito di bloccare su whatsapp tutti gli iraniani che mi molestano con telefonate e messaggi (puliti e non aggressivi, ma anche no). Hey bello, vuoi essere il primo bloccato fra gli uzbeki?


Per qualche kilometro percorriamo una strada che diremmo, in Italia, provinciale, da cui si può saltare nuovamente sulla nostra bella superstrada M39 che fa diretta a Tashkent. All'incrocio tra le due arterie, tra nulla e altro nulla, un casino pazzesco di auto, furgoni, taxi e gente che attraversa lo sradone scavalcando i guard rail: c'è il bazaar ortofrutticolo. Ecco cos'è.



Poco dopo, in un attimo, torna la calma. La M39 è una lunghissima cictrice che taglia a metà le steppe qui trasformate in campi e pascoli grazie all'opera mastodontica, per quanto ancora arretrata, di canalizzazione. Ci sono alcuni fiumi e molti bacini artificiali, da cui si dipartono canali a terra e condutture che portano l'acqua nella terra arida e la fanno fiorire. Siamo in piena area rurale, ed il silenzio, quando non passano auto, è interrotto solo dal canto degli uccelli e dai finissimi sistri d'argento delle cavallette; che poi saltano e ti s'appendono ai calzini e alle gambe con i loro artiglietti pelosi. Per non dire dell'ape che mi è entrata nella maglia e mi ha punta 3 volte prima di schiattare. Ah, la natura!







L'unica forma di civiltà organizzata su questa strada, dove i paesi ci sono ma più radi di prima, è quella della melonera. I poponari sono i boss del blocco, qui. Si raccolgono in cosche e clan fimiliari ad ogni crocicchio, con meloni e angurie oblunghe sistemate in bell'ordine come una piramide di Giza. A volte i monticchi son coperti, come se stessero dormendo. A volte invece i fruttoni vengono lanciati a splaffo nelle frequenti pozze d'acqua, per svegliarli o rinfrescarli. E in tanti, tantissimi, si fermano a comprare, tanto da creare zone di fitto traffico anche nel mezzo del nulla.







Tra un punto-melone e l'altro la calma grande della steppa verde, dove oggi ho anche visto due cicogne e moltissimi nidi, nonchè una bestiola a metà tra il gerbillo e la marmotta, come un suricate grasso, non da deserto ma da piana fertile.





Quasi all'ora di pranzo veniamo fermati da questo baldo uzbeko di Samarcanda; ha fermato la sua auto, carica e da cui sbuca una ruota di bicicletta, in una piazzola a bordo strada. Ci fa segno di fermarci e ci caccia in mano mezzo pane al papavero che ha un peso specifico maggiore del piombo, e una bottiglia di cocacola con dentro un liquido rossastro. Faccio bere Raymond, poi, visto che non muore, bevo io. E' succo d'anguria! Buonissimo! Praticamente è mezzo popone schiacciato e versato in bottiglia. Genio. Nobel subito all'uzbeko.



Il ragazzo gentile ci dice che anche lui è un cicloturista, e sta andando a fare la Pamir highway in bici, con un amico che resta in auto. Ci parla anche dell'incidente/ attacco di qualche giorno fa, che ha visto 4 ciclisti di diverse nazionalità morire investiti da un'auto. Lui comunque va. Saluta strombazzando, mentre noi finiamo di bere e di prendere la mononucleosi.

Ripartiamo anche noi e, dopo ancora molto verde, molto azzurro e molto caldo (nell'ora panica da panico si sfiorano i 40 ancora), giungiamo all'incrocio per Gulistan, nostra meta di oggi. Intuiamo che ormai i più prendono questa strada per raggiungere la capitale: la superstrada in sè, qui avanti 5km, entra in Kazakistan e ci rimane per una ventina di km, prima di ributtarsi in territorio uzbeko. Non sappiamo se ci siano frontiere vere e proprie e controlli, ma preferiamo non rischiare. Con un solo ingresso, già usato, rischiamo di restar tagliati fuori. Come noi, la gran parte degli automobilisti e dei camionisti svolta sulla secondaria e gira intorno a questa punta kazaka che si incunea tra le pianure dell'Uzbekistan. E' pazzesco ma qui e più avanti questa nazione è strozzata tra kazakistan e Tajikistan al punto da avere strade che corrono lungo i confini, che se ti fermi a far pipì rischi di avere una chiappa in un'altra nazione.





Passato un paesino che pare d'essere in Russia, e forse ancora lo si è in qualche misura, decidiamo di fermarci all'ombra per il pranzo. Optiamo per un boschetto in cui pascolano tranquille alcune mucche. Siamo già a 80km alle spalle e 36 davanti.








In questa foto si vede un esemplare di Puill Raymond Francois in abito da pranzo, intento a fotografare, con gli occhialetti da intellettuale, il fuoco che si è appena acceso con la legna che ha raccattato in strada nei kilometri precedenti. Si fa il tè e poi il caffè, scaldando l'ambiente già, diciamo, tiepido, con un bel falò di sant'Antoni e affumicando me e le vacche. Inutile dire che s'era avuta una piccola discussione perchè a mio avviso i millemila bar e ristoranti qui intorno sono una più rapida soluzione. Ma no, figuriamoci. E fuoco sia.


Questo è il caciocavallo a stringhe che dicevo. E' buono anche se parecchio asciutto, e con retrogusto di merluzzetto. Spero non sia perchè il giovanotto che ce lo ha tagliato si era appeno ravanato.Bon appetit!


Dopo pane e formaggio, mentre il sole feroce azzanna, ci concediamo una siesta nel prato. Scopro fra l'altro che le mucche adorano il pane al papavero, tanto che una è pronta a seguirmi anche quando rimontiamo in sella.



Prima di ripartire ci fa visita un ragazzino che ci fissa per un quarto d'ora sorridendo felice, e senza parlare. Poi, quando noi ce ne andiamo, se ne va pure lui. E' come in Iran, ma con più gentilezza: la gente è curiosa e vuole vederci e sapere chi siamo e da dove veniamo. Ma qui sono meno sfacciati, meno invadenti. E' bello l'Uzbekistan, ci vive gente a modino.



Appena tornati in strada ricominciano le melonaie, e il casino di mangiatori di meloni, venditori di meloni e compratori di meloni. Qui il melone è sempre di moda e non cala mai la domanda. E' uno dei businness più floridi. Poi son steppe e campi ancora, fino a una striscia di paesini con un prato fuori casa, tra uscio e strada, talmente spesso e ruvido che pare finto.







Quest piccoli villaggi sono costituiti da un'unica fila, spesso interrotta, di case, con un ampio prato davanti; e ognuna ha un diverso animale al pascolo. Chi la mucca chi l'asino, chi la pecora chi la capra. Chi la moglie e i figli. Chi il cavallo, che è il più prezioso comunque.






Siccome lungo la strada dopopranzo ho avuto problemi non piccoli di reflusso, che mi hanno portata ad essere del tutto disidratata e priva di energie, ci fermiamo in un locale a pochi km dall'arrivo. Qui bevo tutta l'acqua dell'Uzbekistan e apprezzo l'impegno e la concentrazione con cui i 4 anziani sul divanone alle nostre spalle giocano a scacchi. Stanno in perfetto silenzio e studiano i pezzi bianchi e blu, con la fronte corrucciata sotto al berretto. Poi sorridono e fanno la loro mossa. Questa è la domenica pomeriggio, da queste parti.



Finalmente riesco a fotografare da vicino uno dei moltissimo cartonati di poliziotto che costellano le strade di questa nazione. Ora, dico io, per pigliar per vero questo aggeggio devi essere proprio pieno pieno pieno di vodka, eh!


Dopo le ultime cascine e le ultime mucche, arriviamo finalmente a Gulistan, città che si trova esattamente a metà strada tra Jizzax e Tashkent.




Questa città che fa quasi 70.000 abitanti, e che prima si chiamava Mirzachul (fino al 1961), è il capoluogo di questa regione, dove la principale risorsa è il cotone. Ed io che credevo di essere sulla via della seta!

Di notevole ci sono: la ferrovia, che rende impossibile accedere al paese se non in un paio di scomodissimi punti; una grande moschea che pare in restauro, ed è la prima così grande e non antica che vediamo in Uzbekistan.




Poi ci sono grandi hotel molto nuovi e molto lussuosi, fin troppo, e decisamente troppo costosi.




Hotel più piccoli e sgarrupati, ma ad un prezzo approvato da Raymond, ovvero 10 euro a cucuzza, colazione inclusa e bagno in camera. Un affare. Nel muovere ai lavacri trovo non bagnoschiuma ma un'insalata: sapone al cetriolo e shampoo all'aglio. Sorrido largo quando da casa mi dicono che l'aglio fa bene alla circolazione, non del sangue ma stradale, nel senso che passo io e tutti si levano di culo. In effetti, ma a chi mai può esser venuto in mente? Per fortuna la confezione è difettosa e non si apre. Il sapone invece sa forte di cucumber ed ora io pure.





Intorno all'hotel ci sono una miriade di altri alberghi, grandi e piccoli, lussiosi e cheap; per non parlare dei ristoranti, alcuni enormi, tutti luci e musica, altri più contenuti. C'è molta gente in strada e in giro e fuori a cena, forse perchè è domenica. Anche un via vai di auto e signorine tirate a lucido anima la via. Il paese gode sicuramente della sua posizione sulla strada per Tashkent. E forse anche di altri commerci, oltre a quello del cotone.

Noi chiediamo di poter cenare in hotel ma il ristorante è chiuso; il proprietario ci porta allora nella struttura lì accanto, che pare una di quelle attrazioni di Gardaland tipo la nave dei pirati o la piramide della mummia assassina. Questa pare l'attacco del plov mannaro nelle bianche torri di Samarcanda, ma un po' peggio.
E' la ricostruzione di una fortezza o di un caravanserraglio, tutta bella in plastica.
Ci sono tavoli all'esterno, ma la quantità di zanzare (da cui sono stata già massacrata orribilmente nei giorni scorsi) induce i camerieri a farci cenare dentro.
Dentro significa in una saletta privata tappata senza finestre, con aria condizionata e forte puzzo di piedi, chè per salire sul divanone ci si levan le scarpe. Poi il cliente se ne va il lezzo di gorgonzola resta.





Raymond, in attesa dei piatti, giace come corpo morto e mi chiede di essere svegliato quando la cena è servita. Tra l'altro ordiniamo un po' a buffo: come sempre nessuno parla inglese e il menu enorme si riduce a una piccola quantità di piatti effettivamente presenti. Se non altro qui le cameriere sono vestite in shirts giroculo (e il bretone commenta subito, contento, che non siamo più in Iran), sorridono e per dirti cosa sia meglio indicano le foto sul menu e masticando rumorosamente la cicca tirano su il pollicione.


Alla fine, oltre a un'insalatina, ci portano due piattoni enormi di carne e verdure tipo peperonata dolce con peperoncino giusto al fondo. Credo si chiami go'sht, o almeno così è pubblicizzato a bordo strada nei numerosissimi locali in cui viene proposto. Va via come il pane e con il pane non al papavero.


Dunque ora è tempo di riposare. Domani si arriva a Tashkent, e non mi par vero. Siamo già alla penultima capitale di questo viaggio. Tehran, Ashgabat, ora qui. Poi muoveremo, piano piano e tra i monti altissimi e deserti d'uomini ma verdi oltremodo, del Kirghizistan. Sono già curiosa. Di tutto. Chissà cosa ci aspetta e cosa ha da offrirci la strada, così dura e muta, così piena di occhi e di passi.

1 commento:

  1. C’È UNA VOLPE...
    C’è una volpe nel deserto
    che si aggira quatta quatta
    seminando lo sconcerto
    tra chi dice:”Questa è matta!”
    Ma che matta, che sta a dî?
    Non mi manca un venerdi!
    Giro il mondo avanti e indietro
    son partita da San Pietro.
    Nella Persia col francese
    ci son stata quasi un mese,
    ora sto in Uzbekistan
    papà e mamma già lo san.
    Torneremo tra un bel po’,
    quanti giorni? Non lo so,
    qui c’è un mondo che mi aspetta,
    da scoprire in bicicletta!


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