20/8/18
Quella di oggi è stata senza dubbio la giornata più pesante e difficile di tutte. Difficile fisicamente, perchè in 58km totali siamo saliti da 1500 metri sulle sponde del fiume Naryn ai 3346 metri del passo Moldo Ashuu, accesso meridionale al lago SonKol. Psicologicamente, perchè la strada orrenda e il poco ossigeno, sommato alla tosse e al raffreddore, nonchè una contrattura terribile al polpaccio sinistro, mi han reso la scalata una via crucis. Ma ci sono anche le cose belle, le soddisfazioni ed i momenti di grazia, lontani e vicini; altrimenti che staremmo qui a fa'?
Il risveglio, ad esempio, è stato gran bello. A parte lo scatarrio che dura per me circa un'ora, aperta la tenda il Tien Shan mi si è mostrato nella sua placida grandezza. L'aria frizzante e la colazione han contribuito a svegliarmi in fretta, anche se la mia faccia non nasconde i segni della fatica e della zozzura che ormai mi porto addosso da due giorni pieni nel fango e nella polvere che si appiccica al sudore. Pensate un attimo a cosa succede ai capelli. Ecco.
I rifiuti che si trovano più spesso abbandonati in giro sono carcasse semidecomposte di animali e bottiglie di vodka, cosa ce la dice lunga sul regime alimentare dei kirghisi.
Partiamo lasciandoci alle spalle il paesino di Ak-Kya. A parte qualche saliscendi, i primi 20km sono quasi tutti in piano, accanto al fiume, sotto ad un cielo d'azzurro steso. Peccato che il fondo sia orribile di sassini che sballottano il cervello nella scatola cranica e costringono il corpo ad uno sforzo continuo ed estenuante per tenere in piedi la Signora ed il suo culo pesante.
Zone aride si alternano a paludi e stagni dove il verde copre ogni cosa ed è erba grassa e son radici profonde a terra. C'è una calma ancestrale.
Dopo alcune collinette giungiamo infine a dove la strada vira decisa verso nord, lasciando la valle che stavamo percorrendo verso oriente. Qui comincerà la salita, ma ancora qualche kilometro in là. Incrociamo il villaggio di Jangy-Talap, ultimo segno umano, fuor che la strada, prima dell'ascesa. Ci accolgono le tombe di chi ha abitato questi luoghi quando il silenzio era ancora più grande ed il cielo più vicino
Poi raggiungiamo l'unico negozio, che è lì proprio per i turisti che intendono salire al Sonkol; i commessi parlano inglese e capiamo persino che da qui partono tour organizzati per il lago, a piedi, in auto, in moto o a cavallo. In bici, no. Compriamo del pane appena tirato fuori dal forno e ci beviamo l'ultima bevanda in bottiglia. Sembra un addio e in qualche modo lo è. Raymond si cala pure un somsa di manzo e cipolle.
Cominciamo così a rientrare nella valle, che è un canyon sempre più stretto, del fiume Kurtka, affluente del Naryn. La strada che stiamo percorrendo è considerata una delle più difficili e pericolose al mondo, perchè ripida e franata, e chiusa da settembre a marzo per ghiaccio e neve. In valle, tuttavia, pare il luogo più dolce
Passate alcune tombe decidiamo di fermarci all'ombra, su una delle molte anse del Kurtka; tutto questo è un parco naturale con specie protette, tra cui il lupo e l'oca indiana (quelle con le piume in testa?). Mangiamo il pane fatto in casa, che è una sorta di buonissima focaccia, e ci godiamo il riposo. L'insidia è poco oltre, nascosta dalle pendici rocciose dei primi monti alti. Lo sappiamo e tardiamo a partire. Procrastiniamo.
Viene però comunque il momento di rimettersi in sella. La valle si fa più stretta ed il nodo inizia a stringersi intorno alla gola.
i monti si fanno più alti, segno di ciò che verrà. Sentiamo che sta per iniziare, galoppa lontana ma le vibrazioni arrivano fino a qui; la salita a precipizio ci attende in fondo
ed eccola, infatti, che comincia bruscamente dopo alcuni prati dove pascolano placide mucche; all'inizio non ci sono tornanti ma rampe; le prime, pedalabili. Poi sempre più ripide e di sassi che franano sotto alle ruote. I pini dritti ci giudicano. Io, nell'aria già molto più fredda, faccio ampi tratti a piedi.
Dopo questa prima fatica che già ci ha tagliato le gambe, la strada ci concede un poco di tregua e spiana per qualche centinaio di metri. Quanto basta per permetterci di osservare, in tutta la sua potente e terribile meraviglia, la montagna intagliata di tornanti, il fianco di roccia scavato dalla linea sottile della strada che sale come un serpente mortale. Guardiamo su. Non si vede la fine di questi gironi infernali al contrario (Purgatorio? Forse).
Inizia così l'agonia. Non ho molte tracce fotografiche. Ero troppo impegnata a respirare quel poco di ossigeno che i miei polmoni malati riuscivano a catturare; ero troppo presa a non cadere sui sassi, nel fango, sulla sabbia. Il sole si è pian piano abbassato. E' durata molto, molto a lungo.
Dopo diversi momenti di crollo psicologico, siamo finalmente giunti alla fine della prima grossa muraglia di roccia, ed ecco la strada vista dalla montagna accanto. Non è una via. E' una follia. Una mente malata soltanto può partorire questa cosa. Ed una mente ancor più malata può decidere di arrampicarcisi sopra con una bicicletta che pesa 40kg ed in una condizione fisica a dir poco fragile.
La fatica però non è ancora finita. Ci sono ancora 5km da arrampicare, con tornanti più larghi e meno in apnea, ma pur sempre da fare. E qui l'ariamanca davvero, e fa freddo. La notte si avvicina. Raymond vuole mettere la tenda sotto al passo ed evitare il rischio di pedalare su quelle strade di merda con il buio. Ha ragione, ma io non sopporto l'idea di svegliarmi e ancora non aver finito quella salita. Ormai è una questione di principio, è una sfida tra me e la montagna. O al passo o nulla. Insisto e tiriamo avanti.
L'ultimo kilometro lo faccio più a piedi che in sella. Sono distrutta. Ma lo vedo lì il passo maledetto. Lo vedo, è vicino ormai, basta allungare un poco la mano, un poco, un poco ancora... Ed eccoci. Ecco il cartello e la strada che spiana. 3346 metri. Moldo Ashuu, ti ho preso. La conquista dell'inutile, eccola qui. Ce l'abbiamo fatta.
Prima di cambiarmi (cosa da fare assai in fretta perchè sono sudata e quassù ci son pochi gradi sopra lo zero ed un vento gelido) e prima di metter la tenda devo fare una cosa. Mi schiarisco la voce. Scaldo l'ugola. Prendo fiato. E urlo un VAFFANCULOOOOOOOO che si perde in quota e scende in valle e giunge fino a Bishkek. Era cosa dovuta. Davanti si para la strada, in discesa, che faremo domani. A meno di 10km c'è il Sonkol, finalmente.
Montiamo la tenda, cala il buio e con la notte il freddo. Si ghiaccia davvero e ceniamo nella tenda, scaldandoci con il fornello e il brodo e il tè caldo. C'è persino un poco di connessione internet qui su. Poi ci infiliamo nei sacchi a pelo ed ascoltiamo il vento che ulula tra gli speroni di roccia, mentre la luna, distante, sempre illumina anche il nero più cupo.
21/8/18
Ci alziamo tardi, intirizziti; persino uscire dalla tenda a fare pipì è un dolore. Ci consoliamo con un'abbondante colazione con il pane fatto in casa e la Nutella (quella vera, Ferrero). Poi aspettiamo che il sole scaldi un poco l'aria, perchè fa veramente troppo, troppo freddo.
Dal passo godiamo però di una vista meravigliosa; da un lato si spalanca la valle percorsa ieri, e si vede lontano fino al fiume Naryn. Dall'altro l'altopiano del lago, che stra tutto a 3016 metri ed è verdissimo di jailoo, i pascoli dei pastori seminomadi che salgono quassù con le beste nei tre mesi estivi, prima che cada la prima neve.
Questo passo è considerato uno dei più belli del Kirghizistan. Ed in effetti.
Indossiamo tutti i vestiti che abbiamo e partiamo. I miei freni piangono sulle prime discese. Incrociamo pure alcuni ciclisti che stanno partecipando ad una gara folle, la Silk road mountain race. Se noi abbiamo qualche problema, loro che vanno a cronometro ne han pure qualcuno in più.
I primi 10km sono di piacevole lentissima discesa e piano su strada pedalabile; attorno pascoli che paiono seta increspata, qualche yurta sparsa dal cui camino esce fumo profumato di legna e cavalli e mucche ovunque. Ma davvero ovunque.
c'è anche un ambulatorio medico, con cartello che lo indica se no mica si capisce
poi corre piano la strada e inizia ad intravedersi l'azzurro dell'occhio spalancato d'azzurro su azzurro. Il lago. Il Sonkol. Eccoci qui.
Ma questo Sonkol, esattamente, che è?
Mo spiego. Parta la sigla di Super Quark.
Il Songkol è un lago alpino endoreico cioè senza immissari (nè grossi emissari); è, fondamentalmente, un'enorme pozzanghera di 270km quadri, creata da precipitazioni di pioggia e neve e grandine che vannno a riempire la leggera depressione (massimo 13 metri di profondità) che si è creata quassù, a 3000 metri, protetta da vette altissime. E' il più grande lago alpino ed il secondo del paese, dopo l'Issyk Kul, che però sta più in basso ed è meta balneare (storicamente sovietica). Andremo a vederlo nei prossimi giorni.
Di natura sua il Sonkol ospita pascoli estivi e ger dei pastori seminomadi che stanno qui solo d'estate. Oggi però, con il turismo, si sono moltiplicati i pastori che arrotondano offrendo ospitalità ai viandanti. Non si può dire sia una località turistica, perchè, sant'iddio, chi diavolo viene quassù?, però non è nemmeno così deserta e priva di servizi come sicuramente è stata fino a qualche anno fa. Ci sono diverse agenzie che offrono trasporto fin qui, trekking a piedi o a cavallo, o in auto direttamente. Poi ci si infogna nella tenda, i pastori fanno il balletto con i cavalli, ti rifilano dei lagman (spaghetti kirghizi) e buonanotte.
Dopo le foto di rito (tante e le pubblico tutte, TUTTE! Troppa fatica arrivare qui, bisogna godersi ogni metro), ripartiamo. Fa freddo assai e il cielo è continuo trascorrere di nuvoloni minacciosi, spettinato dal vento e non promette nulla di buono. Infatti di lì a poco non solo pioverà, ma grandinerà pure.
Prima di fare il giro di mezzo lago, per raggiungere la strada che scende, a nord, dopo un passo di 3400 metri (che per noi son solo 400 gne gne gne), facciamo sosta al magazin, il negozio, che è quella tenda laggiù
noi ci arriviamo in bici, qualcuno in van, e un bel gruppone di pastori a cavallo. Infatti fuori dal negozio c'è anche il parcheggio per cavalli. Altro che Destriero di Vittuone!
Iniziamo a circumpedalare il lago e ci lasciamo alle spalle la zona più turistica. Verso il capo orientale ci sono solo poche yurte e molte pecore e capre. Pare quasi di essere in Mongolia.
Facciamo scorta d'acqua e cerchiamo poi un punto riparato per fermarci a riposare; il vento è fortissimo e gelido. I temporali continuano a rincorrersi in cielo e noi sotto a prenderci la furia del ciello sulla zucca. Troviamo rifugio dalla grandine in un tubo di cemento che passa sotto alla strada. Non è il massimo, ma funziona. Mangiamo delle tolle di pesce lezzo che girano in giro dai tempi gloriosi di Lenìn e io crollo addormentata per la febbre, fatta su nel kway che è una crisalide di tepore.
Appena la furia di Giove pluvio allenta la presa, ripartiamo. Io sto in sella a fatica fino a che il paracetamolo entra in circolo. Finiamo di girare intorno al lago e raggiungiamo la strada che porta al passo per uscirne. Perchè qui è fatica arrivare e fatica andar via. Nulla gratis. Mai.
Con i polmoni esplosi faccio i, per fortuna, pochi tornanti per raggiungere il passo a nord del lago, esattamente speculare a quello da cui siamo entrati. Poco più in alto scintilla la neve all'ultimo sole. Sotto di noi si spalanca la valle del fiume Kalmak Ashuu. Ci rimettiamo i vestiti pesanti, tolti per salire, e iniziamo la discesa.
Curiosamente i miei freni fanno il loro dovere per bene e posso concedermi una discesa tranquilla e spedita. Quando inizia a far buio decidiamo di piantar la tenda. Abbiamo percorso 70km, esattamente metà di quelli che ci separavano, stamattina, dalla prima città, quella che raggiungeremo domani. La salvezza. Il porto sicuro. Fuori dalle montagne terribili. Sull'asfalto. A dormire al caldo. Potersi lavare. Un sogno sempre più vicino!
Appena iniziamo a trafficare per accamparci, veniamo raggiunti da due bimbi che abitano nella cascina vicina. Salutano e vanno. E' normale qui veder passare nomadi di ogni genere e su ogni mezzo. Io sono distrutta ma felice: domani ancora un passo, qualche salita, e l'incubo è finito. Mi viene in mente Nabokov, quando descrive l'amore per Lolita come un paradiso illuminato dai bagliori dell'inferno. Ecco questi giorni sono stati così. Ma al contrario: un inferno illuminati dai bagliori del paradiso.
IL PLANISFERO
RispondiEliminaCara Volpe, come te
son sicuro non ce n’è,
hai girato il mondo intero
come fosse un planisfero.
Portogallo, Francia, Spagna
ed un giro anche a Lavagna,
la Mongolia ed il Perù,
sei passata da Viggiú?
Con la fida bicicletta
pedalando senza fretta,
questa volta il tour du mond
tu l’hai fatto col Raymond.
Ora torni a Cornaredo,
son curioso e te lo chiedo:
l’anno prossimo sai già
cosa ti riserverà?