Fenner-Bullhead
111km
Nonostante la faticaccia ladra di ieri, la notte è stata tutt'altro che ristoratrice. Fa veramente troppo caldo per prendere sonno, e, per di più, il continuo passaggio di treni merci grandi come muraglie cinesi, tir e auto, non ha reso certo facile il riposo. Poi il fatto di non potersi fare una doccia dopo una giornata a sudare nella sabbia mica aiuta!
Alle 6 ci si sveglia. Paul, il canadese, è già pronto per partire: oggi vuole fare tappa breve e riposarsi a Needles.
Noi anche siamo stanchi, ma, piuttosto di pedalare meno, abbiamo deciso di pedalare diverso. Per oggi lasceremo, nella seconda metà della giornata, la route 66, ed entreremo in Arizona seguendo il fiume Colorado, che separa questo stato da California e Nevada. Ho preso io la decisione di cambiare rotta: sento il bisogno fisico di stare vicino all'acqua, costi quel che costi.
Facciamo colazione (come sempre con mille bicchieri di plastica e kili di packaging... E manco fanno la differenziata!) e ci prepariamo a partire.
Onde evitare, almeno per qualche tempo, l'inconveniente dell'acqua calda gusto piscio nelle borracce, decidiamo di fare un investimento: 6 dollari di bustone del ghiaccio. L'esperimento funziona e riusciremo a raggiungere la sosta di metà giornata con acqua ancora passabile, tanto più che mi son caricata io, sopra alle borse, la bottiglia da un gallone piena di ghiaccio, coperta dal telo sottotenda. Insomma, si-può-fare!
Mentre pedaliamo pensiamo a come dovesse essere qui un paio di secoli fa, al tempo dei pionieri, dei cacciatori di bufali e delle guerre indiane. Chissà che han pensato i primi Mohave di fronte ai pali del telegrafo, o davanti alla lucente hybris della ferrovia che correva dritta oltre il loro orizzonte. Chissà che han pensato i cercatori d'oro, zozzi nelle pelli sudate, disperati, coraggiosi, lontani, in un epoca in cui la morte era un pensiero concreto e quotidiano, una delle molte possibilità, un modo come l'altro di finire la giornata.
I primi 50km abbondanti sono comunque sulla 66, che corre tra colline meno brulle e distese di cespugli, piante grasse irte di spine che fanno rabbrividire le ruote della bici e palmette. Si vede che qui è deserto meno deserto del deserto deserto.
Però fa già caldo. Dicono che Needles, dove stiamo andando, sia la città più calda degli States. Non so se anche qui, come a Milano, sia sport nazionale lamentarsi del caldo e millantare record, ma in effetti alle 8 del mattina so suda già e parecchio.
Proprio mentre pensiamo questi luoghi del tempo vicini e lontani, dopo aver visto due avvoltoi da ben vicino, arriviamo a Goffs.
Si tratta di un paesino dove qualche abitante resiste ancora, ed è persino stato creato un museo open air di cianfrusaglie dei due secoli scorsi. Roba che in cantina mio nonno ha lasciato ben più reperti, ma qui la storia è contratta, ridotta, stretta e tesa come una corda spessa.
Dopo Goffs la mappa riporta altri nomi, altre località che però non hanno lasciato traccia, nemmeno sottile. Non un'ombra di queste ghost town rimane nel deserto, dove il sole impietoso illumina tutto. Non un muro è rimasto a fare da meridiana, da memento. E così fugge questo reo tempo...
Si alza il sole, la luce allaga la valle in cui pedaliamo in un fuggi fuggi di lucertoloni che corrono così veloci da volar via sui sassi e riatterrare metri dopo. A volte, nell'ombra di un cespuglio, si staglia la sagoma tutta orecchie di un lepro delle meraviglie. Per il resto, silenzio.
E invece davvero, ex abrupto, un baracchino si staglia tra pietra e pietra. Un baracchino con una signora che vende olive, frutta secca, miele... A peso d'oro! Gigi compra due arance a "soli 3 dollari". Buone son buone eh. E anche inattese. Furba la sciura!
Dopo una breve sosta, nella canicola ormai insopportabile che fa sudare anche la cresima, ci rimettiamo in sella. Ultimi stralci di deserto e poi la 66 si tuffa, per un breve tratto, nella trafficata I-40. Un volo in autostrada, nell'aria che tremola di caldo, prima di arrivare a Needles, ultima città della California.
In questo punto, oltre ad esserci il confine California-Arizona, si incunea anche una punta di Nevada, lo stato della follia, dove l'uomo ha risposto al deserto con laghi di palazzi e luce, con la sfrenatezza del gioco, delle donne e dell'alcol, la lussuria e l'incontinenza delle passioni più torbide che sono la rivincita sul Mojave, dove c'è a malapena posto per l'essenziale. La sopravvivenza da un lato, il minimo, di qui. L'eccesso, il troppo, il non-limite di là.
La strada è scandita da cartelloni che pubblicizzano hotel con casinò e night club, buffet di aragosta mentre si gioca a poker e si fuma il sigaro. E non mancano le pubblicità che sbandierano che la marijuana è diventata legale anche in Nevada, per i maggiori di 21 anni. Sembra la porta dell'Inferno. Invitante come tutte le porte dell'Inferno. Benché bacco tabacco e Venere non siano esattamente i miei vizi.
Giungiamo dunque a Needles, il polo del caldo. In effetti si schiatta. Facciamo una sosta lunghissima nel primo benzinaio con negozio di alimentari che troviamo. Il proprietario ci regala un secchio di ghiaccio e noi ne approfittiamo. Vi dico solo che mi son riempita
di cubetti le scarpe!
Beviamo, ci riposiamo e lasciamo pensare al gestore della pompa di benzina che non ce ne andremo MAI PIÙ.
Quando il sole si fa meno feroce, ripartiamo. L'idea è quella di lasciare la 66 e seguire il fiume Colorado sulla sponda dell'Arizona, tenendo a sinistra, oltre l'acqua azzurra e fresca, il Nevada e i suoi diavoloni.
Attraversiamo Needles, che è una ridente cittadina di fiume che prende il nome dai pinnacoli di roccia che chiudono la valle. Fondata sulla linea ferroviaria negli anni '80 del 1800, come tutte le città qui, è stata prima una tendopoli di operai cinesi che mettevano i binari spaccandosi la schiena sotto il sole, poi città con battelli a vapore, hotel e negozi, arricchita prima dai traffici sul fiume poi dalla 66. Needles è nota soprattutto perché Schulz, il padre di Snoopy, ha vissuto qui la sua giovinezza.
Era qui che iniziava la terra dei Mohave, i nativi che si dipingevano il corpo con geometrie di terra chiara e portavano piume tra i capelli. Mohave, popolo del fiume nella loro lingua.
Entriamo in Arizona, e la bandiera non è più bianca e rossa, con la stella e l'orso, ma porta i colori caldi di una landa bruciata dal sole. "Lo stato del Grand Canyon vi dà il benvenuto". Subito mi accorgo che mancano quelle belle ciclabili che correvano lungo ogni strada di California e la gente guida in modo assai più nervoso. Si vede che han perso al casinò e hanno un fastidioso bruciore al culo.
Si susseguono campi coltivati e Pratoni, e la vista di questa esplosione di foglie e radici mi placa il cuore. Qui non è deserto, qui scorre la linfa dolce e sento tornare la vita del pari nei polmoni e nelle vene. Non mancano anche quelli che in Iran chiamano haboob, i vortici di polvere alzati dal vento.
Nonostante il fiume, comunque, fa un caldo tremendo ancora. Ci buttiamo in un supermercato a comprare roba fresca da bere
Come dicevo, questa era la terra dei Mohave, i nativi di questa fetta d'America. Il popolo del fiume fu descritto per la prima volta da alcuni missionari francescani spagnoli nel 1540. I contatti veri, e tutt'altro che pacifici, iniziarono però solo a metà del 1700. I toponimi sono eloquenti: Mojave Valley, Mojave city e Fort Mojave.
Qui di fatto ci sono delle "riserve", o meglio, una grossa minoranza (!) della popolazione locale è di discendenza Mohave.
Ci fu una guerra, tra 1858 e 59, tra Stati Uniti e tribù locali. Tutto nacque a causa della corsa all'oro e dello sfruttamento folle e distruttivo della terra e dell'acqua, condito da incomprensioni e reciproca intolleranza. Ci furono scontri e battaglie, Fort Mojave di costruito come avamposto dove tenere le guarnigioni, come Fort Yuma. Indovinate chi vinse?
Esatto. Non i nativi.
E ora Spirit Mountain, la vetta più alta di questa valle, da cui i Mohave credevano venisse lo spiritus, l'alito primigenio della vita, è il nome di un motel con casinò.
Si susseguono diversi paesi senz'anima, con poche case, molte cliniche private e molti liquor store e casinò. Laughlin, la Las Vegas dei poveri, sta proprio qui accanto, dall'altra parte del fiume. Lo testimoniano i palazzoni, le luci e la musica a palla che si sente fin qui.
Noi ci limitiamo a raggiungere Bullhead, che prende il nome da una roccia a forma di testa di toro che era punto di riferimento per chi navigava sul Colorado, ai tempi delle zattere e dei battelli a vapore.
I pali a bordo strada portano il volto e il nome di ragazzini di ogni colore e in divisa, i decorati di guerra, molti tornati a casa "nelle bandiere/ legate strette perché sembrassero interi". Sembra l'Iran con i suoi martiri di guerra, ma mica si può dire a voce alta.
Intorno la valle si stringe e i monti si fanno aguzzi di pinnacoli, come immensi termitai. Fa caldissimo e l'umidità ristagna, ma ora il paesaggio sa proprio di America. Non so perché, ma nel mio immaginario c'è un intero catalogo di roccioni così alla voce USA.
Dall'altra parte del fiume, in Nevada, all'altezza di Riviera, ci sono palazzoni e alberghi e casinò, e persino un immenso battello a vapore super kitsch. Si sente la gente fare festa, in quella solitudine decadente delle passioni tristi di un secolo di tramonti.
Dopo ampia spesa di frutta e verdura, troviamo anche noi il nostro nido per la notte, che è il Davis campground sulla riva del fiume. Siamo esausti.
In spiaggia intere famiglie di messicani ciarlieri grigliano e fanno il bagno, ballano e cantano in un casino latinoamericano inconfondibile.
Nel giro di poco, prima del tramonto, tutti se ne vanno e rimane la calma dolce delle acque che corrono "chiare e fresche". Dopo tanto deserto non mi pare vero. L'azzurro dell'acqua che sorride il cielo sereno, la trasparenza che fa il solletico ai sassi del fondale.
Monto la tenda mentre Gigi si riprende e poi vado a sbirciare la grande diga (Davis Dam, 1953) che si intravede dopo l'ansa del fiume, tra le palme e le rocce d'oro, impregnate di miele dell'ultimo sole.
Godo il fresco e la pace di questo luogo sacro. Sacra è l'acqua preziosa più dell'oro dei pionieri, sacri i monti indiani da cui è scesa la vita con la brezza della sera. Sacre le palme, le piante e le mani che si rinfrescano nel fiume. Sacre le sponde, i merli magri che cantano al crepuscolo e sacri i pesci che guizzano argento tra le minuscole onde. Sacra la roccia, sacre le stelle e la luna, quasi piena. Tutto qui è pieno di dei che da millenni abitano ogni sasso, ogni goccia, ogni pagliuzza.
In un soffio si invola al buio anche l'ultima luce, e rimango sola con il fiume a pensare quanto meraviglioso sia questo mondo grande e vivo, che respira di infiniti sguardi, parole e lingue, luci, suoni, vite piccole e grandi che trascorrono il tempo. Qualcosa si perde, qucosa resta. Sono Eraclito e il suo fiume, qui sul Colorado, dove tutto scorre.
Mi addormento in un quadro di Van Gogh.
15/7
Bullhead-Kingman
56km
A svegliarci è il canto dei primi uccelli, che salutano l'alba e chissà che si raccontano, tra una palma e l'altra.
Il fiume è rimasto dov'era e si è svegliato più fresco e più rosa. Faccio colazione con i piedi in ammollo, oggi si torna tra sassi screpolati e terra riarsa, mi manca già l'acqua come il respiro.
Una volta chiude le borse e smontata la tenda, decido di fare un tuffo in acqua tutta bell'e vestita, per portarmi addosso ancora un po' queste pagliuzze d'acqua d'argento sante e divine che fanno e ridanno la vita. Un brivido, e si parte.
Molti dei primi bagnanti che tornano alla spiaggia fanno domande sul nostro viaggio e persino coloro che puliscono i cessi (ah! Ieri doccia, finalmente) restano stupiti del nostro pedalare. Mentre riempiamo borracce e bottiglioni, un giardiniere ci dice che le salite lo uccidono e che siamo pazzi e non sappiamo a cosa andiamo incontro.
In realtà lo so bene.
Due passi, piccoli, ma uno in fila all'altro, da circa 1000 metri. Con questo caldo e nemmeno una goccia d'ombra.
Per questo abbiamo deciso di fare una tappa breve: oggi o 55km o 150. Non ci sono vie di mezzo, purtroppo. Siamo comunque in vantaggio sulla tabella di marcia studiata a casa, quindi ci prendiamo mezza giornata di riposo. Se questo è riposo.
Appena fuori dal campeggio si inizia a salire. La strada impenna per oltre 20km.
Intorno la roccia ai fa aspra e brulla, quasi rossa, e svetta al cielo con pinnacoli che paiono guglie di una cattedrale gotica. Stesso urlo al cielo, ma qui meno isterico di un qualunque duomo, e più maestoso.
C'è pure una roccia (nella foto sotto quella più a destra) che ci fa il dito medio per tutto il tempo.
Si fa fatica. Tanta. Scalare con queste temperature è impresa titanica e folle. Io procedo pianissimo, senza soste, in un ritmo ipnotico che mi richiama quei canti degli indiani d'America che ora sento così vicini, in questa zolla piena di spiriti a cestrali.
Gigi preferisce tirare a tratti, e poi fermarsi e rovesciarsi in testa le numerose taniche d'acqua che ignoti benefattori han lasciato a bordo strada.
Si sale e aumentano le guglie di roccia e i sassi rossastri, in una tavolozza di colori che tradisce sì l'arsura, ma sa di vita.
Sono già stremata e la sete è compagna costante. L'acqua calda, bollente, terribile. Il sudore cola negli occhi e acceca. Però questi paesaggi intorno valgono tutta la fatica. Sono grandiosi, ineffabili. È il nuovo mondo, questo qui, il nuovo mondo che cercavo. I regolo d'aria nei pressi del passo sono la tacita conferma di ciò che dico. Qui abitano gli spiriti, qui il cuore del mondo pulsa sotto alla roccia nuda e terra e cielo si stringono per tenere insieme questa limpida meraviglia. Mi commuovo di fronte allo spettacolo.
Si arriva al passo, fradici e cotti, ma felici. La conquista dell'inutile e la sua gioia infantile e pura, ecco cosa vive qui tra gli speroni dei monti.
Un momento di contemplazione e poi giù, a volo ripido sulla discesa benedetta e invocata, finalmente, verso la Golden Valley. Si vede proprio che il Grand Canyon è a solo 3 giorni di viaggio da qui. La conformazione delle alture non fa che ripeterlo. E io sono felice!
Giunti in valle ci buttiamo nel primo distributore e saccheggiamo i frigoriferi. Gigi prende anche un ghiacciolo che si rivelerà poi una potentissima tintura blu per labbra e lingua, come di chi ha fatto certe cose con Grande Puffo.
La sosta è lunga. Veniamo approcciati prima da un organizzatissimo anziani vietnamita, che parla un inglese con cadenza della sua lingua madre quasi incomprensibile. Ci chiede se siamo atleti internazionali e crede che sia uno scherzo che andiamo a New York. Lui vive da 30 anni in Canada ma da 6 sverna a Las Vegas. Ora ha comprato due terreni a soli 5000$ qui e ci suggerisce di fare lo stesso subito, perché i prezzi stanno lievitando. Qui, continua, vengono molti canadesi a svernare. Poi loda la nostra forza e capacità organizzativa. Dice che anche lui studia tappa per tappa i suoi trasferimenti in auto, per sapere sempre dove fare colazione, dove pranzo, dove cena e dove dormire. Non lascia che sia il caso a guidarlo. Afferma che non saprebbe però organizzare due mesi e che sicuramente abbiamo grandi capacità di sopravvivenza. Lui l'inverno scorso si è impantanato nel fango con l'auto e ha dovuto chiamare i soccorsi. Ancora ci fa i complimenti, ci stringe la mano e se ne va.
Poi attacca bottone un malandato, enorme, zozzo e pelosissimo sessantaseienne, ex militare mezzo cieco e mezzo sordo che ha vissuto un po'in tutti gli states. Prima mi prende per un ragazzo, poi è contento di scorpire che sono femmina e che quindi porto l'orecchino con un certo maggior diritto. Poi provola un po', continua a farmi i complimenti per l'aspetto, il coraggio e l'accento "pretty". Dice a Gigi che pedalerebbe anche lui se ci fossi io. Ma invero preferisce cavalcare la sua Harley e venire qui al distributore a bere schifezze dolciastre.
"New York è dall'altra parte del mondo!" esclama. Perché gli States sono IL mondo, qui.
Rifocillati e con qualche storia in più ascoltata, torniamo in sella. Pochi kilometri ci separano da Kingman, dove ho prenotato un motel, ma in mezzo c'è un altro passo da scalare.
Dopo il Coyote pass ecco aprirsi un'altra valle di roccioni e pinnacoli stupendi, muti nella loro altezza di pietra.
Arrivare a Kingman è un soffio leggero.
La città fu fondata grazie all'ufficiale Beale, ingegnere e topografo, che fu spedito qui a costruire una strada e la ferrovia, oltre che a sperimentare l'uso dei cammelli come animali da soma. Tra 1857 e 59 lo zelante Beale eseguì tutti gli ordini. La sua strada divenne poi parte della route 66 e della I-40.
La città risale al 1882 e sorge in territorio degli Hualapai.
Prima ferrovia e miniere, poi, durante la Seconda guerra, base dell'aeronautica, ancora sede di aziende e industrie e luogo di detenzione degli accusati di poligamia dello Short creek raid (1953).
C'è anche un memorial park dedicato ai pompieri caduti nel Doxol disaster, quando esplose una cisterna di propano che correva sulla ferrovia, nel 1973.
La città approfitta del mito della Route 66 e vive di una serena atmosfera vacanziera di provincia.
Noi ne approfittiamo per riposare al Ramblin' Rose motel.
PS. per chi se lo stesse chiedendo: qui in teoria si perde un'ora rispetto alla California ma, siccome in Arizona non fanno differenza tra ora solare e legale (ad eccezione della comunità Navajo) non abbiamo dovuto spostare le lancette. Non ancora, almeno.
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