sabato 25 agosto 2018

56-57. KOCHKOR. Il senso del brutto. Ma finalmente "addio monti"! Tosata dal parrucchiere kirghizo



22/8/18

Il risveglio è lento e faticoso; sono stanca, molto, quasi troppo. Lo capisco dal fatto che compio ogni gesto con lentezza infinita e faccio tutto ciò che posso da seduta. E dire che di solito non mi pesa il culo... Ma il mio corpo tenta di risparmiare anche sul piccolo, in termini di fatica, perchè ogni gesto ed ogni movimento sono energia che va persa e non ne ho molta da spendere. Devo impegnare tutta quella rimasta, mentale e fisica, per portare me e la Signora fuori di qua, da queste gole di roccia, da queste fauci di pietra che han tentato di mangiarci vivi.




Seguiamo per circa 20km il vallone imboccato ieri, che segue il corso del fiume Tolok; fa fresco perchè siamo ancora a circa 2300 metri di altezza, benchè la strada tenda a scendere più che a salire, e dunque ci porta in lande meno rigide sotto ogni punto di vista. La strada non è particolarmente malmessa e si pedala senza troppa paura di cadere; salite e discese sono dolci, come il paesaggio intorno che si fa più umano.








Dopo molti prati e qualche cascina, giungiamo a ciò che già da gran distanza abbiamo riconosciuto come un paese vero e proprio. Roba da non crederci. Il piccolo agglomerato si chiama Keng-Suu e dispone di una moscheina piccola piccola, qualche casa e numerosi negozietti. Sono talmente piccoli e sforniti che per comprare tre cose di cui abbiam bisogno per tirar sera li giriamo tutti, TUTTI. anche perchè ho visto una ragazzina per strada con un cono gelato in mano e mi è presa una smania ardente di Cornetto Algida. Ahimè giro invano cinque bugigattoli, e mi resta come mistero doloroso dove mai la bimba abbia acquistato il gelato.










Noto una cosa che mi cattura lo sguardo: un monumento. Piccolo, ma ben tenuto. Guardo meglio. Porta le date 1941-1945. E 15 nomi e cognomi. Una stella rossa, su pietra nera. Lo scorso anno in Russia ho trovato monumenti ai caudit della Seconda Guerra in ogni citt ed ogni paese. Dalla più grande metropoli al più misero villaggio rurale, tutti han pagato con uno, cento, o diecimila morti. Lo scontrino di sangue si allunga e si allunga e arriva fin qui. 15 morti in un paese che, all'epoca, avrà fatto 30 abitanti. Tutti gli uomini in età d'armi, insomma. Monumenti alla vittoria li chiamano. Bel vincere, per tutta questa carne da cannone che Stalin, con la sua gestione delle risorse umane, mandava al fronte nei treni blindati perchè nessuno scappasse a casa. E però da noi oggi non sventola la bandiera con la svastica, e qualcuno va pure ringraziato per questo.



Mentre rifletto su queste questioncine, ci troviamo tutt'un tratto in canyon arido e polveroso. Eccoci, ci siamo. Gli ultimi tornanti, l'ultima salita da affrontare. Poi siamo fuori davvero.








Peercorro i tornanti con addosso una fatica cosmica. In più i miei polmoni si rifiutano di collaborare e la mia tosse canina, anzi, volpina, fa tremare l'intera valle. La polvere che si alza quando passano le auto mi impedisce del tutto respiro e devo fermarmi spesso, come gli anziani quando camminano. Ma piano piano, piano, pianissimo, arrivo in cima. 2500 metri d'altezza. E inizia la discesa.




Dopo poco, inatteso, meraviglioso, commovente, lui: l'asfalto. Oh. Mio. Dio. Non riesco a crederci. La strada di merda si getta così, senza preavviso, nella grande e nuova statalona che porta a Bishkek. Ed è asfaltata. In discesa. Liscia, bella, perfetta. Da rotolarci sopra come una biglia felice. Come un capriolo che fa le capriole nel prato. L'asfalto! Mon amour. Fotografo il momento per assaporarlo meglio anche dopo. Sono 9 giorni che il mio cervello viene sballottato nella scatola cranica per 10 ore quotidiane sui sassi. 9 giorni che ad ogni colpo di pedale temo di cadere e fracassarmi un osso, magari quelli bullonati, così da poter poi scegliere con comodo quale uncino mettere al posto della mano distrutta. Sono 9 giorno che faccio una fatica della madonna per tenere in piedi la Signora e ogni mia fibra è sottoposta a sforzo immane e vibrazioni. E ora così, l'asfalto. Senza squilli di trombe degli angeli del signore iddio che ha inventato il bitume. Senza tappeto rosso. Come fosse normale. Ah! L'asfalto!



Imbocchiamo dunque lo stradone, su cui comunque il traffico è quasi inesistente, e ci lanciamo giù per la valle.Come si pedala bene! Sembra di volare! Finalmente torno a godermi lo stare in sella, cosa che era venuta a mancare nei giorni scorsi. E quando manca rende tutto inutile: a che pro faticare se non c'è nemmeno un piccolo ritorno edonistico? Ora invece no, è di nuovo bello. La bicicletta è una gran cosa. La mia Signora è un gran mezzo.

I primi segni di civiltà in cui incappiamo sono piccoli ma importanti: una piazzola di sosta, dei bar, ristoranti e altri baracchini luridi. Roba da non crederci. Non serve più portarsi appresso litri e litri d'acqua, litri e litri di lacrime, e cibo per giorni che poi fa la muffa e va grattata via. Ci sono i negozi, ci sono le cose per strada da comprare! Ah, civiltà!





Decidiamo di fare una sosta prandiale in un bel prato accanto al fiume Karakhuzur, di cui seguiremo il corso praticamente fino alla prossima valle, perpendicolare a questa, dove si trova la nostra meta. La città di destinazione, un ostello, una doccia, un pasto in grazia. Kochkor. Anche se siamo sempre sopra i 2000 metri, la temperatura si alza in fretta: il sole scalda e si sta bene. Mi rimetto il completo da ciclista estivo, il corto, e metto via l'invernale (ma non troppo in fondo alle borse perchè mannaggia al Kirghizistan, non mi fido).



Quando ripartiamo si è alzato un vento cattivo e contrario che rende un poco difficile pedalare. Mai che una una cosa sia semplice in tutto, mai. Comunque siamo sempre in tendenziale discesa e sempre su asfalto levigato come il marmo di una statua del Canova. E quindi si rotola giù, Eolo nonostante.




In breve ci lasciamo alle spalle i 35km di discesa e raggiungiamo la grande valle del fiume Chu. Qui ci sono le città. Qui si torna al congresso umano. Dopo il deserto, dopo le vette innevate. Saremo ancora capaci di stare nello spazio stretto di quattro mura?
Sì, madonna santissima. Specialmente se quelle di un buon ostello con il letto morbido e la coperta e una doccia non troppo distante. Paesaggi antropizzati, fate largo che sto arrivando.

La valle invero è piuttosto strettina e chiusa da entrambi lati dalle vette (alcuni 5000) di queste dita del Tien Shan. Io, ormai in sicurezza, protetta da una striscia di campi coltivati a spighe che danzano al vento, ed è un saluto, e sembra un po' casa, saluto i monti da cui sono uscita a fatica, come un parto da un corpo di roccia. Addio monti. Ciao. Anzi ciaone proprio!



Dunque entriamo così in Kochkor, di cui parleremo bene poi. Basti sapere che è la città più grande della valle, ma non arriva a 10.000 abitanti. Sta a 1800 metri. Prima (indovinate quando) si chiamava Stolypin. Ha dato i natali a tal Usubalijev, big del partito comunista kirghizo tra '61 e '85, gli anni d'oro proprio.

Ci sono tanti negozi e farmacie, per uomini e animali, perchè questa città serve tutti i paesini della vastissima area circostante, che è tutta montuosa. Qui ci son strade asfaltate, di cui una diretta alla capitale, e si accede tutto l'anno, quindi arrivano continui rifornimenti. Dalle valli vicine e dai monti scendono i pastori a far scorta di tutto ciò che han bisogno.
La città è anche diventata un punto di riferimento per il turismo kirghiso, infatti ha numerosi ostelli, agenzie che organizzano tour, banche internazionali e persino un ristorante con il menu in inglese. Questo perchè Kochkor, oltre alle buone infrastrutture per la viabilità, ha la fortuna di star vicina alle più gettonate mete turistiche: i laghi Issyk Kol e Song Kol, nonchè il passo Torugart, che porta in Cina. 


Stiamo sulla strada principale, asse centrale intorno a cui si sviluppa la cittadina, e ci buttiamo nella prima gostinitsa che vediamo. E' molto in stile russo, con i mattoni rossi e la forma a castello del conte Dracula.Che chissà perchè, ma amen. Visto il prezzaccio (10 sbleuri a capoccia) decidiamo di fermarci direttamente qui due notti, così da riposarci e fare il punto della situazione. Io devo guarire un po'. E farmi una doccia. Ma prima mi butto sul letto ed entro in coma per mezz'oretta.


Finalmente ci siamo lavati (avevo il moccio secco e impastato alla polvere tra naso e labbra, chissà da quanto, come i bimbi africani dei documentari; ho tolto i calzini dopo 5 giorni consecutivi, 120 ore. Del resto mi taccio, per pudore) e cambiati. E siamo andati a cena al ristorante con il menu in inglese, pieno di turisti e kitsch il giusto. Io ho mangiato due kili di plov, che è diverso da quello uzbeko ma buonone uguale. Poi, come sempre da un mese a questa parte, ho passato le successive dieci ore sul cesso. Ma ormai è noto: se mangio cose cucinate, va così. Con i nostri noodlini saikebon mica succede.







23/8/18

Giorno di riposo. Che meraviglia! Posso essere malata in santa pace, nel lettino, con il tè caldo sul tavolo accanto. Passo le prime ore della giornata a scrivere, chè il blog, dopo i giorni sui monti senza connessione, neanche cerebrale, piange. Poi prendo il coraggio a due mani e mi decido: vado dal parrucchiere. Ne ho visti una valanga appena fuori dall'ostello, tutti dentro ai container, che pare qui la soluzione architettonica più in voga. Prima di partire, esattamente due mesi fa, mi son fatta rasare la testa come un monaco buddhista. Ero in piedi nella vasca da bagno, pronta a partire, e circondata da tutto l'amore e la cura del mondo. Ora sono fatta di roccia e vento, bado a me stessa e non c'è cura, non c'è garbo, non c'è dolcezza da due mesi. Torneranno, quando tornerò. Ma i capelli devo sistemarli ora perchè sembro Anacleto, il gufo di Mago Merlino.

Entro nel primo container-parrucchiere. E' minuscolo ma c'è tutto. Spero non mi tosino come una pecora, che qui si sa mai. Invece la signora, con macchinetta lurida e mani esperte fa un bel lavorino. Spero solo di non aver preso i pidocchi (ovviamente non c'è acqua corrente dentro al container quindi non si lava nulla). In dieci minuti ho finito e spendo per due euro.






l'ostello

una volpe a pelo corto

Viene dunque il momento di uscire a far shopping nelle vie del centro. Che in effetti sono assai animate e non mancano di negozi di ogni genere. C'è un bel casino in giro, insomma. Non vedo cos tante persone tutte insieme da più di una settimana. Andiamo verso la zona del bazaar.



In un supermercato trovo questa perla. La Ramella.Che son tre dita d'olio per motore per mezzi agricoli e tre dita di vaselina. Scaduta naturalmònt. Qui non riordinano gli scaffali dai tempi di Brezhnev.


La cassiera è una nonna orgogliosa e si tiene i nipotini direttamente sul nastro. Inutile dire che metà dei pacchetti di caramelle e chewing-gum sono aperti e ciancicati ma in vendita comunque.




Mi stupisce la gran presenza, nei baracchini e nei negozi, di prodotti che associo al mare. Salvagenti, ombrelloni, materassini, ciambellone... Ma se vengo giù dai 3000 e son tutte montagne, di che stiamo parlando? Stiamo parlando del lago Issyk Kul, il più grande del paese, che ha spiagge e hotel. La villeggiatura kirghiza, che bella vita.




Dall'altro lato della strada si vendono vestiti e cose varie usate e marcescenti. E latticini, e kymiss, il latte fermentato di giumenta, che viene tenuto in botti di legno muffe assai, giusto sotto ad un ombrellone, sulla strada. I venditori rimestano il liquido denso con un mestolone di legno, e il prodotto di arricchisce delle proteine degli insetti che ci muoiono dentro. Ce lo si porta a casa nelle bottiglie di plastica vuote, per aggiungere quel tocco di lercio in più.








Dopo aver riposato ancora un poco in albergo, facciamo una passeggiata verso l'altro lato della città, più tranquilla e residenziale, lontano dal bazaar. Intorno, i monti alti già coprono la luce del sole che scende verso l'orizzonte.


Sono rimaste tracce sovieticissime, tra cui edifici, stelle rosse e falce&martello ai pali della luce.





Tuttavia le belle casette in stile izba sono poche; più frequenti sono i container riadattati ad abitazione o negozio.






mucca in cortile sotto ai panni stesi

Siamo infine giunti a ciò che volevamo vedere: le due moschee intraviste ieri dalla strada, quando cercavamo un hotel.
Proprio qui, davanti a questa immagine


ho colto finalmente l'estremo, terribile, senso del brutto che, così brutto, ho visto solo in Kirghizistan. Di degrado post sovietico me ne intendo, eh. La Bielorussia non scherza, e certi villaggi della Federazione sono un dolore per gli occhi, di fango, cemento e incuria. Ma qui in Kirghizistan si batte ogni record. Le città, i palazzi, le strade, la conformazione delle cose, la disposizione degli edifici: tutto è regolato dal senso del brutto. Non c'è una logica, nè pratica nè estetica. E' la natura umana che qui tende a costruire e collocare ogni cosa nel modo più brutto e degradato possibile; un'inclinazione della materia alla forma. Brutta. Si potrebbe evitare? Sì. Perchè non è questione di denaro o di tempo. Solo di attenzione. Di cura. E invece no. Il senso del brutto prevale. E poi davvero le cose son brutte a vedersi.



Questo credo fosse un teatro o un cinema, sa di sovietico. Ora è in rovina. Mi immagino gli ufficiali russi, ai tempi, quando venivano spediti in queste lande: "Oh no! Ancora tra i pastori, nel buco del culo del mondo! Cia' proviamo a costruirgli un teatro, magari si ingentiliscono". E invece è usato come pisciatoio e ci han fatto nido i piccioni.


Il parco cittadino, che ospita, appunto, il fu teatro, le due moschee e l'attuale blocco di cemento che penso sia la sede amministrativa della città, ha un monumento ai caduti tra '41 e '45. Anche qui. L'ombra di sangue si allarga come una pozza in cui, goccia a goccia, cadono i nomi.
La sterpaglia ovunque si mangia pure il ricordo.







fermata del bus


case-container

Si finisce in gloria la giornata con un piatto di lagman, gli spaghetti kirghizi.


Abbiamo anche rifatto i conti dei kilometri e dei giorni: siamo in anticipo di 48 ore. Dunque allunghiamo il percorso, ora che sarà tutto asfalto e senza grosse salite nè incongite. Domani andiamo a Balichky, prima città sul grande lago Issyk Kul. Poi, al posto di tirar dritti a Bishkek, ci spingiamo verso Chalponata, la città più importante sulla sponda settentrionale del lago, ex stazione balneare sovietica riservata ai dirigenti del partitoe nota per i sanatori. Oggi è mezza in rovina ma resta la spettacolare vista sulle montagne che chiudono il lago da ogni lato. Poi torneremo indietro per la medesima strada, chè ce ne è una sola lungolago. E andremo alla capitale. Con questi 80+80 kilometri in più riusciamo a vedere bene anche l'Issyk Kul e a non ammazzarci, per arrivare a Bishkek il 28 agosto, come previsto.

2 commenti:

  1. LA VOLPE ED IL FRANCESE
    Sui monti dei i kirghizi
    galoppan due cavalli
    non hanno quattro zampe
    ma un corpo di metalli!
    Non dirmi che hai abboccato
    a questo indovinello?
    Ma dai, c’avrei giurato,
    sei proprio un bel pischello!
    Si chiamano Raimondo
    e Volpe da San Pietro
    han già girato il mondo
    facendo avanti e indietro.
    Non brucano l’erbetta
    ma il latte condensato,
    lo mangian senza fretta
    e il pasto è assicurato.
    Incontri occasionali
    con gente d’ogni dove,
    paesaggi mai banali
    di un mondo che commuove.
    E dopo queste imprese,
    finito questo viaggio
    la volpe ed il francese
    sciolgono l’equipaggio.
    La volpe torna a scuola,
    “Mi aspettano gli allievi…”
    ma già il pensiero vola
    a quello che vedevi.
    Ritrova i genitori,
    l’abbraccio degli amici,
    i tanti ammiratori
    che adorano la bici.
    Insomma è stato bello
    vivere l’avventura,
    è come un carosello,
    un’esperienza pura.








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