lunedì 1 luglio 2019

1. San Francisco. Tra leoni marini, ponti, gay pride e sequoie



Allora, stiamo calmi. Che San Francisco è un cosmo, in un mondo per me del tutto nuovo. Per di più mi sono ustionata malamente il cranio (prima di partire mi sono rasata i capelli!). Sul mio cranio si possono cuocere le uova, e raccontare non è semplice.

28/7

Cominciamo dal viaggio -lungo, infinito, estenuante.
Esclusi i soliti piccoli casini legati all'imbarco delle bici, che, fatte su nei cartoni e nei sacchi di plastica vengono sempre guardate come fossero ordigni da attentato, tutto bene da Milano a New York, dove abbiamo fatto scalo. Qui ci son toccati controlli su controlli, nel pieno spirito maniaco esploso dopo l'11 settembre negli Usa. Immigration (io visto, Gigi Esta) alle macchinette stupide come solo un computer sa essere, colloquio con le guardie, ritiro bagagli, reimbarco bagagli (mi lamentavo dei 2 euro che servono per prendere il carrellino a Malpensa... Qui 6 dollari! Gasp!), doppio controlli di sicurezza (mancava solo l'ispezione anale coi diti) e, al pelo, siamo arrivati al gate del secondo volo, che ci ha portati a San Francisco. 9 + 6 ore di volo, e 9 ore di fuso han fatto sì che vivessi la giornata più lunga della mia vita. La sera non arrivava mai, eravamo come in fuga dal tempo, dal tramonto, sempre un passo avanti al sole. Ho visto film a nastro, giocato compulsivamente ai giochini dei pc di bordo, letto, dormito, fatto 3 pranzi e 2 cene, tutto senza mai muovermi dal sedile. Un delirio.
Arrivati finalmente a destinazione, due brutte sorprese: la più amara è che l'unico paio di scarpe "civili", non da bici, che mi ero portata e stavo indossando era da buttare, causa due suole scollate su due. Ancora prima di uscire dall'aereoporto! La più seria, invece, che, a parte la mia bici, lo scatolone di Gigi e quello dove avevamo messo tutto il resto dell'attrezzatura (tenda, ricambi, sacchi a pelo ecc) non erano arrivati. Dopo attese e domande agli addetti, siamo venuti a scoprire che entrambi i bagagli sarebbero arrivati solo un'ora e messa più tardi, su un altro volo. Con tutto che già erano le 20.30 e l'orario limite del check in hotel le 22.
Comunque, tutto è bene quel che finisce bene.
Ho chiamato in hotel, il Sweden House, e la receptionist ci ha rassicurati quanto al fatto che qualcuno sarebbe rimasto ad aspettarci. Tutti i bagagli sono arrivati, per altro integri, anche se evidente aperti e poi richiusi con nastro adesivo della polizia, che li ha controllati uno ad uno.
Trovare un taxista che si prendesse la briga di portare noi e gli scatoloni in centro non è stato facile; sono troppo diligenti, questi americani. In Turchia, Grecia, Iran, Mongolia e Russia ho sempre visto gli autisti arrangiarsi senza troppi sofismi nel caricare alla bell'e meglio le bici sui loro mezzi, anche se evidentemente troppo piccoli per il carico. Ho visto più volte la scenetta dei 20 clown in una Cinquecento praticamente. Ma non qui. Qui devi chiamare il taxi grande (che costa di più). Qui devi far stare tutto per benino senza sbavature. E ci è voluto un po' a trovare l'auto adatta.
Il taxista gentile, che ci ha subito detto che tale gentilezza gli sarebbe valsa una bella mancia, ci ha fatto un po' da cicerone mentre correvamo nel buio, rapiti dallo sfavillare ammiccante delle luci dei grattacieli, firmamento artificiale ad altezza quasi umana. "Questo è il Bay Bridge, qui stanno giocando a baseball, vedete il megaschermo?" e così via, finchè si è venuto a noia e ha deciso di meterla sul personale. "Di dove siete?" chiede. "Milano, Italia!". "Ah, che bello, vorrei visitarla! Il marito di mia sorella è italiano, dalla Sicilia, ma vive in Francia. Anch'io sono stato in Francia. Sono algerino, sai, parlo il francese. Però i francesi non mi piacciono: se la tirano troppo, credono di essere migliori di tutti gli altri. Gli italiani non sono così. E poi conservano le tradizioni del passato, questa cosa mi piace molto. Ad esempio qui, dove tutto è possibile per tutti, se vado in giro per strada con mia moglie e qualcuno la guarda, io non posso fargli niente! Ma dico, ti par giusto? Sto parlando di MIA moglie!". Gli dico che anche nel mio immaginario gli Stati Uniti sono la libertà sfrenata. "Sì, senza limite. Tutto va bene, ma non se assoluto e illimitato. Pensa ai bambini: se dici loro di non toccare qualcosa, di non fare qualcosa, e per tutta l'infanzia neghi loro quell'esperienza, ecco che quando saranno grandi faranno continuamente quella cosa e al massimo grado. Qui è uguale. Viene gente da tutto il mondo, da secoli, per poter fare quel che non hanno potuto fare da piccoli".
E così chiacchierando giungiamo in hotel, che è la strada subito oltre Tenderloin, il quartiere degli homeless. Se ne vedono in giro parecchi, più o meno distrutti, più o meno strafatti, ma non quanti pensassi. Ci sono e si arrangiamo lì per la strada, coperti di stracci luridi e occhiate distratte. Non chiedono la carità, non sono molesti nè aggressivi. Vivono al margine ultimo di una società feroce, sembrano i cani randagi d'Albania. Ma sono uomini e donne, una schiera grigia che mai ho visto, in nessun altro luogo, così numerosa. 
Dopo aver fatto il check in e due piani di scale con tutti gli scatoli, finalmente ci siamo concessi il meritato riposo, sfatti, afasici ma curiosissimi di scoprire la città.

29/7

Il sonno è stato scomposto e intermittente, ma comunque ristoratore.
Al risveglio, o meglio, ai risvegli (alle 2, alle 3.10, alle 3.15, alle 3.50, alle 4, alle 5.15, alle 6.30...), questo era il panorama




Colazione in camera con caffè da asporto preso poi al negozietto del bangla sulla strada e via, a visitare la città come bravi turisti. Una piccola noticina storica relativa a San Fran, iconica e famosa, collocata, con i suoi ponti, la sua baia, i suoi quartieri e la sua nebbia nell'immaginario nostro fatto di simboli che emergono dalla foschia stessa.

La baia risulta abitata fin dal 3000 a.C. dagli Oloni, popolo dell'ovest, indigeni poi puntualmente spazzati via dal luogo e dal tempo.
La città vera e propria fu fondata solo nel 1776 dagli spagnoli con il nome di La Misión de Nuestro Padre San Francisco de Asís. Dopo l'indipendenza dalla Spagna l'area divenne parte del Messico. Nel 1835 l'inglese William Richardson guidò una prima significativa espansione urbana al di fuori delle immediate vicinanze della missione: fu così che la città, chiamata allora Yerba Buena, cominciò ad attrarre una rilevante immigrazione di colonizzatori statunitensi.
Nel XIX secolo la città, come il resto del territorio dell'attuale California, fu strappata dagli Stati Uniti al Messico a seguito della guerra messicano-statunitense (1846-1848), e fu rinominata San Francisco. Fu la corsa all'oro californiana che seguì all'annessione americana a stimolare una rapida crescita dell'area, e la sua definitiva trasformazione da piccolo centro: dai 1000 abitanti nel 1848 si passò a 25000 nel dicembre del 1849. Nuovo impulso demografico diede la scoperta di miniere d'argento nel 1859; questa incontrollata crescita provocò anche una maggiore incidenza della criminalità nella città, ed alcuni quartieri divennero noti come paradiso per criminali, prostituzione e gioco d'azzardo.
La seconda metà dell'Ottocento vide il consolidarsi di una classe imprenditoriale che investì le ricchezze derivate dalla corsa all'oro; i settori principali di crescita furono quello bancario e ferroviario, quest'ultimo interessato dalla costruzione della First Transcontinental Railroad. Inoltre lo sviluppo del porto fece della città un importante centro per il commercio. Tutto ciò catalizzò un importante flusso di immigrazione che fece presto della città un centro multietnico: la Chinatown si formò dall'arrivo di cinesi impiegati nella costruzione delle ferrovie. Le prime cable cars entrarono in funzione nel 1873, e sempre in questo periodo prese forma il paesaggio architettonico urbano di residenze in stile vittoriano. All'inizio del secolo San Francisco era ormai conosciuta nel Paese per il suo stile ricco e signorile, nonché per la sua florida attività teatrale.
Nel 1906 un devastante terremoto, a cui seguì un incendio, distrusse buona parte della città, che fu però rapidamente ricostruita al folle ritmo di 15 edifici al giorno. Nove anni dopo fu in grado di ospitare l'Esposizione Internazionale di Panama e del Pacifico. Durante la Seconda guerra mondiale, San Francisco fu il punto di partenza per molti soldati diretti verso gli scenari del Pacifico. Dopo la guerra il ritorno di molti membri delle forze armate, una massiva immigrazione ed atteggiamenti liberali hanno permesso l'ascesa della Summer of Love e di altrettanti movimenti per i diritti degli omosessuali, rendendo così San Francisco uno dei bastioni liberali degli Stati Uniti.
Infine c'è stata la rivoluzione tecologica (la Silicon Valley è proprio qui accanto), l'afflusso di capitali spropositati, la crisi che ha ridotto molta gente a vivere per strada e, infine, si dice, un altro Rinascimento, dopo quello del '68, che starebbe iniziando proprio ora.
(Grazie Wikipedia)

La prima tappa di una lunga giornata tutta  scarpinata pedibus calcantibus è per noi stata Union square.




E' la piazza centrale di San Francisco, collocata nei pressi di Market Street. È conosciuta come il luogo dello shopping, degli hotel più facoltosi e di teatri prestigiosi. Il nome “Union Square” prende origine dalle numerose manifestazioni di supporto nei confronti dell'esercito nordista, che ebbero luogo al centro della piazza durante la guerra di secessione americana. Oggi rappresenta uno dei più grandi quartieri commerciali della California, per la quantità di negozi, boutique eleganti e saloni di bellezza, che rendono la piazza una delle mete più gettonate dai turisti che visitano la città.




Camminando inizio a rendermi conto che questa città è sì grande, sì moderna, sì "americana" con volti d ogni colore per le strade e grattacieli che impediscono al sole di scaldare le vie e le piazze... Ma è comunque ancora "comprensibile". La si riesce ad afferrare con il pensiero, si può camminare a piedi da un luogo all'altro. E' ancora a misura d'uomo, per quanto d'uomo contemporaneo, alienato, spaesato, che appartiene a tutti e nessun luogo insieme, nomade stanziale dalla mente piena di vuoti.



i distributori di giornali


Ci dirigiamo quindi in Market street, una delle più antiche ed importanti vie di San Francisco, lunga circa 5km. Attualmente è una delle zone che più di altre riescono a produrre lavoro e grandi centri di commercio della città. Ospita anche molte linee tranviarie e del filobus. E' proprio qui che so esserci una grande farmacia, una sorta di centro commerciale con tanto di sportelli dove i medici, per un centone, elargiscono ricette. Ma soprattutto è qui che c'è un negozio Decathlon, in cui devo comprare un paio di scarpe nuove, resistenti, comode ma low cost. Detto, fatto. Una nota: i prezzi sono come i nostri ma il negozio è molto, molto più piccolo e, soprattutto, si paga solo con carta di credito. Niente contanti, niente casse. E' un brutto vizio che hanno da queste parti (anche in hotel stessa solfa). Per me rimane follia, sono ancora legata alla materia, al contante, alla carta e alla moneta! 



La seconda tappa è Chinatown. Di fatto, fu un ghetto. Oggi è un luogo assurdo: dopo qualche metro si passa dai grattacieli, dall'odore di hot dog e pizza e dall'accento sbragato americano a una via di Pechino. Cartelli e insegne solo in cinese, occhi a mandorla, negozietti che vendono le peggio cose della cu-Cina, si sente solo parlare cinese e non si è più in America. Dunque. Devo ancora capire bene questo passaggio dal più becero razzismo che fu all'integrazione e parità di diritti (sulla carta) di oggi, all'integrazione segregata di queste comunità. Mi ci vorrà del tempo, per ora mi lascio trasportare. Entriamo dalla porta principale, su Grant Avenue, la porta del drago, cui fanno guardia due leoni che ti guardano brutto con i loro occhi sgranati



All'interno, nell'intrico di vie, si trovano una statua di Sun Yat-sen, un memoriale dei veterani di guerra cinese; negozi, ristoranti e mini centri commerciali ora per turisti, ora genuini e autenticamente cinesi che può ricordare Hong Kong, con i suoi prodotti, i mercati del pesce, i negozi e i ristoranti. 




Chinatown è la comunità di cinesi più antica degli Stati Uniti. E' stata fondata nel 1840 e, fino al 1945, è stata usata come ghetto. I cinesi, per legge, non potevano risiedere nè possedere attività commerciali al di fuori dei confini di questo quartiere; perciò è cresciuto in altezza, mano a mano che la comunità si faceva più numerosa. Ci sono templi all'ultimo piano di palazzi dove convivono macellerie e appartamenti, librerie e videoteche di pura produzione artistica cinese incastrate tra un negozio che vende alghe e funghi secchi maleodoranti e un parrucchiere.



anche i lampioni sono cineseggianti, con tanto di draghi



Mi ha stupito, anche poi fuori da Chinatown, come i cinesi siano legati al cristianesimo nelle sue varie confessioni. Gran parte delle chiese che ho visto (non molte in verità) erano in qualche modo legate alla comunità cinese. Ho anche assistito a un funerale, iniziato con il suono tremendo dei piattini cinesi e dei tamburi cinesi suonati da cinesi, per proseguire con una Messa e un corteo di soli cinesi. 











Da Chinatown si vede il Transamerica Pyramid, il secondo più alto grattacielo di San Francisco (260 m, 48 piani); è stato il più alto della città per 45 anni, prima di essere superato dalla Salesforce Tower nel 2017. È situato nel quartiere finanziario ed è stato costruito nel 1972 su progetto di William Pereira. Il costo complessivo per la realizzazione dell'opera ammonta a 32 milioni di dollari. Il nome del palazzo deriva dall'aver inizialmente ospitato gli uffici della Transamerica Corporation, e sebbene attualmente la costruzione non sia più di proprietà della compagnia, il nome originario è rimasto inalterato.




una banca-pagoda


Finita una prima parte di Chinatown incappiamo in una delle zone più intriganti della giornata, quella legata alla Beat generation. Si parte dalla libreria e casa editrice City Lights, di Ferlinghetti, che pubblicò L'Urlo di Gnsberg e tutte le opere dei principali autori beat, Kerouac in primis.







Andiamo poi dritti al vicino museo dedicato a questo "Rinascimento" della cultura di San Francisco. Qui sono conservati cimeli di ogni genere e tipo, dal più interessante (copie originali di testi e fotografie) al più kitsch (statue di Kerouac con la testa ballonzolante)























A breve distanza da questa zona, dove l'odore di erba (qui legale) è forte quanto in tutto il resto della città, si apre il quartiere italiano, tra ristoranti e alimentari.


Per tornare verso il Financial district ci rituffiamo nella Chinatown, dove tra torte a forma di Grande Muraglia



feste rionali con laboratori di riciclo artistico per i bimbi e dragoni




case colorate e palazzoni grigissimi, con bandiere a stelle e strisce e arcobaleno





arriviamo finalmentePortsmouth Square, uno dei pochi spazi aperti a Chinatown, dove alcuni praticano il T'ai Chi, altri giocano a scacchi o a carte, mentre i bambini si divertono su giochi a forma di pagoda o di muraglia. Una replica della Dea della Democrazia, utilizzata nella protesta di Piazza Tiananmen, fu costruita nel 1999 da Marsh e domina la piazza.





Dopo aver acquistato due sim card americane (con 55 dollari internet illimitato in tutti gli States, compagnia At&T) e una ricarica del gas per il fornello da campo, siamo finalmente arrivati al Distretto finanziario.




È il quartiere dove avvengono i più grandi scambi economici e finanziari di San Francisco e di quasi l'intera Baia. La zona è ben riconoscibile anche da lontano perché è caratterizzata da un gruppo di grattacieli. Un tempo considerato il più importante centro finanziario della costa ovest degli Stati Uniti, dopo il terremoto del 1906 ha ceduto il primato a Los Angeles. Il Financial District, però, rimane la sede di importanti società e banche, come la Banca d'America e la Wells Fargo, importante gruppo finanziario americano.



Qui, ecco, da queste parti, percepisco un brivido. Non è solo il vento freddo, non è solo l'ombra dei grattacieli. C'è qualcosa di disumano.





Per fortuna si arriva in fretta sulla costa, al Ferry building. Qui la gente più che prendere il traghetto va a mangiare e bere.









Proseguiamo poi la passeggiata lungo la costa, tra vento e sole (quello che mi brucerà di lì a poco il cranio con immane dolore e gonfiore alla Lurch degli Addams). Si respira un'aria piacevole e rilassata e si è passati in fretta da un paesaggio da metropoli futuristica a uno rivierasco.

sedute a forma di cirripedi (così recita la spiega)


il Bay Bridge, lungo più di 7km



Superiamo la zona dove ci si imbarca per Alcatraz, che purtroppo non potremo visitare perchè c'è il tutto esaurito fino ad agosto. Ci accontentiamo del modellino.



E giungiamo infine al Pier 39.





Alcatraz

Al Pier 39 ci sono i leoni marini, che io volevo assolutissimamente vedere. Sono meravigliosi e ripagano ogni aspettativa. Grassi, puzzoni e pelosetti, passano le giornate a crogiolarsi al sole e a rotolarsi sbadigliando. Sono la realizzazione del sogno recondito che vive ciascuno di noi nel profondo








Il giro si conclude al Fisherman's Wharf, dove convivono musei, trappole per turisti e chioschetti che vendono zucchero filato e frutti di mare





Non mancano nemmeno alcuni reperti della Seconda guerra mondiale. Roba piccola. Un sottomarino e una nave da guerra che scricchiolano a pelo d'acqua costringendo chi passa ad alzare lo sguardo.






Rientriamo infine verso l'hotel passando per il capolinea della linea elettrica delle cable cars



e per l'arcinota Lombard street.



Questo è il celeberrimo tratto di Russian Hill, composto da otto ripidi tornanti, istituito nel 1922è nato per la necessità di ridurre la pendenza di 27° (51%) della collina; è lungo 400m su una pavimentazione di mattoni rossi, ed è riservato solo per il transito delle vetture in discesa. Il limite di velocità è di 8 km/h (5 mph).
Senza tornanti, le pendenze risultano così. Follia! Speriamo che il cambio non ci dia problemi...





Si rientra in albergo. Montiamo le bici per assicurarci che sia tutto in ordine e così è, per fortuna. Scopriamo che negli scatoloni la polizia ha lasciato dei bigliettini in cui ammettono di aver aperto e rovistato. Buon per loro. Cena con Saikebon (e fornello acceso in camera per provare se funziona) e il sonno giunge rapido e pesante (salvo poi svanire tra le 3 e le 6 di notte, maledetto fuso!).

30/7

Oggi c'è la parata del Pride. Tutto il mese qui è dedicato ai diritti della comunità LGBTQ+ ma il grosso della manifestazione si svolge oggi. Tutti i membri di associazioni e gruppi attivi per i diritti di gay, lesbiche, trans, queer e compagnia cantante sfilano lungo Market street di fronte ad una eterogenea e coloratissima folla (oltre 100.000 persone lo scorso anno). Imperdibile: dobbiamo andarci! E' dal 1969 che in questa città si resiste e si lotta per la parità, abbiamo solo da imparare. Arriviamo di buon'ora per assicurarci un posto in prima fila lungo le transenne e si respira già aria di festa.





Dopo una breve attesa inizia la parata, aperta da centuari e centaure e centaur* che sono un gran spettacolo








Poi inizia la parata vera e propria. C'è davvero di tutto. Da gente esplosa in esagerazioni coreografiche come un gran carnevale di Rio a serissimi gruppi che sostengono candidati politici (di vari ordini, dal governatore al presidente) da sempre schierati con la comunità LGBTQ+.
Tutto si mescola e c'è che espone cartelli contro Trump, chi dice "Black lives matter" e chi "El pueblo, unido!". Chi vuole la polizia fuori dal pride e chi è pro immigrazione.


















Ci sono i gays ciechi, i disabili, gli anziani, quelli sposati da 30 anni e quelli che si travestono tanto o poco o tantissimo o troppo















E poi, cosa che mi ha molto stupito, ci sono le forze dell'ordine e le categorie professionali. Pompieri, veterani, poliziotti, sceriffi, medici, infermieri, giornalisti, che sfilano insieme uno dopo l'altro.


















E, ancora, altra cosa che mi ha colpita, sfilano le comunità etniche: cinesi, indiani, taiwanesi, indiani d'America, hawaiani... Insomma, ci sono davvero tutti! E' una festa bella davvero, grande, sentita e forte. In questo noi europei, e italiani in particolare, siamo indietro anni luce. Basti su tutti il gruppo di genitori, parenti e amici di gay e trans, che sfilavano orgogliosi e per mano. La folla che applaudiva e vociava era la ciliegina sulla torta: un grande abbraccio a chi osa metterci la faccia, per i diritti di tutti.







































Dopo qualche ora, prima di trasformarci in unicorni che vomitano arcobaleni, abbiamo deciso di lasciare il Pride e inforcare le bici (senza bagagli, per oggi) per visitare ancora un po' di San Fran e dintorni.
La primissima impressione è che qui gli automobilisti siano davvero rispettosi e beneducati: si fermano e lasciano ai ciclisti la precedenza anche quando non dovrebbero, rispettano limiti di velocità e distanze laterali. La seconda impressione è l'abbondanza di piste ciclabili, segnalate bene bene a prova di idiota e distribuite in tutti i quartieri e in tutte le vie. La terza impressione è che mannaggia le salite!

Comunque, prima tappa di rito: il Golden Gate. E' forse il simbolo della città questo ponte sospeso sempre immerso nella nebbia che sale dall'oceano ed esposto al vento che ne rende davvero difficile l'attraversamento. Fu pensato nel '17, iniziato nel '27 e finito nel '38, quando Roosvelt, con un pulsante, da Washington, diede il via al traffico dei primi veicoli.




Oltre alle cordie per le auto, un lato è riservato ai ciclisti, l'altro ai pedoni. Aggratis. Vento feroce e terribile e freddissimo a parte, è un'esperienza da fare, almeno una volta nella vita. Pedalare sospesi nel vuoto, sull'oceano che ruggisce, mentre gabbiani e simil-albatros (?) planano ad ali distese sulle correnti, alla stessa tua altezza. Profumo di salsedine e l'impressione di essere sull'albero di un galeone.





Il nostro obiettivo per la giornata era raggiungere prima Sausalito, subito a nord di San Francisco, oltre il Golden Gate e poi uno dei molti parchi dove si possono ammirare le imponenti sequoie, albero tipico della California.

Sausalito è una cittadina amena che, durante la Seconda guerra mondiale, contribuì con vigore alla costruzione di navi. Oggi è un luogo piacevole di villeggiatura e sport all'aperto, vista anche la quantità di bellissime e rilassanti piste ciclopedonali che corrono tra baie e paludi, tra case su palafitte e papere grandi, aironi e garzette






Con una piacevole pedalata si arriva all'Old Mill park, dove un tempo sorgeva una segheria che lavorava il legno delle sequoie. Oggi è un bosco in penombra dove gli eucalipti profumano l'aria come turiboli d'incenso e le sequoie di ergono dritte e alte a rubare il sole. Sembra il colonnato di una chiesa viva che brulica di linfa e corteccia, si sentono le foglie e le radici bisbigliare e tutto è sacro e pieni di dei, qui.









Con i polmoni pieni di questa aria buona e fragrante torniamo, sempre lungo le ciclabili, e ripercorriamo il Golden Gate.





Allunghiamo il giro fino al Golden Gate park per vedere i bisUnti, ma si riescono solo a intuire nelle loro casette dove si sono ritirati per la notte. Poi il rientro, travagliato causa problemi con le mappe, attraverso il parco e poi i quartieri di Haight-Ashbury (hippie dal '68) e Tenderloin. Dopo 70km, i primi nel nuovo mondo, possiamo finalmente preparare le borse, io languire causa scottatura al cranio e cenare con la roba recuperata dal bangla sotto casa: lasagne a dodici piani alla "m'avete provocato" e wurstel infilzati su spiedo ricoperti di pastella di mais. Prosit!


Domani si parte davvero, direzione Los Angeles. Seguiremo la Cabrillo Highway, la 1, che è panoramica e costeggia l'oceano, sempre puntando a sud. La strada chiama!

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