16/7
Kingman-Seligman
124km
Quella di oggi è stata una tappa di trasferimento in mezzo alla natura aperta e muta, tra valli spalancate e stretti corridoi di roccia dalle strane forme. Ed è stata anche la riprova di come possa esserci un deserto oltre il deserto. I 124km pedalati sono infatti così ripartiti: a 26km dalla partenza un distributore di benzina con fornitissimo negozio tuttivendolo e poi più nulla, nessun servizio, nessuna abitazione, niente di niente fino all'arrivo.
Aggiungiamo a questa immagine due elementi: il caldo, anche se meno feroce, e le salite. Siamo arrivati a 1750 metri di altezza, ridendo e scherzando.
E poi abbiamo forato, due volte. Una io e una Gigi. La colpa è dei fili di metallo che si staccano dai copertoni dei camion, lacerati e abbandonati a bordo strada a bizzeffe. Sono come aghi, nemmeno i nostri Marathon possono farci nulla.
"Ma in America non avrai problemi, trovi tutto!".
Sì, a 300km, e non è nemmeno detto. Abbiamo riparato le camere d'aria con le toppe e speriamo tengano, perchè non ne abbiamo più di riserva e di ciclisti, da queste parti, nemmeno l'ombra.
Ma vediamo di riavvolgere il filo della memoria e di partire dall'inizio.
Il motel dove abbiamo dormito a Kingman è bello ed economico e tutto quanto, però, mannaggia, è infestato di blattine. E non sarebbe nemmeno cosa grave, se dette blattine non avessero il cattivo vizio di camminarti addosso. Sui piedi mentre mangi o scrivi in ciabatte, sulle braccia e sulla testa mentre cerchi di dormire, sulle gambe quando fai pipì. Sono blattine moleste, benchè non mordano nè pungano. Si limitano a transitare.
Fatta colazione portate giù le bici (avevamo la stanza al secondo piano), ci mettiamo in sella dopo aver riempito le borracce di acqua e ghiaccio (ogni motel ha un distributore aggratis di cubetti, in cortile. Gli americano a-do-ra-no le cose on the rocks).
Abbiamo preso una decisione, nei giorni scorsi. Anche per oggi lasceremo la Route 66, che è troppo lunga, e taglieremo kilometri grazie alla I-40, lo stradone che finora abbiamo solo costeggiato. E' stata la freeway che ha portato la 66 al declino, quindi mi sento un po' in stile "camminavi fianco a fianco al tuo assassino", ma il tempo è tiranno e noi dobbiamo risparmiarne il più possibile. Abbiamo ancora molta strada da fare.
Kingman alle spalle, ci immettiamo in fretta sulla I-40, che, per i prossimi 120km, corre dritta sull'asse ovest-est e congiunge le uniche due città che sorgono da queste parti: Kingman, che è il nostro punto di partenza, e Seligman, che è la nostra meta.
Anzitutto puntiamo al distributore e area di sosta che sta a 26km dal motel, primo, ultimo e unico punto per fare rifornimento d'acqua per la lunga giornata in cui dovremo affrontare un centinaio di kappa in autonomia totale, noi, la strada, il sole e ciò che riusciamo a caricare sulle bici.
La stradona si rivela meno trafficata del previsto. Certo non mancano camioni enormi e pick-up giganti (qui non esiste il concetto di utilitaria), ma la corsia di emergenza, la cossiddetta shoulder, è ampia e sicura. Si pedala senza problemi, non fosse che è tutto un cimitero di copertoni di camion esplosi e sfilacciati. Fin dai primi metri capisco che il rischio foratura è altissimo, e le previsioni funeste, ahimè, si avvereranno tutte.
Il saliscendi morbido delle colline, verdi e gialle color estate, ci porta senza difficoltà alla suddetta area di sosta, dove poi è ben segnalato per quanto non ci sarà null'altro, se non l'orizzonte e la striscia di asfalto che lo ricuce e perfora come una freccia. Per altro il cartello è leggermente ingannevole: a nostre spese impareremo che non sono 90 ma 100 i km di vuoto spinto.
Trovo anche l'ennesima bandierina, che ovviamente entra subito di diritto nel mio personale tesoretto di cose regalate dalla strada. Perchè la strada prende e la strada regala, e si sta sempre in equilibrio tra ciò che si perde e ciò che si trova. E' un'alchimia precisa e rotonda, un cerchio che torna, che va, e ritorna ancora. Come le ruote della bicicletta, come certi paradisi della religione degli altri.
Scopro con breve ricerca trattarsi della bandiera della squadra di football americano degli Oakland Raiders. Chissà come è finita qui, perchè si è fatta trovare.
Alla stazione di servizio beviamo il bevibile (abbiamo in gola una sete inestinguibile che ci accompagna da giorni ed è ormai presenza costante di labbra riarse e lingua impastata). Poi acquistiamo la solita borsa da 10 litri di ghiaccio e inizia l'avventura di ficcare i cubetti uno a uno nelle borracce, nelle bottiglie e nella tanicotta che porto io avvolta amorevolmente nel telo sottotenda. Le borracce stanno nelle borse, al riparo dai raggi diretti del sole che bruciano tutto, e quella che sta fuori a portata di mano è avvolta in una salviettina bianca bagnata. Insomma, più di così non si può fare. E vi dirò, questa cura maniacale ci permetterà di avere acqua freschissima, addirittura con ancora i pezzi di ghiaccio, per l'intera giornata, dalle 10 del mattino alle 7 e mezza pm. Voto all'ingegneria idraulica-termica nella gestione dell'acqua: 10!
Un po' a malincuore, ma curiosi di vedere questa zona così disabitata e di affrontarla di petto, ripartiamo. Le salite si fanno più impegnative, mentre il paesaggio tradisce la vicinanza al Canyon. Qui le colline e i monti hanno profili insoliti, strani, che quasi sembrano scolpiti per rassomigliare ai paesaggi di Willy Coyote, ma più verdi.
Si sale intanto, la vegetazione si fa più rada, più ampio l'orizzonte dove corre lo sguardo a distinguere valli e colline. Davvero è bella questa strada, panoramica e non troppo faticosa, che raccoglie il cuore di roccia e foglie spinose di questa terra.
A nord il Grand Canyon, dove arriveremo dopodomani, a sud la foresta Prescott. Si respira una natura ancora sovrana, da queste parti, dove l'uomo osa giusto passare, senza troppo rumore. Lo dimostrano le distanze e i cieli immensi, i roccioni scoscesi e le zolle riarse.
Sono tornati anche i suoni, dopo il deserto: le cicale vibrano non di finissimi sistri d'argento, come direbbe Pascoli, ma di un suono elettrico d'alta tensione. E gli uccelli cantano e rifrullano tra i cespugli. Spiaccicati e secchi vediamo diverse puzzole e persino un istrice ben grande.
Agli spazi spalancati delle valli si oppongono i corridoio stretti tra i fianchi dei monti in cui scorre la strada come un fiume immobile. Sembra quasi che sgomiti, l'asfalto, per farsi largo tra una parete di roccia e l'altra, che pare vogliano richiudersi come una ferita che rimargina.
Ad ogni salita corrisponde eguale discesa, su queste montagne russe americane che non conoscono la pace piatta delle pianure, che non danno tregua. Per fortuna il vento è ora a favore, e ci spinge su su quasi con rabbia, come a dire "muovetevi, forza, che state aspettando? Perchè tardate, perchè andate così piano?".
Intorno la roccia è costellata di cespugli e alberelli tondi e duri di rami spinosi, contorti a forma di vento. Io che sono tripofobica ho sensazioni miste di attrazione e repulsione, ma in generale sembra che un puntinista con feroce horror vacui abbia riempito questa pietra arida di verde, per non lasciare troppa nudità alla vista.
Più si sale, però, più la roccia emerge, spoglia e liscia, con massi quasi rotondi che sembrano appoggiati lì in quella forma volutamente, come un castelli di sabbia di giganti bambini.
Qui l'ombra si lascia trovare, ed è un piacere potersi fermare più o meno dove si vuole, facendo solo attenzione alle spine dei cactus (su cui Gigi, puntualmente, riuscirà a sedersi. Seguirà estrazione di spine dal fondello)
Ristorati da acqua fresca e frutta secca, che quasi quasi ci starebbe bene un pisolino, torniamo in sella e, tanto per cambiare, la strada arrampica in salita continua.
In un attimo, però, si scollina e si scende piano in un vallone di strane formazioni rocciose, color ocra e rosso. Sono ammassi di roccioni tondi, sembrano torri crollate, edifici di un'altra epoca, un'Atlantide delle cime. E invece è solo la natura che ha preso questa strana forma, per modellarsi alle dita del tempo demiurgo.
Entriamo nella Contea di Yavapai, dove convivevano Apache, Coconino. Maricopa e Navajo. Di cui resta ben poco, si sa. Lo vedremo i giorni prossimi più da vicino, passando nelle cosiddette riserve.
Si sale, si riscende e il vallone successivo è ancora diverso. Qui la pietra nuda cede il passo a campi d'oro di erba secca che profuma di fieno, punteggiati di alberi tondi pettinati dal vento. Questo è un paesaggio che sa quasi di casa e torna il verde che fa sorridere il cuore.
Purtroppo questo pensiero è subito interrotto dalla nota, mesta sensazione di ruota sgonfia sotto al culo. Ho forato, ruota posteriore. Sbando e zoppico nella discesa che Gigi purtroppo ha già imboccato (ha lui le camere d'aria di scorta). Per fortuna il foro è piccolo e l'aria esce piano piano, anche se la strada, piuttosto sconnessa, richiede doti di guida non indifferenti. Arrivo in valle, recupero Gigi, e via a cambiare camera d'aria. Come immaginavo, la foratura è stata causata da un filino di metallo dei copertoni dei camion. Mannaggia a loro e a chi molla questi rifiuti del menga a bordo strada. Lercioni.
Nel sole che cala (qui in Arizona, senza ora solare/legale le giornate sono assai brevi), stanchi ma soddisfatti, arriviamo finalmente a Seligman e riprendiamo anche la Route 66.
Non pare vero: civiltà, di nuovo! Purtroppo anche Gigi ha forato, ma riesce a raggiungere il motel in cui abbiamo deciso di fermarci (è un suo regalo, il motel, al posto del campeggio. Grazie!).
La città è stata fondata nel 1895, successivamente al completamento della ferrovia di cui diventò un importante scalo noto come "Prescott Junction".
Negli anni Venti, Seligman fu raggiunta anche dalla 66 che divenne la principale fonte di guadagno per la città, che ancora oggi si definisce il cuore di questa strada perchè ne ha voluto mantenere vivo il sapore retrò.
A partire dagli anni Settanta, a seguito dell'inizio della costruzione dell'Interstate 40, Seligman iniziò ad essere tagliata fuori; infine, ad aggravare la situazione, nel 1985 la Santa Fe Railroad cessò la propria attività in loco.
Il glorioso passato di Seligman è ancora evidente sulla strada principale dove sono sopravvissuti motel come l'Aztec (1955), il famoso Snow Cap (1953), costruito con 4 assi di legno di scarto ma ancora famoso, 50 anni dopo, per il buon cibo e la simpatia del proprietario, detto il clown della 66; non mancano nemmeno café come il Copper Cart (1952) ed il 66 Road Kill (1940) e numerosi negozi di articoli da regalo sul tema della Route 66, come The Rusty Bolt (1955).
Fonte di ispirazione del film Disney Cars - Motori ruggenti, vanta un quantitativo esagerato di vecchi rottamo e auto d'epoca, piazzate in ogni dove, nei cortili e davanti alle case e ai negozi.
Ci sono edifici anche più antichi. Il Black cat bar è del '35, il garage Donovan's 1 del '36, il Miller's dry cleaner del 1933 e l'ufficio postale addirittura del 1903, come la grocery e il general store. Più indietro ancora, un saloon e una casa in legno del 1890. Sono gli edifici più antichi visti finora e, per gli americani, questa città è un museo a cielo aperto.
Noi prendiamo posto in motel, andiamo a fare una ricca spesa per la cena (abbiamo sempre frigo e microonde in camera) e poi cambiamo la camera d'aria di Gigi, rattoppando quella forata, l'unica rimasta. Sembra che in zona non ci siano negozi di bici... Domani la giornata inizierà con la ricerca di tubes di ricambio, speriamo bene!
La luna piena sembra far ben sperare. Dobbiamo arrivare al Grand Canyon sulle nostre ruote, non saranno tre forature a fermarci!
17/7
Seligman-Williams
88km
Fermarci non ci hanno fermato, ma altre tre forature anche oggi ci hanno rallentati assai. Per capirci, ho tirato giù più di un calendario: quello cattolico, quello ortodosso, in memoria della Russia, quello protestante, luterano, delle chiese riformate e delle confessioni nuove e strane di cui si vedono i templi qui in America. Seriamente, dai, 6 forature (4 mie e 2 di Gigi) in due mezze giornate non sono cosa. Per altro tutte provocate dai minuscoli ma durissimi filini di metallo dei copertoni dei camion, che si infilzano come graffette e sono quasi invisibili; fanno buchi minuscoli e ingannevoli, difficili da trovare, da individuare e riparare. Difficili. Gigi invece si è procurato uno squarcio anche nel copertone causa chiodo arrugginito di 10cm. Insomma, il bordo strada è pieno di monnezza pericolosa, roba da scrivere a Trump una lettera di lamentela!
Comunque, stamattina la prima cosa che abbiamo fatto dopo colazione è stata tornare al general store di Seligman, a 800m dal motel, per cercare delle camere d'aria. La mia rattoppatura di ieri notte si è stamattina rivelata una ciofeca che non tiene un caso, forse la colla, già aperta, si è ammalorata con il caldo, forse sono una pippa io.
Se a un primo sguardo il General store aveva di tutto tranne che tubes, chiedendo al commesso due camere d'aria son saltate fuori. 26 x 1.5-2. Benedetto il giorno in cui ho insistito tanto per avere cerchi da 26, e non da 27.5 come tutti volevano. "Eh ma tanto in Usa trovi di tutto!". Sì, le balle di Fra Giulio anche. Eravamo persino giunti a pensare di farcele spedire con Amazon al campeggio, vedete voi.
Gigi abbraccia il commesso ed usciamo con il ricco bottino. Scopriremo solo in un secondo momento che il suddetto ricco bottino ha la valvolona grossa, la Schroder, e non la Presta, sottile e lunga, che i nostri cerchioni richiedono. Lo scopriremo poi, e compreremo una lima, ma lo spiego dopo tutto sto trapello di angeli in colonna con i santi e la Madonna.
Ingenuamente felici, riattraversiamo, per la quarta volta, ahinoi, Seligman, per scoprirne le delizie anche nella luce del mattino.
i locali anni '50 e le auto d'epoca
tutto sembra sorriderci, ma è un'illusione. Sarà una giornata infinita e teribbbbile. Con quattro b.
Fatto sta che usciamo dal cuore della 66 e rimbocchiamo la route, che corre parallela, a volte sovrapposta, alla temibile I-40, che già ieri ci ha puniti con le subdole forature.
La luce è un miele dolce, e morbido sui fianchi delle colline nella prima luce del mattino. Tutto sa di estate. La temperatura è alta ma accettabile, azzurro e verde portano la pace agli occhi e tolgono un po' di arsura dal cuore.
Queste praterie d'altopiano (oggi ci muoviamo tra i 1700 e i 2200 metri di quota) brulicano di vita, finalmente. Ci sono gli sciuridi, che non sono delle specie di signori in milanese ma degli scoiattoli terricoli, i cani della prateria, che corrono velocissimi tra gli arbusti, color ocra sulla terra che li nascondo. Ci sono merli magri con i pantaloni e rapaci grandi e piccoli che sorvegliano l'erba alta.
Purtroppo ci sono anche numerosi cervi morti, investiti e lasciati a bordo strada. Qui purtroppo questi animali non hanno vita facile: è zona di caccia e turisti da ogni dove vengono qui per sparare a questi maestosi animali, signori dei boschi, così nobili da essere uno dei miei spiriti guida. Qui prende forma nella mia mente come, anche da queste parti, dove tutti millantano grande amore e rispetto per la natura, l'uomo per lo più si limiti a uccidere, inquinare, rompere, deturpare e rovinare. Altro che amore per la natura. Lo sanno bene i nativi che cosa è successo.
Le salite, per lo più morbide, si fanno via via più impegnative e, ad aggravare la situazione, si alza un fortissimo vento laterale che sposta la bici di diversi metri. Guidare diventa difficile e bisogna stare tutti tesi e contratti sul manubrio, anche perchè la bici pesa come una croce e non è facile domarla e tenerla lontana dalla carreggiata, dove corrono i tir, o dai burroni.
Dopo 40km estenuanti arriviamo finalmente al primo paese di oggi, Ash Fork. Quella odierna è una tappa più umana e meno deserta per fortuna, e ne approfittiamo per una lunga sosta alla stazione di servizio del paesino che si è autodefinito "capitale mondiale delle lastre di pietra". Eh va be'...
Come tutte le città di quest'area, Ash Fork è stata fondata negli anni '80 dell'Ottocento per la linea ferroviaria Santa Fe. Poi è cresciuta, grazie alla Route 66, con tanto di negozi, ristoranti e motel. Nel frattempo due incendi e poi il declino della 66 hanno portato il paese a ciò che oggi, una manciata di case con quattro servizi in croce.
La pompa di benzina ha però un negozio interessante di porcherie a metà tra il kitsch cowboy (qui la gente usa vestirsi davvero con jeans, stivali di pelle con staffe, camicia colorata e cappello a tesa larga) e lo spirito dei nativi. E uno sconfinato amore per la caccia e gli animali impagliati.
metti la carta di credito e il medicine man ti stampa una profezia su scontrino |
molti degli avventori del negozio portano una pistola nella fondina, alla cintura |
Dopo una lunga sosta, ripartiamo. Ci aspettano ancora molti kilometri, vogliamo avvicinarci al Grand Canyon il più possibile, per avere domani tempo per visitarlo.
Io purtroppo non sto affatto bene: ho bevuto un caffettone immenso e stradolce che se ne torna a spruzzi sulla strada, rendendomi debole e mencia sulle salite controvento.
Però il paesaggio inizia a cambiare. Stiamo entrando nella Kaibab national forest. Sono 650.000 ettari di verde verdissimo che custodiscono migliaia di specie vegetali e animali, tra cui alci, orsi neri, coguari, tacchini selvatici e i soliti coyote e serpenti a sonagli. Almeno, quelli sopravvissuti all'uomo.
Il panorama intorno vira dall'oro delle spighe e dell'erba secca al verde intenso e antico degli alberi. Le colline diventano montagne vere e proprie. Radici profonde, corteccia e linfa scura sussurrano al vento la lingua di Dodona, dei sacerdoti scalzi che leggevano gli esametri divini nelle foglie e sapevano interpretarne la danza e le venature come linee di una mano. Anch'io conosco un poco questa lingua, e sorrido.
Signori della foresta, un oceano mare di verde, a destra e a sinistra, fino a dove lo sguardo riesce a fuggire, signori del bosco, custodi antichi del tempo, della terra profonde radici e del sole che porta la vita. Signori di Kaibab, vi portiamo il nostro omaggio, una goccia di sudore d'argento per gli aghi dei pini, un palpito puro per i nodi dei rami, un respiro profondo, un battito di ciglia per l'erba sottile ed il muschio d'ombra.
Purtroppo la meraviglia e la deferenza non bastano a farci passare indenni anche questi 30km. Io ho forato di nuovo, il copertone posteriore è floscio e triste e si appiccica all'asfalto mezzo sciolto, raccogliendone i bigolini di catrame.E' qui che si fa evidente il problema delle valvole. Qui vendono solo camere d'aria con la Schrader, che in effetti son più comode: sono standard anche per auto e moto e le si può gonfiare ai compressori dei benzinai. Però non passano per il buchino dei nostri cerchioni, stretto come un altro orifizio, in punta del quale pedaliamo sapendo di non avere ricambi utilizzabili. Ho avuto lo stesso maledetto problema in Russia. Là, fuori Mosca, avevo allargato il buco del cerchio con il coltello, mettendoci una notte intera. Qui pensiamo: o troviamo delle camere d'aria con la Presta, o compriamo una lima tonda per slargare bene il buso, e ciaone.
Arriviamo a Williams, ultimo paese civile prima di molto wild intorno al Grand Canyon, che è qui a nemmeno 100km ma sembra lontanissimo con le scarpe rotte delle nostri bici.
Ci mettiamo in testa di non andar via dalla città se non con una soluzione in mano, o meglio, alle ruote.
Williams, fondata nel 1881 sempre sulla ferrovia, si è arricchita con i treni e con la 66, ma soprattutto grazie alla vicinanza al Grand Canyon, che da sempre attira masse di turisti da tutto il mondo. Il nome è in memoria di William Sherley Old Bill Williams, cacciatore, uomo di montagna e mercante di carne e pelli che visse qui a cavallo tra 1700 e 1800.
Iniziamo a girare per il centro passando ogni negozio, supermercato e bugigattolo, in cerca di tubes. Nessuno sembra averne. Sugli scaffali c'è tutto, tutte le puttanate e le schifezze del globo, ogni cianfrusaglia è confluita qui, in questo mare di consumismo, plastica e merendine, da ogni fiume d'industria. Tutto e di tutto e di più. Ma non camere d'aria.
In centro, mentre stiamo entrando in un'armeria che millanta di vendere anche articoli sportivi (caccia e pesca, sgrunt) veniamo raggiungo da un cowboy vestito da cowboy di carnevale, gentilissimo, super sorridente e con due bibitoni in mano. Ci fa mille domande, entusiasta (anche lui è stato un supertramp nomade) e ci invita in questo open space dove si fa musica country, si griglia, si beve birra a galloni e si fanno discorsi da veri uomini, si parla di mucche e di f*ga. Ah, qui l'esclamazione più frequente è "holy cow!".
Il brav'uomo comprende il nostro problema solo in un secondo momento, e si dà da fare in giro a chiedere nei negozi. Intanto esce anche il proprietario dell'armia, gayssimo, sorriso smagliante e paillettes, che fa una telefonata ad un altro negozio, mentre si scusa di non aver camere d'aria. Dice "Ci sono qui due vecchie volpi in bici caro, cercano tubes, nei hai mica?". E sì, la risposta è positiva. Dopo tremila riconoscenti ringraziamenti andiamo in questa sorta di Brico e, dopo varie ricerche, troviamo tutto il necessario.
Ovvero: altre camere d'aria, tutte con valvolona Schrader, e una lima tonda assai bella. Siccome è già tardi, decidiamo di non andare al campeggio previsto, ma a uno più vicino, per riparare lì con calma la mia bici, limare il cerchio eccetera.
Pedaliamo nel verde degli alberi, la città alle spalle e il Grand Canyon davanti. Lo raggiungeremo domani con una pedalata di 80km. Speravamo meno, ma tant'è. Dobbiamo prima riparare i nostri cavallini, il mio soprattutto che deve essere rigonfiato ogni 5km.
Purtroppo la strada non ci concede nemmeno di raggiungere il campeggio vicino. Io buco peggio di prima, e la ruota va a terra. Gigi prende un chiodazzo tanto che gli rovina pure il copertone. Bisogna fare subito, lì sulla strada, il lavoro di lima. Si ferma anche un signore gentile, che si offre di darci un passaggio con il suo pick up enorme. Lui però va a Williams, da dove veniamo noi, e ci pare brutto prendere una tale scorciatoia!
Per fortuna va tutto per il meglio (salvo scoprire, qualche ora dopo, in campeggio, di aver preso altri minuscoli fili di metallo che speriamo non abbiano raggiunto la camera d'aria. E' un calvario!).
Pedaliamo sfatti, lerci di grasso e polvere, gli ultimi kilometri, in una natura bellissima e buona, per quanto indifferente alla nostra pena. E' giusto così. Cosa siamo noi? Formichine buffe, non di più.
Il Koa di Williams, che è fuori città e a un soffio dal Grand Canyon, ci accoglie. Qui prendiamo una bella piazzola dotata di tutto, dal bbq al tavolo al fire pit.
Qui ri-ripariamo tutto, la mia ruota posteriore e quella di Gigi. Ormai siamo meccanici provetti e facciamo tutto in fretta, compreso lo slargamento buso con lima.
Gigi riesce anche a rattoppare una camera (ah, oggi abbiamo comprato anche toppe nuove e colla nuova), e sembra che tutto tenga. Insomma, oggi abbiamo comprato 5 camere d'aria e ce ne restano 3 più una rammendata. Poco dopo, fatta la doccia e montata la tenda, andiamo dal benzinaio vicino a gonfiare le gomme per bene (50 centesimi di dollaro per 3 minuti di aria compressa, con valvola Schrader si può fare). Mentre gonfiamo la mia vedo una graffettina infilzata nel copertone che era sfuggita al controllo... Speriamo bene! Anche Gigi, nel transito tenda-benzinaio, ha raccattato una graffa e una spina. Ora i Marathon devono fare il loro mestiere però, noi saremmo anche stufi!
Ceniamo come signori nella sala comune del campeggio, che è dotata, oltre che di lavanderia, anche di microonde, tavoli, prese per la corrente e giochi vari, tra cui una vecchia console con uno sparatutto di indiani e cowboy. Par giusto.
Io, oltre ai noodles e alla frutta, provo anche il cetriolone piccante, "sassy", che vedo spesso nei negozi. Mangiandolo neh, non pensate male!
Domani, piacendo al dio delle forature e dei buchi, di chiulo e nelle ruote, arriviamo finalmente al Grand Canyon, che sta 80km a nord di qui. Siamo a 2000 metri e la sera porta aria fresca, da indossar la felpa. In cielo brillano stelle di ghiaccio e d'argento che si vedono qui più luminose che mai. Intorno la foresta bisbiglia e le lepri si inseguono di cespuglio in cespuglio qui nel campeggio. Oh Arizona, sii buona con noi!
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