lunedì 27 agosto 2018

58-60. Il lago ISSYK KUL. L''Omero kirghizo, in spiaggia con Lenin. BALYKCHY e CHOLPON-ATA

24/8/18






Dunque, come si è detto, siamo in anticipo, fatti i conti di kilometri e giorni dopo l'incognita dei monti.E abbiamo deciso perciò di visitare per bene anche il più grande lago del Kirghizistan, l'Issyk Kul. Faremo un paio di giorni di deviazione per esplorarne la sponda settentrionale, quella più "sovietica", destinazione balneare di russi e kazaki che qui arrivavano a pullmanate direttamente dalla fabbrica, stile Fantozzi, ma ridendo assai meno. Ci sono sorgenti termali, dunque sanatori e colonie più o meno tristi.

L'Issyk Kul un lago salato che si incastra fra i monti Küngey Alatau a nord e i Terskey Alatau a sud, parte della catena montuosa del Tian Shan. Il nome tradotto significa "lago caldo" perchè le sue acqua non gelano mai, benchè si trovi tra i 1900 e i 1600 metri d'altezza.
Non stiamo parlando di poca roba: lungo 200km e largo 60, nonchè profondo 700 metri nei punti più abissosi, è il secondo lago alpino più grande al mondo dopo il Titicaca.

Da sempre gravitante nell'orbita politica ed economica della Cina, la regione del lago fu l'epicentro da cui si diffuse la Peste Nera nel 1338 e che investì il mondo arabo e l'intera Europa tra il 1347 ed il 1354, mietendo almeno cinquanta milioni di vittime. L'intera regione venne acquisita tra il 1868 ed il 1884 da parte della Russia. I primi coloni russi, ucraini e bielorussi si stabilirono nelle zone vicine al lago nel 1868, seguiti da dungani e uiguri negli anni '70 e '80 del XIX secolo.
Durante la guerra fredda l'accesso alla zona dell'Ysykköl fu interdetto ai non residenti, a causa di test militari, soprattutto per collaudo di natanti di vario tipo nel lago.

Si dice pure ci sia un mostro nel lago, il jekai. Un po' tipo Loch Ness, ma quando lo vedi con la pinna fa il pugno chiuso e saluta con un tonante "tovarish!".

Sicchè andiamo a vedere sto popò di lago.

La strada è breve e facile: 60km di asfalto più o meno nuovo, con nuovi cartelli e poco traffico. Una pacchia. La nostra prima meta è Balychky, la città che sorge sulla punta a nord-ovest dell'Issyk kul e che si affaccia pure allo stradone che prenderemo tra 3 giorni per raggiungere Bishkek (ormai vicina, meno di 200km).

Lasciamo Kochkor ed il suo senso del brutto alle spalle. Seguiamo spediti la valle del Chu, ed incrociamo una serie di paesini sempre più incastrati tra strette pendici dei monti, che si chiudono a rimangiarsi la valle.

I cimiteri sempre attirano l'attenzione, con le loro curiose tombe dalle forme più strane, che si mescolano allo sfondo di roccia e danno l'effetto di una foresta di pietra, muta come i morti sotto.












La strada scorre liscia sotto alle ruote ed è un piacere pedalare. Fa fresco, perchè siamo ancora intorno ai 2000 metri, ma il cielo terso lascia ben sperare in un sole che scaldi, e scaldi davvero, non come in quota i giorni scorsi.









Giungiamo ad un largo bivio per uscire dalla valle: da un lato si va diretti alla capitale. Dall'altro invece verso il lago, passando per il bacino artificiale dell'Orto-Tokoy, omonimo al paesino che vi si affaccia. Noi prendiamo questa diramazione.



Ci appare, poco dopo, il lago artificiale, chiuso da una corona di monti, in un paesaggio stepposo e brullo, battuto dal vento e in un caleidoscopio di luci ed ombre per il continuo rincorrersi delle nuvole. Pedaliamo tutt'intorno al bacino, che fornisce energia elettrica alla valle, e ci godiamo i giochi di riflessi e scaglie di sole.



















Appena superato l'ultimo lembo d'azzurro e nubi, sorpresa! Un gruppo di cammelli, e stavolta cammelli veri, con due gobbe, e il pelo lunghetto per il freddo, pascolano tranquilli a bordo strada. Non sono selvatici: hanno finimenti e alcuni son legati. E si lasciano avvicinare. Dunque siamo tornati sulla giusta strada, dopo i dromedari persiani e turkmeni, ora ritroviamo i camilli della via della seta. E si lasciano pure fotografare con la Signora!












Si prosegue, in una luce sempre più scura e con un vento freddo che soffia dai monti e porta nuvole cariche di pioggia. Il paesaggio si fa quasi lunare: roccia dalle strane forme, plasmate dall'urlo del vento nei secoli, nei millenni. Roccia che ha visto immensi cieli, e non dice.










Superato un ultimo gruppo di monti rossosangue, con le prime gocce di pioggia che iniziano a rigarmi gli occhiali, imbocchiamo la discesona che porta direttamente a Balychky. E' la città "capolago" da questa parte. L'Issyk Kul compare, immenso di malinconia sconfinata come solo i laghi nei giorni di pioggia sanno essere, in lontananza.




Quella che ci accoglie all'inizio, in periferia, non è esattamente la cittadina balneare di spensierata villeggiatura che ci si aspetta. Non è il Garda, non è il Maggiore. Il senso del brutto permea ogni atomo e la luce sinistra del temporale non migliora affatto la situazione. Aggiungiamoci la puzza della discarica che rimane a bordo strada,


e aggiungiamoci anche i venditori di pescetti secchi, che ai russi garbano assai. Io li chiamo i pesci-male, anche se poi cattivi non sono. Solo coriacei e poco igienici, ma servono a fare fondo per quando si beve, e dopo una mezza boccia di vodka credo si potrebbe mangiare laqualunque, pure una manciata di ghisa.


Entrando in paese, dove si intravede un minareto lontano, si trova una chiesa ortodossa. Questa è la sponda russa e russificata, sicchè non mi sorprende affatto la cosa.



Non mi sorprende nemmeno, e per lo stesso motivo, la statua in cemento metallizzato del proletario con catena al collo, rimasta davanti all'ufficio postale dai tempi d'oro dell'Unione.


Giungiamo in breve all'Hotel Alya, grande e sovietico al massimo, tuttora meta prediletta di russi e kazaki che si recano qui per godersi un tuffo nel lago. L'albergo è infatti grosso, kitsch e con accesso a ristorante e spiaggia. Ha la sauna e la discoteca. Lo popolano grossi russi con macchinone e panza da birra, che si muovono con completo giacca e cravatta incellophanato su un braccio e troione da battaglia, tacchi tanti e biondo platino, all'altro braccio.





Dopo un po' di riposo, decido di fare un giro in paese. Balykchy sta a 1900m d'altezza e conta poco più di 40.000 abitanti. Fu, in epoca sovietica, un importante snodo ferroviario e portuale, e questo permise un discreto sviluppo delle industrie di lavorazione di alimenti e tessuti. Dopo il crollo dell'Urss, però, è tutto andato a rotoli, tanto per cambiare. Comunque siamo tornati davvero sulla via della seta, che di qui passava per evitare i monti del Tien Shan e collegare la Cina con i territori occidentali..



Invero la città vera e propria è stata fondata nel 1884 da tal Bachin, soldato in congedo dal forte di Naryn, che qui costruì la sua fattoria. Poi venne l'ufficio postale. Il nome dell'agglomerato era infatti Bachino. Poi, tra XIX e XX secolo, altri vennero a vivere qui, e la città prese il nome di Ketmaldy, come il fiume vicino, e poi di Novodmitrievka, dal cognome di un potente possidente locale. Tra 1909 e 1993 la città venne chiamata semplicemente Rybachye, luogo di pesca (in russo), poi Issyk Kul, come il lago, e finalmente, dopo l'indipendenza, Balykchy, "pescatori" in kirghizo (e turco, lingua sorella).
Noto che anche per strada chi vende pesce non espone sempre il cartello "balik", pesce in kirghizo, ma spesso "riba", in russo. C'è confusione sotto a questo cielo. Chissà i pesci tra loro che nome si danno.


La cosa che comunque più mi interessa nadare a vedere è la statua di Sayakbay Karalayev.
E chi è costui?
E' definito l'Omero kirghizo del XX secolo.
Oh!
Mo spiego, un attimo.







Quest'uomo, nato nel 1894 e morto nel 1971, è stato uno dei più importanti manaschi, che si oppose con la sua arte all'oppressione sovietica e al tentativo di russificazione della cultura, con cui la Grande Madre ha tentato di asfaltare ogni forma di cultura locale.

Ma aspetta, che è un manaschi? Un dislessico che alza le mani e usa violenza?
Ebbene no, è un cantore sacro. Come gli aedi dell'antica Grecia, che ci hanno recitato nell'eco dei secoli i poemi omerici.
Questi cantori si chiamano manaschi perchè sanno a memoria l'Epopea di Manas, il poema epico del popolo kirghiso. Manas è il nome dell'eroe. Il poema, trasmesso per tradizione orale, articolato in oltre mezzo milione di versi, è, in proporzione, oltre venti volte la somma del numero dei versi che compongono l'Iliade e l'Odissea sommati insieme e circa il doppio del Mahābhārata. Il poema racconta le gesta di Manas, dei suoi discendenti e seguaci. Le battaglie contro le città Kitay e Kalmak costituiscono il tema centrale del poema. Sebbene il poema sia già menzionato nel XV secolo, la prima versione scritta è datata al 1885.L'epica è la colonna portante della letteratura kirghisa, e alcune parti di questa vengono recitate nelle festività locali dai Manaschi, specialisti della lettura e della recitazione dell'epica.

Il poema venne proibito nel 1951, durante l'era sovietica, dagli storici russi nella loro opera di eliminazione delle tradizioni delle varie etnie facenti parte dell'Unione, per sottolineare l'importanza del popolo russo nella creazione della cultura dell'Europa dell'Est.

Per questo il nostro karalayev è così importante: continuò a recitare il Manas nonostante fosse vietato; a buona ragione è considerato una sorta di eroe patrio, difensore della tradizione del suo popolo.






Dopo 'sto bagno de kultura, apprezzo i tentativi di uscire dal senso del brutto: il palazzone sovietico è abbellito da un mural davvero degno di nota.



Tuttavia si susseguono poi una serie di brutture che riportano in pieno all'ordine brutto. Insomma, se cosmo, dal greco kosmos (stessa radice di cosmetico) era l'ordine bello, qui c'è il suo esatto opposto. Una legge governa tutto, ma non certo quella dell'armonia e della grazia.

Per esempio: andreste mai in questo bugigattolo per fare una sauna (bania)?


E affitereste mai un ombrellone in una spiaggia dove si viene accolti dallo sguardo severo di Lenin? E dove tutto è allegro e gioioso come un turno straordinario in fonderia, la domenica mattina?




Notevole anche la pratica storia in cemento delle glorie della marina sovietica





Fa freddissimo e un vento terribile da ovest ulula tra i tetti e i rami; porta con se le nuvole della pioggia, che scivolano giù lungo le pendici dei monti come una piena di fiume, come un'assalto di cavalleria di cosacchi. Mi affretto a tornare in albergo, prima che il diluvio mi colga.




Per fortuna Zeus che aduna le nubi mi lascia il tempo di godere del bel giardino che profuma di resina fresca


e della spiaggia con vista lago. Questa è una cosa bella. Qui appoggio sul pelo dell'acqua un palpito pulito di sincera meraviglia. Poi soffio perchè prenda il largo come una piuma, come una barchetta di carta.
Qui il senso del brutto non ha potere, non c'è opera umana che possa rovinare un tale spettacolo.



Certo il porto, con carcasse e relitti sovietici, non è proprio grazioso


tuttavia basta voltare lo sguardo per esser presi nel gioco di blu e luce immensa che fanno l'Issyk Kul ed i monti circostanti, sotto ad un cielo spettinato e terribile come una menade danzante









Ho detto prima e ribadisco: nulla è più malinconico di un lagospento, senza sole. Due abissi pieni di vuoto che si fissano, muti. C'è un solo modo per fermare lo sversarsi d'atra bile nelle vene del cuore: non essere soli. Allora telefono a casa, la casa lontana e vicina. E mi scaldo.


Anticlimaz per alleggerire: la spiaggia ha due grandi scivoli, che permettono entrambi di fare salti e tuffi spettacolari. Peccato che entrambi portino a un punto dove l'acqua, a dir tanto, è profonda 30cm. Non capisco se è un modo per selezionare i bambini più intelligenti e sbarazzarsi di quelli stupidi, scivolo-Darwin, oppure è una sorta di passerella per l'ultimo volo, stile canto del cigno, per chi non ha più niente da dare a questo mondo. L'atmosfera, climatica e umana, un poco invoglia.




Dopo aver bevuto avidamente ancora un poco di luce, una goccia di splendore come miele sulla punta della lingua




viene il momento della cena. E trac, il senso del brutto. Il ristorante è deserto, diluvia e la discoteca stasera è chiusa. Un ragazzo collassa accanto alla postazione del dj e mi resta il dubbio di perchè al centro del palcoscenico (?) sta una macchinina elettrica tipo Peg Perego.


Il cartellone del Circo Sciapito (quello senza sale, senza sapore, un po' così, con gli animali menci e i nani storti e la donna barbuta ma non troppo) mi dà il colpo di grazia.
C'è un notizione però: ho cenato al ristorante e, per la prima volta dopo un mese, non ho avuto immediato sguarone. Che io stia finalmente uscendo dal tunnel?




25/8/18

Come dicevo, siamo in anticipo. E allora andiamo a vedere per benino questo lagone, concedendoci due giorni di tranquilla deviazione. Il progetto iniziale prevedeva giusto una sbirciatina da qui, da Balykchy, ma abbiamo 48 ore in più dei conti fatti e andiamo a Cholpon-Ata, il capoluogo amministrativo della riva settentrionale dell'Issyk Kul. Sta a 80km da Balykchy, e sono 80km in piano, con un buon asfalto e vista panoramica sulle acque azzurre e sui monti che fanno da confine tra Kirghizistan e Kazakistan.
Cholpon-Ata, fra l'altro, è esattamente sotto ad Almaty, meta finale del mio viaggio. Se si potessero passare i monti e la frontiera da qui, avrei meno di 100km di strada da fare per raggiungere la grande città kazaka.

Dopo i temporali e gli acquazzoni terribili di ieri, constato con somma gioia che oggi invece il cielo è terso. La luce è quella dell'estate che declina, mentre settembre "mese del ripensamento" si avvicina. Dalla finestra dell'hotel vedo i monti sotto l'azzurro, penso ad Aura Mazhda, al tengrismo, sento la luce avvolgere il globo come un miele che cola lento, dall'alto, in goccioloni. C'è del bello anche qui, davvero.


Dopo colazione, prima di partire, faccio un'ultima puntatina in spiaggia, che, come spesso in Italia si raggiunge attraversando la ferrovia (con Lada scassata annessa).


Con questo sole il lago ha un aspetto ben diverso, e sembra quasi di stare al mare, sembra di essere in vacanza sul serio. Ci sono pochi bagnanti, come in Liguria a fine stagione, e l'amosfera è rilassata e calma e sa un po' di triste dolcezza, perchè l'estate ormai è quasi alle spalle. Mi vien voglia di fare il bagno, ma conciata di raffreddore e tosse come sono, meglio di no. Però tocco l'acqua, per saggiarne la temperatura: è inaspettatamente tiepida. Allora il nome di lago caldo è meritato davvero!








Torniamo in hotel, e chiudiamo armi e bagagli nelle borse ormai impolverate e lezze da far schifo, ma che si lasciano riempire docili con il tetris di sacchetti e vestiti e parafernalia. E' un rito quotidiano, un rito da nomadi, da chi si porta quel poco di casa appresso ad ogni passo.


Purtroppo, dopo pochi metri dalla partenza, mi accorgo che la mia bici ha qualcosa di strano... Cosa può essere... Manca qualcosa... Ah! Il ciclocomputer! Mannaggia, mi sarà caduto dal manubrio? Mi fermo e controllo, ma anche il supporto è sparito. Inizia a salirmi il dubbio che questa assenza sia frutto dell'opera di un ladro. Controllo la Signora: mancano in effetti anche il magnete sui raggi ed il lettore sulla forcella. I tre pezzi del ciclocomputer sono stati asportato con precisione chirurgica, altro che caduti. Qui c'è un Pacciani delle bici che agisce di notte. Mi sale l'incazzatura. Giro la bici e volo in hotel. Questi si danno arie da grande albergo della Costa Azzurra, si fanno pagar bene e ti vendono il parcheggio custodito. Le bici erano legate DAVANTI alla reception. E poi succedono queste cose? Una volta in hotel monto un cinema di gran conto, dicendo che il giorno dopo sarei tornata e se il mio ciclocomputer (mal funzionante, 70 euri della Decathlon invero) non fosse saltato fuori avrei dovuto sporgere denuncia ecc ecc.
In realtà non ho mai avuto alcuna reale intenzione di andare dalla polizia, che qui rischi di esser frainteso ed arrestato perchè vai a denunciare un furto. Però volevo metterla giù pesante perchè ero incazzata assai. Le mani sulla mia Signora non si mettono. I cavi, per altro, eran tutti tirati e fuori posto, ma non danneggiati, chè il ladro, esperto e consapevole di come funziona il ciclocomputer, ha dovuto svitare e lavorare a lungo, visto che tutto era ben fissato sulla bici. Le receptionist si mostrano sinceramente mortificate e promettono di fare il possibile.
Riparto consapevole che non rivedrò mai il contakilometri, ma forse spuntiamo una notte gratis in hotel, domani.
Mentre pedalo penso intensamente allo sketch di Albanese che maledice chi gli ha rubato il motorino e spiego a Raymond il detto italiano "Spero che quei soldi li usi tutti in medicine". Intanto lumo chiunque sia in sella ad una bici con sospetto. Ma passa presto.

La strada, sotto alle ruote, scorre liscia e rapida.
Si susseguono i baracchini che vendono frutta e pesce secco. 




Si pedala chiusi tra l'azzurro dell'acqua e le vette, alcune innevate, di questa parte di Tien Shan. I villaggi, tutti a vocazione turistica che pare di essere in Riviera, si alternano a zone più desertiche su cui lo sguardo si apre.


Oltre a constatare l'assenza del fedele ciclocomputer, mi rendo conto che il senso del brutto si sta impossessando anche della mia Signora. Il freno anteriore, a sinistra, è proprio orrendo, troppo grande e diverso da quello posteriore. In più è montato al contrario, perchè era una leva da mettere a destra. E cigola sinistro ad ogni giro di ruota perchè le pastiglie non sono perfettamente in asse. I ragazzini che lo hanno accrocchiato, a Kazarman, però, sono da ringraziare: questo brutto lavoro funziona piuttosto bene, e sono riuscita ad arrivare fuori dai monti, fin qui, senza ammazzarmi, grazie al loro intervento. Il mio a disco idraulico era inservibile ormai. Questo meccanico fa il suo. Però sembra una protesi mal costruita. Sembra uno dei miei gomiti! Ora davvero io e la Signora siamo un tutt'uno.



Proseguiamo spediti tra statue carine



e fontane di dubbio gusto(pinguini e delfini di cemento, ma perchè?)


da un lato la terra arsa e i monti distanti,



dall'altro sempre una striscia d'azzurro splendido nel gioco dei riverberi.





I numerosi paesini che si susseguono sono proprio tutti uguali, tutti con la loro moschea, il loro cimitero, i loro alberghetti e le loro pensioni, i loro negozi e i loro baracchini del pescemale. Ho quasi l'impressione, anche per il poco traffico, di essere sulla versione kirghiza della pista ciclabile che corre tra Ospedaletti ed Imperia, pedalata tante e tante e tante volte. Uno stormo di ricordi si leva in volo dal mio caschetto. Nostalgia.








il leopardo delle nevi lacustre


Stupisce, ma nemmeno troppo, che qui le spiagge non hanno sdraio, lettini ed ombrelloni. Qui ci sono due tipologie: quelle con i takhtana, i divani-tavolo, spesso coperti con baldacchino, e quelle con le yurte. Giustamente.



Per l'ora di pranzo abbiamo bruciato i nostri 80km e raggiungiamo la meta di oggi: Cholpon-Ata. Che non è la caponata. Significa "padre di Cholpon", la quale è una sorta di Venere, uno spirito protettore della mitologia locale.



Ai tempi dell'Unione Sovietica la località era molto frequentata dai vacanzieri di tutte le repubbliche in virtù dei suoi sanatori uniti alla presenza del lago e all'impressionante panorama che si gode dalla città sulle vette del Tian Shan; ciò contribuì a sviluppare una serie di strutture alberghiere, rendendola una meta turistica estiva dove dalle fabbriche arrivavano pullman carichi di lavoratori e famiglia, tutto incluso. Veramente stile Fantozzi. Il collasso dell'Unione Sovietica ha portato a un drammatico calo del turismo, oggi visitata solo da kirghisi e pochi uzbeki e kazaki, con il conseguente disfacimento degli edifici che avrebbero bisogno di serie ristrutturazioni. I sanatori son rimasti, e pure un ospedale specializzato nello studio della tubercolosi. Per la tosse che ho, è il posto mio.

In città sono presenti dei musei di cui leggo solo male e peggio, soprattutto in merito a quello sulle religioni, che pare un elogio al kitsch. Decido di evitare, chè al senso del brutto e del vuoto son già esposta fin troppo. Mi intriga il sito dei petroglifi datati tra 1500 e 1000 a.C., ma anche questo è una sola: ci sono due pietre interessanti e poi una distesa di sassi tra i quali cercare vaghe tracce, che potrebbero pure essere una cagata di piccione.

Le terme paiono essere le più sporche dell'Asia, con malattie della pelle e micosi incluse nel prezzo. Decidiamo così di fare proprio i turisti vacanzieri, e di rilassarci tra hotel (Panorama) e passeggiata in spiaggia e in centro. 





Andiamo a vedere il promontorio con la spiaggia più antica, dicono di stromatolitie altri liti che nemmeno so cosa siano. E' una spiaggia spiaggia, vera, con la sabbia e le ondine. Il clima rilassato e il vociare lontano dei bimbi che fanno il bagno è un balsamo per l'anima, al pari del tepore del sole, caldo ma non troppo. Siamo a 1600m d'altezza.







Alle spalle ci son sempre i monti e l'insieme è spettacolare






un Raymond selvatico appare nell'erba alta (chi ha giocato ai Pokemon sa)



Proseguiamo nella passeggiata e troviamo, senza stupore ormai, un'altra statua dello zio Lenin, che controlla che nessuno dimentichi che, anche in spiaggia, si deve portare avanti la lotta di classe.



A breve distanza, una moschea (ce ne sono anche altre, più piccole)


ed un'auto che trasporta carne, cioè intere pecore, in maniera assai igienica. Preciso che l'auto era parcheggiata da tempo e sotto al sole, a bordo strada, tra polvere e insetti.





Curiose geometrie affettano il cielo, e mi sembra di vedere una silenziosa lotta tra brutto e bello, tra cemento e fiori. Un manicheismo estetico, diciamo.


Della chiesa ortodossa c'è il cartello ma non l'edificio.


Il parco centrale infine ospita una statua della libertà e dell'indipendenza del popolo kirghiso,



nonchè quest'altra scultura indecifrabile.


Torniamo in hotel che è quasi ora di cena. Mentre io in stanza scrivo, Raymond, in cortile, viene invitato al tavolo dai proprietari della struttura e fa un primo pasto a base di spiedoni di carne appena cotti sulla brace e vodka. Molta vodka.




Io riesco a scampare la combriccola e ceniamo con pesce, riso e kompot, il succo di bacche tipico della Russia; Sergey (a sinistra) ed il suo amico sono perennemente ubriachi. Erano pieni nel pomeriggio, quando siamo arrivati. Ora hanno fatto fuori 3 bottiglie di vodka e sono solo le 8 di sera. Vanno avanti a bere fino a mezzanotte inoltrata. E fanno gran discorsi un po' in russo un po' in tedesco un po' con parole francesi e italiane. Poi iniziano a cantare. Totocutugno. Albanoeromina. Volare ohhhh ohhhh. E Iglesias. Come non ci fosse un domani.
Inutile dire che al mattino seguente sono ancora nella stessa condizione. Alconauti riuniti.



26/8/18

Oggi è stata una giornata rapidissima. Non starò a dilungarmi troppo, chè abbiamo solo percorso all'indietro la strada di ieri, per tornare a Balykchy. Da qui, domani, proseguiremo per Bishkek, che dista 180km, due giorni di sella.

Ho fatto solo qualche foto in più dei venditori a bordo strada, con i loro pesci secchi, la frutta (albicocche e more e bacche) e le pelli di mucca e pecora.














A Balykchy siamo tornarti all'hotel Alya per chiedere nuove riguardo al mio ciclocomputer. Ovviamente non lo hanno trovato. Ma rifacendo un poco di scena, siamo riusciti a spuntare una notte aggratis per entrambi, con colazione inclusa. At least, ci diciamo. Almeno questo.
Domani si torna in sella sulla diritta via, verso la capitale, dove ci fermeremo anche un giorno per visitare la sovieticissima città. E dopo la pausa sarà tempo di lasciare il Kirghizistan, dove siamo rimasti oltre due settimane. Entreremo in Kazakistan per gli ultimi 240km che ci separano da Almaty.

Chiudo con il piatto di manti (ravioli) fritti della cena; chè qui la cucina è un gran misto tra tradizione uzbeka, russa e cinese. Se l'aspetto non è dei migliori (il senso del brutto permea ogni cosa), il sapore, invece, merita!

1 commento:

  1. “ADDIO MONTI…”
    Hai scavalcato i monti
    la meta si avvicina,
    ritornerai a San Pietro
    ma il Puill prosegue in Cina.
    Deserti ne hai veduti
    e spazi sconfinati
    dialetti sconosciuti
    e mondi colorati.
    Villaggi e minareti,
    e mondi favolosi,
    e cibi un po’ inconsueti
    e cieli luminosi.
    Fra un po’ finisce il viaggio,
    ritornerai al tuo mondo
    ma resta quel miraggio:
    “Viviamo fino in fondo…”

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