mercoledì 10 luglio 2019

8-10. Los Angeles. Dalle stelle di Hollywood alle tendopoli dei tossici. Il ventre molle di una società che collassa, esplode, splende e fa luce su tutto



7/7
Oxnard-Los Angeles
121km

Oggi è il gran giorno: stasera si arriva alla città degli angeli. La città che trema, la città che splende, la città immensa. Pedaliamo da una settimana e abbiamo bisogno di una sosta, dopo quasi 900km (oggi compreso). I nostri corpi, le nostre fibre si stanno abituando alla fatica ma serve una pausa perchè la fatica diventi allenamento. E poi dobbiamo lavare i vestiti e noi stessi, per bene!

La sveglia è all'alba, come sempre, nel frullare di ali ben noto a chi ha dormito almeno una volta tra gli alberi (o tra i cespugli, come qui, dove il vento è teso sempre e l'aria salata).
Mi son scordata di dire, i giorni scorsi, che la strada mi ha già regalato ben due bandiere, perse da qualche auto in corsa e rimaste distese in attesa paziente. Una statunitense, l'altra messicana. Mi capita spesso nei viaggi in bici di trovare bandiere e bandierine, soprattutto dove, come qui, c'è un patriottismo ostentato e onnipresente, che si manifesta nei simboli di facile lettura. Per me è un fatto degno di nota: è un conquistare le insegne, un afferrare il paese che sto attraversando, farlo mio, appropriarmene in un certo senso.




Leviamo le tende e salutiamo il McGrath e il suo fiume, avvolti nel grigio freddo delle mattine d'oceano. Stanotte le formiche non ci hanno assaltati come ieri, ma un gabbiano in compenso, un gabbiano enorme, un tacchino bianco e grigio, ha tentato di portarci via un intero pacchetto di wafer, la nostra colazione. Ha rischiato di finire arrosto.



Abbiamo deciso di stare sulla costa e seguire di nuovo la 1 per entrare in Los Angeles, così da evitare il traffico degli stradoni che corrono nella valle interna e goderci il panorama. Questo implica però discreti saliscendi, qualche km in più e il vento affilato che sa di mare.
Attraversiamo il golfo di Oxnard e la spiaggia di Channel Islands, poi Port Hueneme.



Queste 8 isole che sono un parco naturale incontaminato stile Eden erano abitate dalle tribù dei chimash, ma all'inizio del XIX secolo i militari spagnoli costrinsero gli indigeni a trasferirsi nelle missioni cattoliche di terraferma; poi i rancheros, messicani prima e americani poi, presero possesso dell'arcipelago, che, nel XX secolo diventò di proprietà dell'esercito statunitense, fino a che, tra gli anni '70 e '80, furono avviati progetti a tutela delle oltre 145 specie animali e vegetali (tra cui balene e delfini). Insomma, paradisi perduti e parzialmente ritrovati.

Passiamo anche da Point Mugu, dove campeggiano simboli di pace e fratellanza tra i popoli.










Qui ha avuto sede una Nas (naval air station) dal 1942 al 2000. Sono qui conservati esempi di missili, di aria e di acqua, che furono usati nella II Guerra mondiale, e testati e tenuti ben pronti durante la Guerra fredda.
Mi sembra di essere tornata in Russia, dove ogni città fa bella mostra delle armi che aveva, ha o potrebbe ancora avere, si sa mai. Cambia la metà del mondo ma resta l'ostentazione di forza, la tacita affermazione di una presunta supremazia fatta di violenza e minaccia.

Proseguiamo, meglio la roccia e l'acqua, meglio il vento che porta silenzio denso di sale.
La strada corre lungo lungo la costa, in un susseguirsi di canyon e spiagge, riserve marine e scogli che resistono alle onde impetuose.








Il paesaggio quasi del tutto intatto cede il passo pian piano alla città, di nuovo. E' Malibu.
La città dei vip, famosa per le sue spiagge afose e per le mega ville delle star di Hollywood.
Noi veniamo accolti da un grigio umido e freddo, ma tant'è.





Malibù comprendeva una parte del territorio dei Chumash. Al tempo venne chiamata "Humaliwo" o "l'onda scroscia rumorosamente". Nel 1542, l'esploratore spagnolo Juan Cabrillo sbarcò nella Laguna di Malibù, nel cuore delle insenature della costa del Pacifico, con l'intento di rinfrescarsi nelle fresche acque. La presenza spagnola ritornò in California grazie alle missioni cristiane e l'area cittadina divenne parte di un'ampia concessione territoriale nel 1802. Nel 1891 questa enorme area rimase intatta agli affari economici di Frederick Hastings Rindge, che, insieme alla moglie Rhoda May Rindge, protesse la sua privacy assumendo guardie per evitare coloro che attraversavano i confini e combattendo un'aspra lotta giudiziaria per prevenire la costruzione di una linea ferroviaria. C'erano ancora poche strade prima del 1929, quando lo Stato statunitense vinse un'altra causa e venne costruita la cosiddetta Pacific Coast Highway. Quindi May Rindge fu costretta a distribuire le sue proprietà e cominciò a vendere e affittare terreni. La casa dei Rindge, conosciuta con il nome di Adamson House, fa oggi parte del Malibu Creek State Park ed è situata tra la Laguna di Malibù e Surfrider Beach, nei pressi del molo che fu originariamente costruito per il panfilo della famiglia. La Malibu Colony fu una delle prime aree ad essere occupata, e si trova nella sponda opposta alla laguna.



Indubbiamente ci sono scorci, nelle strade che si arrampicano sulle colline e poi si gettano alle spiagge, che davvero giustificano la notorietà del luogo. Tuttavia i nostri scorci liguri o sardi nulla hanno da invidiare, se non la vicinanza a LA. Malibù vive di luce riflessa. A quanto pare i vips vengono qui per trovare tregua dalla frenesia urbana di Los Angeles e gustarsi un drink in santa pace nella loro quinta villa a questo scopo costruita.
Non mancano, in effetti, macchinoni di lusso (Ferrari, Corvette, Lamborghini ecc) che sfrecciano senza alcun rispetto dei limiti di velocità e del buon senso. Famosi o no, questi sono i ricchi, ma i ricchi ricchi, quelli dell'1%, quelli che "sono circondati" dalla gente normale eppure possiedono tutto. Il 99% in mano all'1%.

avviso ai paparazzi, non graditi in questi locali

Malibù è una città tutta costiera, lunga lunga e stretta, che non finisce mai. Davanti alla Pepperdine University incontriamo anche questo serpone, tutt'altro che morto, a differenza degli altri. Un metro e passa di tubo zigrinato strisciante che un po' impressione fa, benchè probabilmente sia del tutto innocuo. Sembra che abbia cambiato idea riguardo all'attraversare la strada: "Fanculo vai, ci vado domani a lezione!".



Ogni conca di Malibù ha le sue ville e le sue case di lusso, che sembrano persino mezzo abbandonate e un po' spettrali nell'atmosfera grigia che le avvolge. E' questo uno degli aspetti meno attesi della bella, soleggiata e sempre in costume da bagno California.



Finalmente anche la città finisce e raggiungiamo Pacific Palisades, l'elegante quartiere residenziale incastonato tra le Santa Monica mountains e il Pacifico. E' la porta d'accesso alle spiagge di Santa Monica e poi Venice, è dove tutto comincia. Passiamo accanto alla Villa Getty, che è in ristrutturazione; è uno scrigno di antichità greche e romane che tanta strada han fatto per arrivare fino a qui.


Improvvisamente il cielo color latte e la bruma salmastra si sciolgono e una luce calda di sole estivo allaga l'aria. Qui è luglio, fresco e ventilato, ma luglio. Possibile che questi ricchi si siano tenuti pure l'esclusiva sul bel tempo?
Ai nostri occhi compaiono tutte le sfumature dell'azzurro dell'acqua e del cielo, graffiato da striscioni pubblicitari portati in giro da aerei.





Poi arrivano le spiagge, di sabbia dorata, bellissime, da film, proprio come uno se le immagina dopo tante serie tv anni '90.


La pista ciclabile si sdoppia. Una segue la strada, l'altra scende sulla spiaggia. Seguiamo questa, in un'atmosfera del tutto rilassata e morbida tra gente che si allena nella corsa, famiglie a spasso in bici e grupponi di ragazzi belli, abbronzati, in forma e atletici che giocano a beach volley sui numerosissimi campi che costellano queste immense strisce di sabbia.








Non mancano nemmeno ville e case particolari, con un gusto architettonico estroso, che si affacciano direttamente sulla spiaggia.




Io sto cercando una cosa in particolare.
Sto cercando il cartello che indica la fine della Route 66, la famosissima strada che parte da Chicago e finisce proprio qui, a Santa Monica. Raggiungiamo l'affollatissimo pier (ne riparlerò quando lo visiteremo a piedi con calma)




e sgomitando tra masse di locals e turisti di ogni genere, dal musicista coreano alle ragazze cinesi che piangono al microfono chiedendo la firma di una petizione contro lo smercio d'organi nella loro patria



tra suore filippine che portano un pasto ai senzatetto (molti) e un hippy che vende (regala a 10 dollari) libri sulla meditazione buddhista



finalmente lo troviamo, dopo aver chiesto anche ad alcuni poliziotti che smistano il traffico pedonale agli affollatissimi incroci.


Qui ci sta una foto di rito, poichè percorreremo un buon tratto della 66, da qui fino al Gran Canyon, tra California intera dei deserti ed Arizona.
A farci la foto sono padre e figlio di Saronno, mentre un'altra famiglia di milanesi si stupisce di quanto sia piccolo il mondo. In effetti.


Siamo arrivati a LA, ma la città è immensa, sconfinata, disumana nelle distanze. Sicchè per raggiungere il nostro appartamento, che pure non è in centro, ammesso che una tale metropoli abbia un solo centro, dobbiamo pedalare ancora 30km. Le strade sono immensi boulevard a 4 corsie, con ciclabile sempre e poca gente in giro, appena ci si allontana dalle spiagge. C'è comunque di tutto: harleysti, punk, hippy, ricconi, barboni, palestrati, neri, latini, bianchi, asiatici, gay, grandi obesi... Sui marciapiedi sfila un'umanità composita e diversa. Capisco bene ora perchè in Bojack Horseman i personaggi appartengono addirittura a specie animali diverse. E' un modo per rappresentare questo mosaico amalgamato ma nemmeno troppo di varia umanità.


Raggiungendo l'appartamento, che è nel quartiere messicano Tra Mid e South Los Angeles, passiamo davanti al Memorial Coliseum, un immenso complesso di stadi e impianti sportivi che fanno alzare lo sguardo e sembrano templi.
Inaugurato nel 1923, fu l'impianto che ospitò due edizioni dei Giochi olimpici, nel 1932 e nel 1984. Per la sua durata e il suo colore è chiamato The Grand Old Lady o anche The Greatest Stadium in the World dagli abitanti di Los Angeles. Che non sono megalomani!




Arriviamo dunque all'appartamento e ci accoglie Mario, baffoni neri e pelle olivastra. Ci dà le chiavi e finalmente possiamo dire di essere arrivati davvero a LA. Fuori c'è il delirio: urla, feste in strada e un quantitativo di fuochi artificiali e botti da far impallidire il capodanno napoletano. Perchè? Perchè la squadra messicana di calcio ha battuto 1 a 0 gli avversari statunitensi nella Golden cup America. E quindi c'è una festosa guerriglia urbana senza violenza.

8/7

Due giorni da turisti a Los Angeles, questo ci siamo regalati dopo la prima settimana in sella. Parlo al passato, dal futuro, a seguito della visita di questa città assurda e pazzesca, che sconvolge ed estranea, ingloba, ammalia e respinge.
Parlo al passato, interrompendo la linea narrativa in cui fabula e intreccio coincidono, perchè devo fare due considerazioni generali e complessive, una somma di quanto visto in questi due giorni.

Prima cosa: Los Angeles è immensa. Sconfinata. Spaventosamente enorme, impossibile da afferrare. Per capirci: ci siamo mossi con i mezzi (bus, metro underground e di superficie) perchè i luoghi d'interesse, in bici, distavano troppo. Parliamo di 20km a botta, circa, tra una cosa e l'altra. E pure con i mezzi, che sono relativamente poco costosi (7 dollari il pass giornaliero), si parla di un'ora mezza ma anche due ore tra quartiere e quartiere. E poi si cammina tanto, ma tanto tanto.
Per noi europei abituati a spazi piccoli e circoscritti questa prima faccenda è un bel grattacapo e sembra di essere sempre lontani da tutto.

Seconda cosa: qui le contraddizioni della società a stelle e strisce emergono con dolorosa prepotenza. Si passa dal più sfrenato e vigliacco lusso alla più nera miseria. In ogni quartiere, in ogni punto della città convivono senzatetto che frugano nei bidoni della monnezza per recuperare qualche crosta ammuffita e ville o spiagge dove la ricchezza impera.
Ci sono quartieri dove prevale un aspetto e quartieri dove prevale l'altro, ma in media paradiso e inferno si sfiorano di continuo e si compenetrano e contaminano.
Los Angeles è un grasso ventre esploso di lucine e brillocchi, nelle cui pieghe vivono, costretti come parassiti, esseri umani di ogni colore e condizione, "tra il vomito dei respinti" e ben poche gocce di splendore e di umanità. Qui si vede la ferocia del sistema statunitense, l'inciviltà, la disumanità. E tutto è condito da una presenza insistente di chiese, spesso dentro a container o prefabbricati, dove la gente canta, balla, si offre cibo agli indigenti e cure ai neonati e alle madri sole. Perchè qui, storicamente, si è preferito costruire chiese che dicano "sopporta! Gli ultimi saranno primi, in un'altra vita!" piuttosto che lasciare libere idee che parlassero di uguaglianza anche in questa vita qui, che, per quanto ne sappiamo, potrebbe anche essere l'unica. E non datemi della comunista o della marxista. E' un dato di fatto.
Dunque questo è quanto ho appreso di LA, in termini generali. Ora torno a raccontare in ordine cronologico le cose per benino. E scusate lo sfogo, ma dal quartiere messicano dove siamo ho visto molte cose che voi umani...

Dunque, primo giorno, prima tappa: la lavanderia a gettoni. Nei quartieri poveri ce ne sono una ogni blocco e sono enormi e super comode.



Mentre attendiamo che i nostri straccetti vengano lavati e asciugati dalle potenti macchine che muovono l'economia Usa, facciamo due passi nel quartiere, tra negozietti che vendono porcherie di ogni tipo, homeless e grandi vialoni piuttosto trafficati. La percentuale di latinos è tale da far sembrare tutto un'estensione del Messico, come fu davvero. Tutti sono piccoli, tarchiati e baffuti, uomini e donne. Si sente parlare solo in spagnolo e la gran parte delle insegne e dei cartelli sono in spagnolo.





Facciamo colazione on the go. Una signora ci regala anche due merendine, dopo aver scoperto che siamo italiani. Io vado con il rinforzino: una piccola barretta grande due volte la mia mano.


Fatto il bucato torniamo in appartamento


e poi prendiamo il primo dei molti bus per raggiungere Hollywood e la famosa walk of fame, che non può che essere la prima tappa del buon turista a Los Angeles.
Nel trasferimento non posso fare a meno di notare, all'ombra dei palazzoni muti, homeless e tende, ubriachi, tossici e umanità varia che si trascina per le strade.






Ma dura poco. Il tempo di qualche fermata e ci si trova catapultati nella via forse più famosa della città. Qui, tra le famose stelle rosa con i nomi delle celebrità della musica, della tv, del cinema e della radio, folle di turisti si riversano ogni giorno.





Ne approfittano personaggi vestiti da laqualunque, che chiedono qualche spiccio in cambio di una foto.


Colpisce il mega centro commerciale Hollywod & Highland, con 65 negozi, 26 ristoranti, 12 piste da bowling, 6 cinema, 2 locali notturni e un albergo. Il cortile è una riproduzione superkitsch del set babilonese delle riprese di Intolerance di Griffith (1916). Accanto sorge il Kodak theatre, quello degli Oscar.









Poco oltre si trova il Grauman's chinese theatre, palazzo del 1927 in stile orientale dove vengono proiettati tuttora film di ogni genere. Davanti sono impresse nel cemento le impronte e le firme dei vipZ del grande schermo.






























Tutt'intorno, come si vede dalle foto, è un pullulare di ogni genere di pirlata. Gente in costume, venditori di roba, gente che compra, gente che fotografa, gente che fa cose. E non mancano i musei inutili








e persino la sede di Scientology



Nel delirio totale anche noi siamo presi da frenesie consumistiche compulsive e Gigi decide persino, a dieci anni dall'ultima volta, di pranzare al McDonald's, in carenza di proteine e carnazza.










Dopo un tale bagno di folla e puttanate, che mi fanno decidere seduta stante di NON andare a visitare l'indomani alcun Studios, perchè va bene il rincoglionimento, ma non troppo, ci spostiamo in un quartiere più tranquillo, a Mid-City. Qui si trovano il Los Angeles County Museum of art e l'Automotive museum, entrambi affascinanti per le architetture futuristiche.





Immancabile la sosta all'installazione Urban Light, di cui vi lascio la spiega originale perchè sia mai che una tale opera d'ingegno venga sottovalutata.





Quello che interessa a me, più che altro, è la LaBrea tar pit, una pozza di petrolio che ribolle a cielo aperto ed ha risucchiato, nei millenni, sventurati animali di ogni epoca, i cui resti sono raccolti nell'adiacente museo. Pare che nel quartiere, anche di recente, siano spariti cani e gatti... I curatori del museo non ne sanno nulla!










Nel parco accanto alla pozza c'è anche un'installazione colorata e labirintica che attira la mia attenzione. Contiene una "love letter to LA", cosa che dà abbastanza la misura dell'orgoglio dei locals.









Vista anche questa fettina di città, ci spostiamo, attraverso Beverly Hills e il quartiere super vip e super in, verso il Getty center. Purtroppo è chiuso, come ogni lunedì. Toccherà tornarci.



Ormai la giornata è quasi conclusa e, dopo un bus, un treno e un altro bus siamo a soli 5km dalla casetta. Camminando verso l'appartamento passiamo di nuovo davanti al Coliseum e agli stadi, ma pure davanti al museo della scienza



alle tende e roulotte di alcuni homeless



e alle ultime luci del crepuscolo di questa città di contraddizioni.


Rientriamo in camera e le bici sono lì che riposano, come cavallini mansueti.


Ceniamo, finalmente con insalatone e tante verdure e frutta a volontà, comprate al vicino 7-eleven. Non avete idea di quanto manchi il cibo sano dopo giorni di merendine, salatini e schifezze varie. Che costano la metà della metà del junk food, e vedrai che i più poveri sono pure i più devastati da obesità e malattie connesse!


La giornata si chiude con questo: un'edizione (sottratta ad una biblioteca) di 1984 di Orwell. E' l'unico libro presente nell'appartamento. Sarà un segno?



9/10

Il secondo giorno a LA è dedicato in primis alle spiagge. Per arrivare a Venice beach occorre un'ora e mezza di autobus, passando attraverso vere e proprie baraccopoli incastrate tra una via residenziale e l'altra. Avete presente il mega centro commerciale di Hollywood e tutte le cagate annesse e connesse, l'inutile, la roba accumulata da vendere e comprare e vendere e comprare? Benissimo. Questa è l'altro volto della città degli angeli.






Ancora, in un soffio, passa la paura di finire come "quelli lì", quelli che non hanno più nulla. E' subito spiagge dorate e oceano, negozi chic e alternativi per figli di papà un pochino ribelli, ma non troppo.



Questo è il regno della coolness, della figaggine che costa abbastanza cara, ma proprio in termini di denaro.






Prima ci spingiamo lungo il molo, per salutare per bene l'oceano che finora ci è stato fedele e maestoso compagno di viaggio. Per due mesi non rivedremo il mare, ed anzi saranno mesi di deserti e polvere. Torneremo alle distese azzurre ma sarà un altro oceano, l'Atlantico, una volta completato il coast to coast che, da domani, inizieremo pian piano a percorrere pedalando.







Si sta bene davvero qui, tra la sabbia e le onde, mentre il vento dolce porta profumo d'estate e il sole scalda senza scottare. Ciao oceano, arrivederci.




Tra una torretta di bagnini biondi e palestrati alla Bay watch


e un camion dei pompieri


percorriamo l'Ocean front walk



Dopo le casette bellissime iniziano i negozi dove si vende di tutto, dalle canne (non solo quelle da pesca) agli occhiali da sole, dagli hot dog alle tavole da surf o da skate






C'è caciara ma non troppo. L'atmosfera è calma, rilassata, sa proprio di vacanza. I negozi pompano musica figa, rap o trap o reggae, o i classici del pop e del rock a stelle e strisce. Ci sono artisti all'opera e gente che gioca a basket o si allena nelle palestre libere lungo la spiaggia.



una delle muscle beach... e vuoi che Gigi non metta in mostra il possente bicipite?


Io compro anche un berretto, con su la bici e la scritta Venice beach. Non per altro: il mio scalpo è ancora un po' sofferente dopo la scottatura tremenda di San Francisco. Un baracchino del 7-eleven regala granite fatte con le peggio bibite gassate zuccherate colorate. Vuoi non prenderne una?



Passeggiando raggiungiamo una zona dove i graffitari sono intenti a disegnare e gli skater si esibiscono in acrobazie e salti













 Da un lato, come sempre, i negozi e le boutique, dall'altro i senzatetto. Alcuni tentano di raccattare qualche spicciolo con espedienti artistici o quasi, altri semplicemente stanno buttati a terra o frugano nell'immondizia, per cibarsi degli scarti di chi ha la pancia troppo piena per aver fame davvero, e compra, smozzica e getta.















A forza di camminare usciamo da Venice e torniamo a Santa Monica, da dove siamo arrivati in bici l'altroieri. La soleggiata spiaggia propone una carrellata di varia umanità, colori, ricchezze e miserie non dissimile dalla vicina più chic.



Mentre pranziamo a un baretto che se la mena e non poco per il fatto di vendere prodotti bio e salutari (hamburger, pizza e hot dog neh), non riesco a togliere gli occhi da questa ragazza che passa tutti i cestini alla ricerca di qualcosa da mangiare, e quando trova un avanzo se lo caccia in bocca con avidigia. Mi sento in colpa, in generale. Non va bene così. Nel giro di poco un uomo le regala un panino con patatine, ma nemmeno così può andare, non è un gesto caritatevole ogni tanto a poter fare la differenza. Magari chissà che colpe ha questa ragazza, per trovarsi così. Però... Però non è comunque accettabile.




Ancora una volta basta spingersi un poco oltre per essere distratti da questa situazione allucinante. Tornano la sabbia d'oro e i palazzi di lusso




gli attrezzi da muscle beach





e il Santa Monica pier, dove ci sono le giostre e ogni genere di minchiata luccicante, nonchè la fine della Route 66, che parte da Chicago e arriva qui.




ancora una foto con il cartello della 66!












Da ultimo, come perla per concludere la giornata e la visita della città, torniamo al Getty center. E' un museo, o meglio una parte di un museo (l'arte antica è alla Getty villa, a Malibù), aperto nel 1997. E' immenso, bellissimo. E' privato. Ma aperto al pubblico e completamente gratuito.
Occupa una collina intera, tra padiglioni candidi, piazze, giardini e fontane. E contiene opere di ogni epoca e provenienza di tutti i più grandi maestri, dall'arte antica a quella medievale, alle avanguardie alla fotografia.






Va detto: da alcuni anni il Getty Museum è coinvolto in vicende giudiziarie che riguardano l'acquisizione e la proprietà di alcune delle opere esposte. Marion True, che è stata curatrice del museo per i reperti antichi, dal 2005 è sotto processo in Italia per traffico di reperti rubati così come il noto commerciante statunitense di opere d'arte Robert Hecht e Giacomo Medici.
Però vuoi mettere?
Un intero museo del tutto aperto al pubblico, per di più gratuito?







Questo è il classico esempio di come la storia, e la storia dell'arte siano state comprate e portate là dove storia non ce n'era. Tanto per capirci: un Monet e un Van Gogh qui, nel nuovo mondo.



In più dal museo si gode di una vista fantastica sulla città, grazie alle terrazze e al trenino elettrico che, come un lento rollercoaster, porta i visitatori dall'ingresso ai padiglioni, in un dispiego di custodi e impiegati e addetti da far impallidire qualunque museo statale nostrano.












Dopo un tale bagno di cultura, di pace e profondità in quello che è in tutto e per tutto un tempio dell'arte e della cultura, torniamo verso casa. E la realtà riprende le sue fattezze terribili.


Siccome siamo vuoti e stanchi, prima di cena ci scofaniamo uno scrigno di minitacos piccanti caldi e fragranti, mentre la luce cala e si allungano le ombre su questa città del tutto e del niente.


Domani si riparte. E' tempo di andare via di qui, prima di essere fagocitati e diventare alienati come i più che popolano i blocchi popolari. Domani si punta all'interno, spalle all'oceano e barra dritta verso est. Ci attendono San Bernardino, e la 66, e poi sarà deserto. Non vedo l'ora!

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