mercoledì 24 luglio 2019

22-24. La Monument valley e i martiri di roccia. Mormoni e mormorii del vento tra Utah e Colorado





21/7
Navajo national monument - Oljato Monument valley
94km

La giornata inizia piano piano, con la calma delle stagioni e dei movimenti larghi, come quelli dei pianeti e dei viaggi in bici.
Per tutta la notte ho sognato di aver messo la tenda su una pista dove pellirosse piumati corrono a cavallo, travolgendomi il sonno. Sono anche scivolata più volte giù dal materassino e, tra la nottata agitata e la mazzata di tappa di ieri, oggi mi sento come se davvero un bisonte mi fosse passato sopra più volte, anche in retro (i bisonti in retro fanno BIIP BIIP come i muletti).
Però, nella luce del sole, il Navajo national monument e il sunset campground si mostrano in tutta la loro semplice, grandiosa bellezza.





Gli uccellini cantano sereni in inglese e, anche per oggi, non siamo stati attaccati da animali pericolosi, come leoni di montagna, crotali o scorpioni, nè da animali fastidiosi, come le formiche. Direi un buon risultato. Facciamo colazione con tè e biscotti (quelli sopravvissuti alla mia fame profonda come i canyon) e ci rimettiamo on the road again. Abbiamo un'idea già abbozzata in testa: far tappa tranquilla, poco meno di 100km, e fermarci alla Monument valley, al Koa, che son bei campeggi. Originariamente, sul quaderno della rotta compilato a casa, avevo previsto di arrivare a Bluff, ma partendo da Kayenta, che invece per noi sta avanti ancora più di 40km. Insomma, tra alloggi fuori budget da evitare e strade sbagliate, siamo in ritardo di una mezza giornata a pedali. Ma in ritardo rispetto a che? Boh. Rispetto alla carta, che non arrossisce, che canta, che può anche essere da culo. Ovvìa, decidiamo noi 'i che fare. E si fa tappa tranquilla, e ci si ferma alla Monument valley che è bella e val la pena.


Prima di tutto, però, dobbiamo tornare alla strada principale, ovvero pedalare al contrario quei quasi 16km che ieri al crepuscolo ci han visti arrancare in salita. Scendendo mi accorgo del fatto che c'è un po' da salire anche facendola da questa parte, ma amen. La valle sotto, la Black mesa dall'altra parte e i roccioni a strapiombo del canyon di Tsegi, bagnati dalla luce già alta del mattino, ripagano della fatica.







Purtroppo non riusciamo a vedere le rovine degli insediamenti dei nativi Pueblo, che avevano scavato le loro abitazioni direttamente nella roccia di questi monti fin nel XIII secolo della nostra era. Magari riusciremo a rifarci al parco di Mesa verde, i prossimi giorni.







Scendiamo volando nell'aria ancora fresca e a capofitto ci lanciamo come i condor giù giù verso la valle, in uno sfondo indistinto verde di rami e rosso di sabbia, azzurro di scaglie di cielo e grigio lucente di sasso. Il profumo di resina ed erba che secca si leva dal basso all'alto ed è un canto sacro di spiriti antichi che vivono queste zolle.




Tornati alla strada principale svoltiamo a sinistra, ad oriente, direzione Kayenta. La porta della monument valley, la città che accoglie turisti da tutto il mondo con prezzi gonfiati e fast food, in mezzo al deserto di roccia, nella terra che fu ed è tornata ai Navajo.








Arrivare alla città non è cosa da ridere. I kilometri son pochi e le discese non mancano, ma là dove si sale, si sale a rampe cattive. Intorno, però, il paesaggio cambia di continuo. Si passa da valloni verdi d'erba fresca e cespugli scuri di linfa


alla roccia rossa e giallastra e ocra, punteggiata di rada vegetazione, che ricorda il Grand Canyon e prelude alla Monument valley.











Dopo aver perso quota e guadagnato in afa e calura, comunque, arriviamo a Kayenta. Qui facciamo una sosta perchè poi, per 40km, non ci sarà più nulla se non pinnacoli di roccia e sabbia rossa portata dal vento.





La città non ha una gran storia, anche se è l'unico comune in senso stretto del territorio Navajo. E' proibito vendere alcolici, ci sono hotel, catene di negozi di ogni tipo, soprattutto fast food, e varie amenità acchiappaturisti. Noi ci mettiamo fuori dal McDonald's per sfruttare la connessione internet, e, mentre sgranocchiamo le nostre mele, ci intratteniamo con gli automobilisti che si servono al McDrive, tutti incuriositi dalla nostra presenza. E' un profluvio di "God bless you"", "I see you are in a perf shape" e "Please, be carefull and have a safe trip". Una signora crede che io sia di New York e, quando le rivelo di essere italiana, mi fa mille complimenti per la pronuncia. Grazie signora upima, dopo aver cannato completamente la strada ieri, questo fa bene alla mia autostima.




Il tempo di un po' di relax e siamo di nuovo in sella, per pedalare verso questo luogo affascinante e misterioso che è la Monument valley.




La vegetazione si dirada e la sabbia rossa e la roccia prendono il posto dell'erba e dei prati. Che non torneranno qui, nè ora nè mai. La Valley ci si presenta con una sorta di portale custodito da due sentinelle. A destra il re babilonese in trono, a sinistra un busto di sirena.


Alle spalle, seminascosti, altre guglie smussate fan capolino, quasi intimorite dal nostro passaggio e dal luccicare delle nostre bici e del nostro sudore nel sole rovente.


















Sono ovviamente illusioni, nessuna forma precisa è stata scolpita qui, non c'è mano dell'uomo. E' il mio occhio a voler dare un volto alla roccia, come si fa con le nuvole. E' la necessità di antropizzare, di marchiare, di sigillare con un nome e contorno, una linea precisa. Sono umana. Cerco il senso anche in ciò che sta al di là del bene e del male.











Pedaliamo in scenari sempre più da film, che tolgono il fiato e fanno sentire in un set cinematografico. Ora arriveranno i cowboy, ora i pellerossa a cavallo con le piume e le frecce.













I pinnacoli, le colonne e le guglie, che han tutte un nome dato da chi ha studiato questa pietra in modo sistematico e non solo con le vibrazioni del cuore, altro non sono che "Testimoni d'erosione". Questo è il loro nome esatto, quello della scienza, che evoca in me l'idea di testimone come martire, in senso etimologico. Martiri del tempo che passa e nientifica, martiri dell'erosione del vento e dalla pioggia, testimoni della fuga dei secoli che, passando, silenziosi, sbriciolano tutto e rendono sabbia anche le più alte montagne. Testimoni di umiltà e smussamento di cime. Ecco cosa sono queste mesas, o butte, che dir si vogliano.

















La Monument Valley, dice Wikipedia, è un pianoro di origine fluviale collocato al confine tra Utah e Arizona caratterizzato da "testimoni di erosione", ovvero guglie rocciose celebri in tutto il mondo come icona del West.






La Monument Valley è uno dei simboli degli Stati Uniti occidentali. Il pianoro desertico è in realtà di origine fluviale (Colorado Plateau) e si trova al confine tra Utah e Arizona in un'area abbastanza isolata quanto estesa che dista più di 70 km dalla cittadina più vicina: Kayenta. La strada che conduce alla Monument Valley nella parte terminale è altrettanto famosa: essa segue un percorso rettilineo in leggera discesa che dà al viaggiatore l'impressione di calarsi all'interno della valle. Nella Monument Valley vive ancora oggi una tribù di indiani.
La strada principale che conduce al luogo è la Highway 163. Il territorio è prevalentemente pianeggiante ad eccezione del fatto che la pianura è cosparsa da una sorta di guglie (geologicamente definite "testimoni di erosione"), dette butte mesas a seconda della loro conformazione. Questi edifici naturali formati da roccia e sabbia hanno la forma di torri dal colore rossastro (causato dall'ossido di ferro) con la sommità piatta più o meno orizzontale; alla base si accumulano detriti composti da pietrisco e sabbiale.
Saltuariamente nella valle si scatenano piogge torrenziali, alcune zone potrebbero allagarsi nell'arco di pochi minuti causando anche danni ai turisti.




Sembrano rovine di castelli, torrioni crollati antiche mura ciclopiche, come quelle di Corinto o Micene, che hanno ceduto al fiume del tempo. Sembrano, ma non sono. Qui non c'è storia dell'uomo, se non dei nativi che vivono all'ombra dei pinnacoli e nulla han modificato o infranto in questa natura che plasma, con mani di scultore.


Rapito lo sguardo dall'orizzonte rosso e azzurro, arriviamo al confine con lo Utah, dove, oltre al cartello che indica l'ingresso nel nuovo stato (seppur sempre nella riserva Navajo) c'è un gran pannello che vanta il più grande museo all'aperto al mondo. Qui son tutti a caccia di record. Un omino in auto ci chiede se siamo italiani e rimane sconvolto dalla nostra "pedalatina" coast to coast.



Si prosegue con calma e si fan sempre più vicini i martiri di roccia. Passiamo anche dal visitor center, dove partono le escursioni nella valle e si potrebbe anche alloggiare. Ma noi abbiamo già scelto di stare al Koa subito fuori.


"La zona fa parte della Navajo Nation Reservation (dove ancora vive una tribù, con la quale è possibile dialogare con discrezione) ed è un Tribal Park con ingresso a pagamento. Gli indiani gestiscono tutte le attività all'interno della valle, compreso il discusso e costoso View Hotel, inaugurato nel 2009 e costruito sul posto dell'essenziale campeggio che esisteva da 40 anni. Lì e al vicino Visitor Center si possono contrattare le escursioni in jeep, che è possibile in una certa misura effettuare con il proprio veicolo, e si trovano una discreta quantità di bancarelle sulle quali i Navajo vendono gli oggetti di loro produzione, in particolare gioielli.
Al Monument Valley Visitor Center è possibile scegliere di visitare la vallata con una guida Navajo a cavallo della durata di 4 ore circa oppure in macchina della durata di 2 ore. La strada, sterrata e un po' dissestata, che attraversa la valle è comunque percorribile da qualunque mezzo (anche camper) purché non si superino le 15 mph (velocità massima consentita sulla pista).
Le guide sono fornite unicamente dalle popolazioni di indiani navajo che hanno guadagnato quelle terre e si possono trovare delle zone per dormire con roulotte e camper sempre gestite dagli indiani."
(Wikipedia)



Noi, piuttosto sfatti ma felici, arriviamo al campeggio, che è così nuovo da aver solo alberelli minuscoli appena piantati e zero ombra. Ma non importa, è un balcone sulla meraviglia aperta di questa terra.









Ci accolgono un americano gentilissimo, occhi azzurissimi e obesissimo, che per muoversi usa un caddy, e un'altrettanto in carne indiana dalla pelle olivastra e gli occhi color notte. Approfittiamo di tutti i confort, dalla doccia (ieri nada) alla laundromat (da Los Angeles nada, mutande lavate nel lavandino e camminare), dalle prese della corrente alla wifi, dal negozio di alimentari piccolo ma fornito (caffè tè cioccolata aggratis). Approfittiamo sopratutto della location per goderci il panorama. Potrei stare giorni, messi, secoli a frugare l'orizzonte con la sguardo.






Si cena con le solite tolle di roba confezionata, malsana e buona, ma stasera con vista.




Poi, dopo alcune chiacchiere con i vicini di tenda (una gentile coppia di sessantenni sportivi dello stato di New York, qui in auto per un matrimonio), cala la sera. anche su questa fetta di mondo dove sembrava che la luce non potesse mai spegnersi. Cala la sera e si fan lunghe le ombre, che scavano la pietra più ancora del tempo. Fanno poi capolino le stelle, e sono miliardi, luminosissime, una festa nei mondi notturni. Il ranger gentile mi invita, dal caddy, ad andare a vederle con il suo telescopio, ma mi sembra una trappola e declino. Resto fuori dalla tenda, nel vento che si è alzato ed è tiepido, a "riveder le stelle". E' chiaro alla vista anche uno spruzzo di via lattea. Così l'avevo vista solo nel deserto iraniano. E mi commuovo, e le stelle si rifraggono.







22/7
Oljato monument valley - Bluff
76km

Anche oggi tappa brevis. Ho studiato la mappa e, se per i primi 70km ci sono paesi, negozi e strutture, poi seguono altri 70-80km di vuoto totale. Siccome non abbiamo poi tutta questa fretta, e i luoghi meritano, decidiamo di spingerci solo fino a Bluff, a 70km abbondanti da qui. Se non facciamo un po' i turisti da queste parti dovremo poi esserlo nelle pianure polverose del Kansas, tra una fattoria e una piantagione.

Aprire la tenda è già puro spettacolo.




Nell'aria ancora fresca di un sole leggermente velato partiamo, dopo aver salutato i vicini di tenda e i ranger. Oggi, almeno quanto ieri o forse più, la Monument valley si rivela in tutta la sua erosa, cadente, sbriciolata bellezza che r-esiste.














Dopo aver girato anche noi, come tanti, il videino in cui Gigi si ferma e dice "sono un po' stanchino" in stile Forrest Gump, ci lasciamo alle spalle la valle e i suoi testimoni muti, sempre più piccoli e azzurri nella distanza.




Davanti a noi tornano le praterie aride e i roccioni rossi, che a volte si richiudono sulla strada come a volersela mangiare.













Superiamo la microtown di Halchita e ci dirigiamo a Mexican Hat, paesino turistico ma un po' cadente e polveroso che sorge su fiume San Juan, di cui oggi e domani seguiremo in parte il corso, tra gole e canyon.















Mexican hat, che deve il suo nome ad una roccia che pare un messicano col sombrero (vedi foto più avanti) è la sosta perfetta, a metà precisa di questa breve tappa. In effetti fa caldissimo, e lasciar trascorrere le ore calde, visto che abbiamo tempo, ci pare una buona idea. Ci fermiamo all'unico negozio del paese, che son quattro case e due motel sulla strada. E' il negozio del distributore di benzina, of course. Gigi assaggia vari rotoloni di carne e wurstel impanati nel mais. Io mi limito al "cocchino", cioè una specie di succo di frutta al latte di cocco che è il life saver di queste pedalate torride. Poi ce la dormiamo, con una vera e propria siesta, su una panchina con tavolo all'ombra, bene raro e prezioso da queste parti.






Si riparte e son montagne russe rosse. Salite e discese ripidissime, nell'aria che tremola di afa, rendono confusi i contorni del paesaggio, che è un susseguirsi di rosso e poco verde, di terra e sabbia e roccia così scavata da sembrar muro di mattoni.




il mexican hat




Fa un caldo che non si riesce a dire. Forse ci eravamo ben abituati all'aria di montagna del Canyon, a più di duemila metri. Forse le temperature sono davvero di fuoco. Fatto è che soffro, e butto acqua calda in gola, ma non disseta. Sembrava una tappa corta ma i kilometri non scorrono lisci sotto alle ruote. Insomma, soffro!

















In questa monotonia di sfondo si può impazzire. Si vedono nell'orizzonte che tremola cose che non ci sono. La mente gioca brutti scherzi. Si parla con la strada, le si chiede di scendere, e di piegare a favor di vento. Si parla con i sassi, e si domanda loro come vada la vita in questo millennio. Le pietre rispondono: "Non c'è da lamensassi". Non sto mica bene.








Passata anche la Valley of the Gods, nel senso che si tiran giù molte divinità di varie religioni




vediamo l'orizzonte aprirsi un poco in una sorta di prateria verde secco, arida, ma meno soffocante.



In lontananza, in basso, si intravede qualche ansa luccicante, come scaglie di un gran pesce, del San Juan. A dirlo sembra bello; acqua in questa arsura! Ma non è bello niente: il fiume ha scavato delle gole ripide che la strada segue doviziosamente, senza un ponte, senza una galleria. Si scende e risale di continuo, ed è un tormento.















Per fortuna finisce anche quest'ultima fatica della giornata e arriviamo finalmente a destinazione, a Bluff.


Qui prendiamo posto al Cadillac ranch, un campeggio in centro di questo non-paese di tre case e un negozio, insieme a una coppia di ragazzi del belgio. Non c'è nessuno a cui pagare, si farà domattina. Montiamo la tenda accando allo stagno con tanto di canneto e papere e poi andiamo a fare i turisti (e la spessa al benzinaio).

Bluff fu fondata sotto la direzione del predicatore John Taylor, grazie al danese Jens Nielson, che condusse qui sul fiume, in questa fetta di terra fertile, 230 mormoni. Correva l'anno 1880.
I mormoni diedero vita ad una piccola comunità dedita ad agricoltura e allevamento, nonostante le difficoltà di raggiungere questo luogo a causa del terreno impervio. La popolazione diminuì con la crisi del '29 ma, negli anni '50 crebbe di nuovo con il boom dell'uranio. Passato di moda questo, il numero di Bluffers diminuì ancora. Interessante è l'historic fort, cioè la ricostruzione del primo insediamento dei mormoni nel 1880. Alcuni edifici sono originali dell'epoca, come molti pezzi dell'arredamento e le macchine agricole. L'ingresso al sito è gratuito e val la pena perderci un'oretta.





























Poi si fa la spesa, e dopo ancora si cena. Intanto è arrivato il custode del campeggio e tocca pagare, ma ci dà la password della Wifi che funziona pure bene. Incredibile!
Mangiamo tranquilli, nel frullare d'ali delle papere e nei fruscii del canneto sul laghetto. Tranquilli finchè due mici miagoli non ci raggiungono e condividono con noi la carne in scatola e persino le verdure. Sono gattelli simpatici e fusicembali, e magretti magretti. Il mio gatto, Platone, in confronto è un bue grasso.




Prima di chiudere la giornata con la consueta scrittura mi regalo un momento di grazia nell'ultimo sole, che illumina le pareti rosse del canyon d'intorno. Si sta bene qui. Immagino i mormoni, allo scorcio di due secoli fa, quando trovarono acqua e alberi dopo tanta montagna e tanto deserto. Al miracolo! Ecco Dio! Avranno esclamato.
Ecco Dio che abita la corteccia e il fiume, ecco il dio che cammina sulle zampe delle formiche e dei ragni, che vibra negli steli d'erba e nelle penne delle anatre. Mi sento un po' Giordano Bruno, un po' alla "il pane e i vermi". Qui han bruciato le ultime streghe. Per fortuna è passato del tempo.



23/7
Bluff-Cortez
109km

Oggi si torna a fare sul serio, a rispettare la tabella di marcia. Lasceremo lo Utah ed entreremo in Colorado, meta Cortez, città che prende il nome dal temibile Hernan, il conquistador, sterminatore di popoli.
Si prevedono più di 120km, ma poi imbroccheremo una scorciatoia giusta, almeno stavolta, e riusciremo a farne un po' meno.
Lasciamo il Cadillac ranch e i suoi mici, per prendere la strada che piega a sud est come un arco indiano.



Bluff ci saluta con uno spettacolo pirotecnico di roccia, e ci sono perfino pinnacoli in coppia che si danno i bacini.



Poi si apre la sottile valle del San Juan, coltivata. Non vedevamo un vere così coerente e pieno da gran tempo ormai. Fa bene al cuore, per noi che siamo gente di pianura, gente che pedala le campagna e la sua natura addomesticata, rettangolare e recintata. "Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati/ a cielo e denaro, a cielo ed amore/ protetta da un filo spinato..."



Sarebbe tutto bellissimo se non ci fosse un vento porco e maledetto che ci soffia in faccia con violenza da girone infernale. Eolo è adirato, teso, nervoso, e ci frusta gli occhi e il volto, rallenta le bici e rende impossibile pedalare a più di 12km/h, per di più con sforzo immane dell'intero corpo. Le gambe a spingere e il resto a tenere in piedi la gorda cicletta. Non mancano, oltretutto, le salite. Oggi da 1300m dovremo tornare a 2000, prima di scendere di nuovo a 1800.


Mentre noi arranchiamo controvento e ci facciamo un bucio di culo che non si può nemmeno descrivere, le trivelle estraggono placidamente petrolio, con un cadenzato cigolio che si perde nel vento.






Dopo 25km di dolore e calvario arriviamo al primo paesucolo, Montezuma creek, dove ci fermiamo a rifiatare e far due conti. Di questo passo arriveremo a Cortez con il buio, e morti di fatica.


Così ci fermiamo poco, nell'ansia dell'andare, e seguiamo il nostro amico San Juan (che da milanesi diciano Giuan, e non Huan alla spagnola).








La strada corre implacabile verso l'orizzonte e non c'è nulla che possa far da schermo alla violenza del vento. Ce lo prendiamo tutto in faccia, di petto. Una roba mostruosa.


Al kilometro 38 raggiungiamo Aneth, altro paesucolo dove sappiamo di dover fare rifornimento: per i successivi 70km non ci sarà più nulla, se non la furia di Eolo e il nostro pianto asciutto. Qui, al distributore, mentre tardiamo nel rimetterci in sella, apro Maps e rivedo chiaramente che, per arrivare a Cortez, ci sono due strade. Alla Whitman. Una è quella principale che abbiamo seguito finora e fa un giro lungo e tutto esposto al vento. L'altra taglia nei monti e sembra più riparata. Ma chi si fida, dopo la ciavada dei giorni scorsi? E se c'è ancora la sabbia maledetta? Oggi abbiamo da fare troppi kilometri per poterci permettere errori. Mi viene un'idea: provo a chiedere ad un ragazzotto con l'apparecchio, un camionista indiano, lumi in merito alla strada. Mi dice che se lui fosse in bici farebbe di sicuro quella che taglia nei monti: è più panoramica e meno trafficata (transeat), tutta asfaltata (ah!) e riparata dai monti. Allora le cose cambiano. Senza laghi di sabbia e pantani di lacrime  e paludi della tristezza nel mezzo, questa via si fa allettante perchè ci farebbe fare 100 e non 120km, e riparati dal vento. Dunque, optiamo per questa.



Iniziamo subito a salire, ma senza Eolo che ci rallenta. E in breve ci troviamo tra i fianchi di monti rocciosi e muti, in un silenzio di cerchi larghi dei voli dei condor.




Si sale e si sale, e ci avvicianiamo al Canyon of the ancients national monument, altro luogo di antica memoria dove i nativi han lasciato i resti di pietra su pietra delle loro abitazioni.








Certo, dopo i primi 40km di sforzo titanico per vincere il vento, tutte queste salite non sono proprio una passeggiata. Ma si pedala diritti e spediti, lanciati ad oriente come una punta di freccia. Intorno la vista corre e beve agli spazi interminati.





Alcuni cavalli, qualche ranch semi abbandonato e delle laconiche trivelle sono gli unici elementi che ravvivano il paesaggio austero.








Nel primo pomeriggio raggiungiamo il confine con il Colorado, ed entriamo in questo nuovo stato che ci accoglie con un brusco mutamento di paesaggio. Tutto si fa d'improvviso verde e rorido, rigoglioso, profumato di orti umidi nelle sere di luglio. Ci sono l'odore dolciastro della frutta maturata al sole, e quello aromatico dell'erba medica appena tagliata. Arrivano all'orecchio un gorgogliare di fossi e belati lontani. Il deserto è finito. Il regno della roccia e della sabbia ha ceduto il passo a quello dell'acqua e della linfa.



Ne approfittiamo per una sosta all'ombra, che rinfresca a disseta anche solo allo sguardo. Se questo è il biglietto da visita del Colorado, non può che essere un locus amoenus.




Purtroppo, nonostante il fresco e la bellezza placida, io entro un po' in crisi di fame. Le gambe diventano molli e il cervello anche. Mancano zuccheri, fatico a concentrarmi e a rendermi conto di quanto stia succedendo. Procedo pianissimo, i muscoli non rispondono ai comandi. Per fortuna un salvifico pacchetto di biscotti spunta dalla borsa e tutto si risolve nel giro di una mezz'ora. Sempre colpa del vento di stamattina, si intende!





Non manca molto a Cortez e davanti a noi la valle si fa stretta e chiusa. Ci sono gli ultimi strappi per uscirne e raggiungere la città. Eolo torna a levarsi contro di noi e, per di più, l'orizzonte si fa nero di un temporale coi fiocchi. Alcuni lampi lunghissimi squarciano il velo scuro della pioggia. Affrettiamo il passo, per quanto possibile.







Arriviamo a Cortez con fatica, tra salite e schiaffi del vento, ma riusciamo ad evitare la pioggia. Qui siamo a ridosso delle montagne rocciose, sopra la Mesa Verde, ed è logico che tanta umidità si raccolga e ricada a terra in goccioni tiepidi. Speriamo per domani, che Giove pluvio, Zeus adunatore di nubi si sfoghino stanotte.


Raggiungiamo il motel prenotato ieri su Booking, il National San Canyon 9 Inn. E' gestito da un indiano dell'India che, appena si sente dire che vorrei visitare il suo paese, diviene gentilissimo e quasi mellifluo. Dice che Rita è un nome molto diffuso in India, come Mario Rossi (?). Ci chiede da dove veniamo e dove andiamo, ed un prezzo super pop (poco più che un campeggio) ci dà una stanza enorme, praticamente un appartamento "così potete tenere dentro le bici". La colazione di domani, oltretutto, è inclusa.



Noto che qui il telefono con sim statunitense prende di nuovo il 4G. Allora è proprio un problema con la riserva Navajo: non hanno la copertura di rete! Ecco perchè tutti quei telefoni a gettoni. Roba da non credere che siamo negli States.
Andando a far la spesa al Family Dollar, supermercato dove paghi 20 dollari ciò che, negli altri posti, porti a casa per una cifra più che doppia, e che espone il prezzo della merce, pur senza tasse, a differenza di quasi tutti i negozi, facciamo un giro per Cortez.
Si tratta di una cittadina fondata nel 1886 come insediamento per la costruzione di dighe e canali che deviassero l'acquain valle dal fiume Dolores. Vive del passaggio dei turisti che vanno alla Monument valley, al Four corner (monumento che segna il confine tra quattro stati: Arizona, Utah, Colorado e New Mexico) e alla Mesa verde. Perchè anche qui ci sono numerosi resti di siti preistorici.

Domani muoveremo i pedali verso Durango, e poi inizieremo a scalare le Montagne rocciose. Non vedo l'ora di fare la conoscenza di questi giganti silenziosi, sperando che siano gentili!

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