18/7
Williams-Grand Canyon village
87km
Dopo una dormita profonda e serena grazie al ritrovato
fresco, la mattinata inizia con il piede giusto: splende un sole morbido, le
ruote delle bici sono ben gonfie e il Grand Canyon è vicino.
Fa dolce e forse qui vicino passi
Dicendo: "Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
Puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
Lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l'aurora e intatto giorno"
Dicendo: "Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
Puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
Lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l'aurora e intatto giorno"
L’idea è quella di arrivare il prima possibile al parco
nazionale, che è poi uno dei luoghi più visitati degli Usa, e poi ritagliarci
del tempo per visitarlo. Tanto so che, proprio all’orlo del Canyon, ci sono dei
campeggi, e uno in particolare, il Mather campground, fa ad hiker e biker il
prezzo nazional popolare di 3 dollari a capoccia. Direi benone!
Colazione dal solito benzinaio fedele e subito in sella, via
rapidi in un saliscendi sempre più Sali e meno scendi.
Il paesaggio intorno è un mare calmo di verdi e azzurri, tra
cespugli, alberelli e laghetti. Si va via spediti, solo con quel po’ di
ansietta da forature che viene ogni volta che sulla strada occorre un minimo
sobbalzo od una asperità del terreno. E’ la fobia che viene quando ci si sente
perseguitati dal dio del buso nella gòma, come è successo a noi i giorni
scorsi. Passerà prima o poi.
A onor del vero incontriamo sulla strada, intento a cambiare
una camera d’aria, un cicloturista dai tratti orientali; gli chiediamo se abbia
bisogno di aiuto e risponde che no, ha quasi finito e va tutto bene. Lo salutiamo
con un “See u at the Grand!” e via, pedalare.
Arriviamo, a circa metà strada, 40 degli 80km abbondanti, ad
un primo agglomerato di case, campeggi e negozietti vari, che gravitano intorno
alla gas station. E’ dove saremmo dovuti arrivare ieri, non fosse stato per il
cataclisma di forature e trapelli relativi. Poco male. Qui ci fermiamo per bere
qualcosa di fresco e *TA-DA!* chi compare dall’ombra di un tavolino? Il nostro
amico Paul, che avevamo incrociato ad Amboy ed aveva pedalato più o meno con noi
una delle tappe più dure della 66, quella in pieno deserto. Il brav’uomo dagli
occhi di ghiaccio ci chiede se abbiamo per caso visto un cicloturista
giapponese sulla strada, uno giovane e magretto che aveva forato. Altrochè!
Bene, è amico suo, hanno pedalato assieme i due giorni scorsi ed ora vanno
entrambi al Canyon e poi alla Monument Valley. Come noi. Ci ragguagliamo sulla
strada fatta i giorni scorsi (noi abbiamo seguito un percorso un po’
fantasioso, lungo il Colorado) e apprezziamo le porcherie presenti nei negozi
della stazione di servizio. Dalle auto d’epoca agli animali impagliati, dal
reparto abbigliamento cowboy alla sala interamente dedicata a gadget a tema
John Wayne, o Elvis, passando per l’indian-kitsch e l’international kitsch.
Nel frattempo arriva anche il giapponesino, che scopriamo
chiamarsi Shawn. Studente di lingue, 21 anni, sta pedalando da Los Angeles a
New York. E’ partito circa 2 settimane fa, va abbastanza piano e parla un
inglese buffo; è qui per migliorarlo. Ha una venerazione nei confronti di Paul
che fa quasi pensare si sia innamorato, ma di questo parliamo dopo.
A scaglioni, o a scoglioni, ripartiamo tutti per questi
ultimo 40 cappa che ci separano dalla meraviglia che già intuisco e pregusto,
senza sapere. Si sale e si sale, fino a quasi 2300 metri, e intorno la
vegetazione si fa più spessa, densa e alta; siamo di nuovo nella foresta di
Kaibab, per quanto arida e disseccata dal vento. Ogni poco un cartello ricorda
quanto sia alto il rischio di incendi. Le cicale friggono e friscono e frullano
e c’è un gran movimento di antenne ed elitre nell’erba alta, mentre al sole le
foglie e la corteccia esalano un profumo di resina che inebria.
Arriviamo a Tusayan, città che vive della vicinanza al
Canyon. Qui ci sono i parcheggi dei bus turistici, qui partono i tour in aereo,
elicottero, jeep, camioncini, camioncioni, birocci e sti cazzi, o sti gran
cazzi deluxe edition. Ribecchiamo Paul, che ha di nuovo lasciato indietro
Shawn. Paul è tutto smorfiato perché, prima, sperava di poter mangiare al
McDonald’s a prezzo pop, e già pregustava una terza colazione a base di bacon e
paninazzo con vista sul south rim. Invece dice che gli hanno dato 5 patatine
lezze e un panino microscopico a 18 dollari. Un furto! E’ davvero contrariato.
Insieme percorriamo ancora i pochi kilometri, discretamente
in salita, che ci separano dall’ingresso al parco. Qui c’è una sorta di casello
e noi ciclisti paghiamo 20 dollari a cranio per entrare (tutto escluso, si
parla solo di utilizzo strada). Paul è ancora più scornato, non aveva messo in
conto questa spesa.
Insieme tutti e 3 cerchiamo e raggiungiamo il Mather
campground, dove i gentili ranger ci danno uno spazio attrezzato nel bosco.
Tenda, doccia, merenda al mega supermercato che sta nel
centro del Grand canyon village e lesta partenza per visitare il più possibile.
La curiosità mi brucia la lingua più della sete. Sarà davvero così bello? Così
grande, così imponente, maestoso e mozzafiato come dicono? Sarà valso la
deviazione, che allunga la strada?
Sì.
Per capirlo bastano i pochi passi che ci conducono dal
campeggio, attraverso il boschetto profumatissimo, fino al sentiero panoramico,
via Shrine of the ages (una chiesa) e anfiteatro.
Il primo impatto con il Grand Canyon non si dimentica.
Ti entra nel profondo dell’anima, va in circolo subito,
attraverso la giostra del sangue. E’ un colpo, una botte forte, un’incendio che
esplode silenzioso e ti fa spalancare la bocca e sgranare gli occhi.
Come ben spiega Wikipedia
“è un'immensa gola creata
dal fiume Colorado nell'Arizona settentrionale.
È lungo 446 chilometri circa, profondo fino a 1.857 metri e con una
larghezza variabile dai 500 metri ai 29 chilometri. Per la maggior parte è
incluso nel parco nazionale del Grand Canyon,
uno dei primi parchi nazionali degli Stati Uniti d'America.
Quasi due miliardi di anni della storia della Terra sono emersi alla luce
grazie all'azione del fiume Colorado e dei suoi affluenti che
in milioni di anni hanno eroso le rocce strato dopo strato, unita al
sollevamento del Colorado Plateau.
Il primo europeo a vedere il Grand Canyon fu lo
spagnolo García López de Cárdenas, che nel 1540 partì
dal Nuovo Messico alla ricerca del misterioso fiume
di cui parlavano gli indiani Hopi. La prima spedizione scientifica verso il canyon fu
guidata dal maggiore statunitense John Wesley Powell alla fine degli anni '70 del XIX secolo.
Powell descrisse le rocce sedimentarie esposte nel canyon come
"pagine di un grande libro di storia". Comunque, molto prima di
queste scoperte, l'area era abitata da Nativi
americani che costruirono insediamenti tra le pareti del canyon. Il
presidente Theodore Roosevelt amava molto l'area del
Grand Canyon e la visitò diverse volte, per andare a caccia di puma ed
ammirare il paesaggio”.
E si capisce. Sembra una mastodontica città di pietra che va
a perdersi tra il rosso e il grigio ben oltre l’orizzonte dello sguardo. E’
un’Atlantide di giganti scomparsi, un formicaio dove brulicano i millenni. Un
profondo, assoluto, inafferrabile abisso in lungo e in largo dove si percepisce
la verticalità del tempo, il cadere, l’essere attratti al fondo.
Sempre Wikipedia spiega:
Il Grand Canyon è un lungo taglio, molto profondo - in
alcuni punti anche 1.600 metri - nella regione del Colorado Plateauche rende visibili strati
del Proterozoico e del Paleozoico.
Gli strati sono gradualmente messi in luce da una leggera pendenza che inizia
nella località Lee's Ferry presso la città
di Page in Arizona e
continua fino alle Hance Rapid nel
fiume Colorado. Il sollevamento dell'edificio della montagna (l'orogenesi),
associato alla tettonica a zolle, causò l'elevazione a centinaia
di metri dei sedimenti, creando la zona degli Altipiani del Colorado.
L'elevazione della regione provocò anche un aumento delle precipitazioni
atmosferiche in tutto il bacino idrografico del fiume Colorado, ma
non abbastanza per salvare l'area del Grand Canyon dal diventare semi-arida.
Infatti le frane ed altri smottamenti causarono poi uno sprofondamento del
letto stesso e la conseguente deviazione del corso del fiume, che aumentarono
la profondità e la larghezza dei canyon, nonché l'aridità dell'ambiente.
L'innalzamento dell'Altopiano del Colorado è irregolare: il
confine settentrionale del Grand Canyon risulta più alto di circa 300 metri
rispetto a quello meridionale. Il fatto che il fiume scorra più vicino al
margine meridionale del Canyon è dovuto a quest'innalzamento asimmetrico del
terreno. Pressoché tutta l'acqua che cade al di sopra del margine
settentrionale dell'Altopiano (che percepisce più precipitazioni piovose e nevose) convoglia
all'interno del Grand Canyon; al contrario, al di sotto del margine
meridionale, l'acqua defluisce in un'altra direzione, seguendo l'inclinazione
generale. Il risultato è un'erosione a nord del fiume molto più marcata, con un
Canyon e i suoi Canyon affluenti caratterizzati da larghezze più repentine a
nord del fiume.
Le temperature sull'orlo nord (North Rim) sono in
genere più basse di quelle dell'orlo sud (South Rim) a causa dell'altitudine
(2.438 m sopra il livello del mare). Le
nevicate durante l'inverno sono comuni.
Ma questo non basta a descrivere la meraviglia che provocano
i diversi strati di roccia di colori diversi e i giochi di ombre e luci che il
sole plasma tra gole e pinnacoli. L’occhio corre da un lato all’altro, tra
segni lasciati dal fiume e segni lasciati dai millenni. Regna un silenzio
grande, interrotto solo a tratti dalle voci di altri turisti, che però sono
pochi e radi, a quest’ora, e dispersi nei molti kilometri di passeggiata. Io
trovo anche, tra le rocce, questa medaglietta. E’ un segno fausto.
Seguendo in parte le vibrazioni del cuore, in parte i
numerosi volantini disponibili su donazione nel parco, ci muoviamo prima verso
oriente, fino al Mather point, tra scoiattolini e scoiattoloni di ogni forma e
colore che cercano cibo e acqua. Poi, con uno dei molti shuttle gratuiti che
girano il giro del south rim, l’orlo meridionale, ci portiamo nella parte più
ad ovest, dove si trovano alcuni edifici storici di chi per primo abitò e
studiò questi luoghi. Sono casette di legno di scienziati e intraprendenti
albergatori, nulla di più.
Il gran camminare sotto al sole ci ha sfiniti del tutto,
aggiungendo un velo di stanchezza d’argento, come polvere fina, sulle dune
della stanchezza già accumulata pedalando. E’ tempo di tornare alla tenda,
fatta una gran bella spesa per una cena coi fiocchi. Ai bagni incrociamo un
venezuelano che fa il custode qui e parla bene italiano. Prima canta diverse
canzoni datate con Gigi, poi ci racconta di essersi laureato in ingegneria
navale a Genova e aver lavorato a lungo in Italia. Chissà come poi è finito qui
a pulire i cessi… Davvero viaggiando di incontrano le molte strade dei tanti
nomadi, che si intersecano con la nostra in maniera imprevedibile, come linee
della mano.
Al campeggio scopriamo che Shawn è arrivato e ha cenato con
Paul. Ci aggiungiamo alla coppia al
tavolone, mentre il crepuscolo cede il passo alla notte e le stelle brillano di
una luce magica. Shawn dice che è il suo primo viaggio fuori dal Giappone e che
vorrebbe anche venire in Europa; io vorrei andare nella terra del Sol Levante.
Ci raccontiamo frammenti delle nostre vite, che prendono forme strane come i
chicchi colorati dei caleidoscopi. Sa fare bene il sushi, dice, e pronuncia
Milano con la R, MiRano. Poi tocca a Paul. 44 anni, polacco, vive da 18 anni in
Australia. Si occupa di pc. Ha percorso in sella 47.000km un po’ in tutto il
mondo ed era anche lui in Asia centrale l’anno scorso, proprio come me. E’ un
viaggiatore esperto, Shawn lo ha eletto come mentore e maestro e d’ora in poi
procederanno insieme. Si comportano come una bella coppietta in stile Hentai.
Paul racconta aneddoti di viaggio, come quando aveva incontrato, nel deserto,
in Australia, un tizio che viaggiava a piedi, con un cane e per beneficenza. E
viaggiava a 50 gradi, con un carretto, da solo, tutto vestito da Stormtrooper.
Parliamo dei nostri cicloviaggi, di casa, di cosa faremo. E poi si va in tenda.
Loro domani si fermeranno qui, perché Shawn di tutto il popò di roba che c’è
qui ha visto solo il supermercato e Paul vuole portarlo a vedere il Canyo. Noi
invece ripartiamo. Abbiamo visto bene ciò che c’era da vedere, ci siamo
lasciati rapire dalle distanze immense. La strada chiama.
19/7
Grand Canyon village-Tuba City
138km
La notte è stata tormentata da insidie intestinali. Imodium,
fermenti lattici, e per oggi si mangia in bianco, o quel che si riesce di
leggero. Sarà stata la verdura, sarà stato il caffellatte, sarà stata l’acqua
calda… Ma io proprio ho passato una vera e propria notte di merda, in un
continuo andirivieni al cesso, nel buio, incimpiando nei sassi, sotto il
derisorio sguardo dei cervi.
Non sto mica troppo bene, ma decidiamo di partire comunque,
dopo una colazione con oatmeal, zucchero grezzo e fruttina secca.
I primi 40km sono difficili per il saliscendi, ma
incantevoli, spettacolari e indescrivibili di meravilgia per il paesaggio. La
strada corre infatti lungo lungo il south rim, costeggianfo il precipizio del
canyon. A tratti scompare dietro ai rami o alle rocce, a tratti ricompare
invece e si spalanca, rubando lo sguardo, che rimane incollato, rapito,
magneticamente attratto dagli scorci rossi e verdi delle rocce erose,
collassate, crollate e ricadute su loro stesse.
La prima sosta è anche l’ultimo saluto al Canyon. Arriviamo
al desert view, dove sta l’altro campeggio del south rim, insieme a negozi e
baracchini vari. Qui c’è una torre finto antica, che però dà bene la misura
della fuga temporis e del ricrollo della pietra sulla pietra, che da montagna
diventa sabbia e riempie le clessidre. Qui c’è anche una targa dedicata al
disastro aereo del 1956.
Wikipedia dedica un capitolo ale tragedie occorse tra queste
guglie di roccia.
Dal 1870 circa 600 persone hanno perso la vita nel Grand
Canyon. Secondo i dati pubblicati nel libro Over the Edge: Death in the
Grand Canyon, pubblicato nel 2001, 50 incidenti sono stati causati da cadute; 65
sono attribuiti a cause naturali, come ipotermia, arresto cardiaco e
disidratazione; 7 persone morirono per i temporali; 78 annegarono nel fiume
Colorado; 242 persone furono coinvolte in incidenti aerei, tra i quali fu
particolarmente disastroso quello del 1956, in cui due aerei in linea si
scontrarono in quota e precipitarono nel Grand Canyon: tutti i 128 passeggeri
morirono; le morti causate da incidenti o fenomeni naturali, come la caduta di
rocce, sono 25; infine, 47 persone si suicidarono e 24 furono uccise. Dopo
numerose indagini, venne anche alla luce che alcuni presunti suicidi erano in
realtà delle cadute provocate dalla vertigine causata dallo strapiombo.
Noi facciamo una sosta contemplativa per augurare
l’arrivederci a questo luogo stupendo e disumano a un tempo. Arrivederci e non
addio, c’è sempre un buon motivo per tornare, dove si è stati e dove ancora non
si è stati. Non resisto alla tentazione di incidere un cent (al costo di mezzo
dollaro) con un simbolo hopi. Resisto invece alla tentazione delle caramelle al
cactus. Sto già male abbastanza!
Si riparte e per i successivi 54km sarà pressochè tutta
discesa: da 2200m a 1200m di caduta libera tra boschi e praterie, lungo una
strada così bella e panoramica da valere l’intero viaggio. Al bosco di verde
scuro fan spazio le rocce chiare, quasi bianche, come le ossa della terra
levigate dal vento. Poi vengono le colline di terra rossa e i canyon, gli
strapiombi e l’orizzonte scosceso dei monti, poi pianure aperte, enormi, da
indiani a cavallo che corrono e corrono, ombre nel sole.
Siamo entrati a Navajoland, ovvero la riserva indiana dei
Navajo.
La Riserva Navajo o Nazione
Navajo (in navajo: Naabeehó Bináhásdzo, in inglese: Navajo
Nation) è una riserva indiana che si trova a cavallo degli
Stati dell'Arizona, Nuovo
Messico e Utah, nel sud-ovest degli Stati Uniti.
Secondo quanto indicato dell'ufficio statunitense per il
censimento (U.S. Census Bureau), la riserva ha una superficie di
71.000 km² ed al censimento del 2000 aveva una popolazione di 180.462
abitanti.
La riserva venne istituita nel 1868 all'interno del trattato stipulato
fra i Navajo e
il governo degli Stati Uniti dopo il fallito tentativo di confinamento dei
Navajo a Bosque Redondo. Le dimensioni iniziali erano di
circa 3,5 milioni di acri (14.100 km²), cioè circa un quarto delle
dimensioni attuali.
Il nome Navajo deriva dal
termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da
alcune popolazioni del sud ovest, significa Campo coltivato in un piccolo
corso d'acqua. In lingua navajo si usa il termine Diné (talvolta
citato nella letteratura come Dineh) che significa Il popolo.
Dal punto di vista etnico i Navajo appartengono al
ramo athabaska meridionale,
originario dell'Alaska e
del nord del Canada e
in realtà appartengono all'insieme delle nazioni Apache che
intorno al 1500,
provenienti dal nord, si stanziarono in un vasto territorio che si estende
dall'Arizona al Texas occidentale
e dal Colorado al
nord del Messicoentrando
in conflitto con le popolazioni Pueblo che
vivevano in quei territori. A differenza delle altre popolazioni amerindie gli
Apache non avevano una sola identità di nazione o tribù, ma erano distinti in
clan o gruppi familiari estesi, fondati su base matrilineare (gli uomini
andavano a vivere presso la famiglia della sposa). Ciascun gruppo si considera
una nazione.
Dal punto di vista linguistico la lingua
navajo appartiene al gruppo delle lingue
athabaska della famiglia Na-dené,
la stessa tipologia linguistica degli Athabaska del nord e
degli Apache in senso stretto.
I Navajo discesero dalle regioni fredde dell'America settentrionale e si
insediarono, poco prima del contatto con gli Europei nel
bacino del San Juan, affluente del fiume Colorado, intorno al 1500 in parte dei
territori degli attuali Colorado, New
Mexico e Arizona. Da popolo di invasori si trasformarono in una
nazione seminomade vivendo principalmente di agricoltura e
secondariamente di allevamento. Col passare del tempo questa attività li
distinse culturalmente dal resto degli Apache,
dal momento che le altre popolazioni indiane e gli spagnoli identificavano i
Navajo come una tribù di abili coltivatori.
Una prerogativa condivisa con il resto delle
popolazioni Apache era il frequente ricorso alla razzia ai
danni di Europei e
Pueblo allo scopo di incrementare la proprietà in cavalli e pecore.
Contrariamente a quanto si racconta nell'epopea western,
gli Apache e i Navajo non avevano il culto
della guerra e
del coraggio e nella loro struttura sociale mancavano associazioni assimilabili
a società di guerrieri come nelle popolazioni delle Grandi
Pianure: i fatti di guerra consistevano in realtà in razzie e azioni di
guerriglia tese a sfuggire alle rappresaglie. Il valore individuale nella
cultura Apache e dei Navajo si misurava non nell'atto di
coraggio bensì nell'efficacia della razzia e nell'entità dei beni posseduti
(cavalli e bestiame). La guerra pertanto assumeva i caratteri di una tattica di
guerriglia in cui si evitava lo scontro fine a sé stesso, ma solo dettato dalla
necessità di giungere ad uno scopo economico.
La struttura sociale delle nazioni Apache e
dei Navajo, polverizzata in gruppi familiari estesi senza livelli di
organizzazione di grado più alto, il rifiuto della guerra aperta, il ricorso
alla razzia come attività economica resero queste popolazioni avversari
difficili per gli Stati Uniti e in effetti furono tra le
ultime nazioni indiane ad arrendersi definitivamente.
In prossimità della Guerra di secessione americana, il
governo degli Stati Uniti per garantirsi l'appoggio
dell'Arizona e
del New Mexico decise di porre fine al problema delle
razzie e di confinare le popolazioni più bellicose, in particolare i Mescaleros e
i Navaho a Bosque Redondo, una riserva del Nuovo Messico.
L'operazione con i Navajo, di cui fu incaricato il colonnello Christopher
Carson, si sarebbe dovuta svolgere pacificamente per mezzo di trattative,
tuttavia la difficoltà di trattare con un'organizzazione sociale polverizzata e
dispersa in un vasto territorio portò allo scoppio di una campagna di guerra
durata quasi un anno (1863-1864). Il risultato fu
una tragedia: agli oltre 1000 caduti durante la guerra si aggiunse la
deportazione a piedi di circa 8000 Navajo verso Bosque Redondo con una marcia
forzata di 300 miglia, nel corso della quale persero la vita le persone più
deboli.
Il confinamento a Bosque Redondo, durato 5 anni, è segnato
come la pagina più nera della storia dei Navajo. La riserva era ubicata in un
territorio malsano, quasi privo di vegetazione e poco vocato all'agricoltura. I
rifornimenti di vettovaglie da parte dell'esercito erano scarsi e di cattiva
qualità ed erano frequenti gli scontri con i Mescaleros, con i quali si
condivideva il confinamento.
Nel 1868 venne stipulato un trattato fra i Navajo e il
governo degli Stati Uniti che pose fine al confinamento a Bosque Redondo e
definì i confini di una nuova riserva posta a cavallo fra gli stati americani
di Arizona, New
Mexico e Utah che
costituì la base della riserva Navajo definitiva, chiamata anche Navajo
Nation.
Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica
mutazione nella storia dei Navajo. La popolazione tornò all'attività agricola
ma intensificò l'allevamento, l'artigianato (in particolare la tessitura e la
lavorazione dell'argento)
e cessò con le razzie. Diversi Navajo integravano il reddito, quando non era
sufficiente, con il lavoro salariato. Il nuovo corso fu così favorevole che la
ricchezza dei Navajo crebbe a livelli tali da spingere il governo degli Stati Uniti a regolamentare l'incremento
dei capi di bestiame allevati a causa dell'eccessivo numero.
Il popolo dei Navajo conta oggi oltre 300.000 persone e
costituisce il secondo gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani dopo
quello dei Cherokee, stanziato in un territorio del nord est dell'Arizona. Il
territorio dei Navajo, che supera in estensione ben 10 dei 50 stati degli USA,
gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi esempi
di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società
statunitense. Pur mantenendo vivi i propri valori (lingua, cultura,
tradizione), i Navajo si sono adattati al progresso nell'ultimo secolo
organizzandosi in una struttura sociale autonoma moderna e integrata come
nazione all'interno di una nazione.
Uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini
americani fu l'uso della lingua dei Navajo come codice di comunicazione durante
la seconda guerra mondiale e il
fondamentale apporto dato ai risultati delle battaglie dell'esercito americano
contro i giapponesi da
parte dei code talker Navajo (letteralmente "coloro che parlano
il codice"). La lingua navajo, una lingua complicata e a quel tempo
praticamente sconosciuta in tutto il mondo al di fuori degli Stati Uniti, non
fu mai decodificata dal controspionaggio giapponese.
L'immaginario metafisico non è rivolto verso l'alto, come
per le culture occidentali, ma verso il basso. Verso le originarie forze della
profondità terrestre. Particolare importanza hanno anche le
montagne. Narrano di più ere del mondo, ciascuna distrutta da un
cataclisma. Infine parlano di due Gemelli analoghi agli Eroi gemelli Maya.
Non è certo una terra ricca, questa. Per più di 50km non c’è
una città, ma baracche sparse e qualche mercatino fatto da quattro assi legno
dove volti intagliati nel cuio attendono qualche turista che compri la carne
secca di bisonte, un tappetto o un gioiello di perline.
Ben poco resta, e quel poco è misero, polveroso e muto.
Case di spiriti fatte di albe
fatte di muschio
fatte di cotoni
fatte di pioggia
fatte di soli
fatte di turchesi
fatte di venti
fatte di pelliccia
fatte di pollini
fatte di pietra focaia
fatte di cristalli.
Spiriti di tutte le case
sotto i cieli,
benedite la mia casa
fatta di fango, resina, pino.
Benedite la mia famiglia
fatta di sangue, midollo, osso.
fatte di muschio
fatte di cotoni
fatte di pioggia
fatte di soli
fatte di turchesi
fatte di venti
fatte di pelliccia
fatte di pollini
fatte di pietra focaia
fatte di cristalli.
Spiriti di tutte le case
sotto i cieli,
benedite la mia casa
fatta di fango, resina, pino.
Benedite la mia famiglia
fatta di sangue, midollo, osso.
Mentre assaggiamo questa nuova terra, e già l’oriente ci ha
rubato un’ora dal polso, mentre penso alla storia di questi popoli, così
sbagliata, così violenta, così simile a quella dei volti siberiani cacciati dai
russi e confinati nei ghiacci, arriviamo a Cameron. Sono quattro case e due
ristoranti che vendono “curous food”, trappole per turistacci americani che
hanno l’immagionario dal film western. Noi facciamo tappa alla stazione di
benzina, beviamo un tè caldo e riusciamo a connetterci a internet (qui la rete
del telefono è del tutto assente).
Nella stazione di servizio, oltre alla chincaglieria varia
indian-kitsch, notiamo i molti volti da nativi: la stragrand maggioranza della
popolazione, da queste parti, è di origine Hopi o Navajo. Molti sono in
cartelli in doppia lingua, inglese e navajo. Molte le foto e i ricordi e il
tentativo di fare memoria di una storia che altrimenti volerebbe via come
questa sabbia rossa portata dal vento.
Usciamo nel caldo caldissimo che è di nuovo tornato e ci
muoviamo nel vento bollente, su una strada scassata e pericolosa, mentre le
folate ci buttano fuori carreggiata. E’ il saluto del Deserto dipinto, che ci
accoglie nella sua fornace resa più umana dall’ora mite.
Cito Wikipedia, alla voce painted desert: “caratterizzata
da calanchi di
rocce contenenti ferro e manganese che colorano queste con sfumature di colore
rosso e giallo di varie tonalità.
Il deserto si estende dal Grand
Canyon in direzione sud-est per circa 240 km fino ad Holbrook, la Foresta Pietrificata e la
punta meridionale del Defiance Plateau. Il limite
meridionale è rappresentato dai fiumi Little
Colorado e il suo affluente Puerco River, mentre il limite
settentrionale è formato dalle propaggini meridionali dell'Altopiano del Colorado e dalla Black Mesa. La larghezza varia da 25 a
80 km e la superficie totale è di circa 19.400 km². L'altitudine
varia da 1.370 a 1.980 m s.l.m.”
Le dune e gli speroni di roccia che vanno dal bianco al
rosso, dal verde al nero giocano con la luce obliqua del sole che cala. Siamo
esausti e intorno tutto si mescola e le forme diventano vento e il vento sabbia
e roccia, l’ombra sembra acqua ed è solo la notte che arriva come alta marea.
Motociclisti devoti, che vengono qui dove son state girate molte scene di Easy
rider, ci salutano e ci fanno la V con le dita, il segno di pace. Noi
arranchiamo, si sale e si scende e risale.
Al kilometro 138 finalmente raggiungiamo Tuba city, che va
pronunciata con un conseguente suono di trombetta fatto con la bocca o col
culo. Tuba city tuttturùùù!
Tuba City (in navajo: Tó
Naneesdizí) è un census-designated place (CDP)
degli Stati Uniti d'America della contea di Coconino nello Stato dell'Arizona. La
popolazione era di 8.611 abitanti al censimento del 2010. Si trova sulle terre
dei Navajo.
È la più grande comunità della Riserva
Navajo, leggermente più grande di Shiprock, Nuovo Messico, ed è il quartier
generale dell'Agenzia Navajo Occidentale. La città Hopi di Moenkopi si
trova direttamente a sud-est.
Il nome della città onora Tuba, un capo Hopi di Oraibi che si
convertì al mormonismo. Il nome in navajo di Tuba City, Tó Naneesdizí, si
traduce in "acque aggrovigliate", che probabilmente si riferiscono
alle numerose sorgenti sotterranee che sono la fonte di numerosi serbatoi.
Tuba City si trova all'interno del Deserto Dipinto vicino
al confine occidentale della Riserva Navajo. La città si trova sulla U.S.
Route 160, vicino all'incrocio con l'Arizona State Route 264.
Tuba City si trova circa 50 miglia (80 km) dall'ingresso orientale
del Grand Canyon National Park. La maggior
parte degli abitanti di Tuba City sono Navajo, con una piccola minoranza Hopi.
Si trova all'interno dell'Arizona's 1st Congressional District, attualmente
rappresentato da Tom O'Halleran.
La storia scritta della città risale a più di 200 anni.
Quando Padre Francisco Garcés visitò
la zona nel 1776, scrisse che gli indiani coltivavano colture. La città prese
il nome da Tuuvi, un capo Hopi. Il capo Tuuvi si convertì al mormonismointorno
al 1870 e invitò i mormoni a stabilirsi vicino a Moenkopi.
Tuba City fu fondata dai mormoni nel
1872. Tuba City attirò gli abitanti Hopi, Navajo e Paiute nell'area
a causa delle sue sorgenti naturali. Nel 1956, Tuba City divenne
una boomtown dell'uranio, come ufficio regionale per la Rare Metals Corporation e
la Atomic Energy Commission. Il
mulino chiuse nel 1966 e il recupero del mulino e dei cumuli di sterili fu
completato nel 1990.
Noi arriiviamo sfatti ed optiamo per un motel, gestito da un
indiano volto di aquila, volto di cuio, che non sorride mai, pur nella sua
gentilezza. Facciamo la spesa e incrociamo solo volti di nativi, più o meno
sfatti dall’alcol e dal cibo spazzatura, in questa fetta di America che sembra
un altro mondo. E probabilmente lo è.
20/7
Tuba City-Navajo national monument
129km
La tappa di oggi si sarebbe dovuta limitare a un quieto trasferimento verso est lungo la Navajo Trail, la strada che attraversa le riserve di questo popolo e degli Hopi tra Canyon, praterie immense e colline sgretolate di terra rossa. Il programma, scritto a casa, a tavolino, prevedeva di raggiungere Kayenta, città che fa da porta alla Monument Valley e sta a quasi 120km da Tuba city tutturù. Però, controllando bene, mi sono accorta che a Kayenta avremmo trovato solo alloggi di lusso, roba da 180-200$ a notte. Dunque, cercando campeggi, Maps me ne dava uno soltanto, il sunset view, su una montagna a 2200m tra Shonto e Tsegi, paesucoli microscopici di quattro case di cartone e lamiera. Detto campeggio, con valutazioni altissime e commenti super positivi (gratis, vista bellissima, doccia calda, wow), si trova nel sito del Navajo National Monument, proprio davanti alla Navajo Mountain. Sono luoghi simbolici, quasi sacri, pieni pieni di spiriti e voci di un popolo che ha reso questa terra un luogo degli uomini. Dunque, benone. 100km abbastanza salini (di salita) e un bel campeggio aggratis.
Prima di partire siamo usciti a fare colazione al solito benzinaio e un uomo, indiano evidentemente, ci ha chiesto dei soldi, adducendo la scusa che veniva dall'ospedale, sua madre era morta e doveva tornare a casa ad avvisare i fratelli. Il fatto di non dargli nulla ci è costato, probabilmente, la maledizione che ci ha colpiti qualche ora dopo.
Invero i primi 65km son filati via liscissimi. Vento a favore, saliscendi tagliagambe ma non massacrante per il nostro allenamento. Paesaggi molto vari, dai prati immensi alla roccia nuda (come l'elephant feet, che prelude alla Monument Valley), dalle dune di sabbia rossa al verde dei monti della Black Mesa. Abbiamo fatto una sosta acqua fresca al 35esimo kilometro, e qui ho anche fatto l'acquisto del secolo: crema con mentolo, canfora e sciamanesimo per muscoli e articolazioni a 1.39$. Sono passati personaggi vari vestiti da cowboy e da indiano, tutti assai sciancati, ma tant'è. Se non qui...
Poi, al 66km, seconda e ultima sosta prima del campeggio (in mezzo, nulla). Al benzinaio Shell, che ha anche laundromat e supermercato, vediamo transitare interi paesucoli dei dintorni. La gente delle colline e dei ranch viene qui a fare la spesa e a lavare i vestiti. Magari nemmeno hanno acqua e corrente, nelle case. Noi, belli tranquilli, ci rifocilliamo e, approfittando della wifi, studiamo come raggiungere il campeggio. Ci sono 2 strade possibili. Una segue la via principale, quella su cui già pedaliamo, e piega a gomito dopo 20km dentro ai monti, con una salita di 15km a strappi e con pendenze importanti. L'altra invece va subito, a partire dal benzinaio, nelle colline, e poi corre parallela allo stradone ma più in alto, tagliando per il paesino di Shonto. È più corta e meno ripida.
Controllo anche, per i primi 20km su 35, che sia asfaltata. Lo è. Ovviamente scegliamo questa strada
Fino a Shonto è una meraviglia. La strada si arrampica pian piano sui monti e taglia per prati di cespugli irti di spine e tavolati di roccia rossa. Qualche ranch e qualche casetta ogni tanto interrompono la natura qui ancora piuttosto incontaminata e libera. A Shonto c'è festa: musica e balli country, rodeo e gente che ride e canta. Ci vedono passare, un pick up si ferma e due donne indiane ci chiedono dove stiamo andando. Al sunset campground! Guardate, rispondono, che da qui è sterrata! Scendete qui nel Canyon, è meglio. Guardiamo giù. Un precipizio che si tuffa nel vuoto di roccia e poi risale con altrettanta violenza. No no, andiamo dritti. Se è sterrata andremo più piano ma mancano solo 15km ed è presto.
Andiamo poco oltre e l'asfalto finisce davvero. E la strada sale e scende a brutte gobbe.
La prima manciata di metri è tosta di ghiaia e sassi ma pedalabile. Si ferma un'altra auto. Stessa scenetta di prima, ma aggiungono: spero arriviate prima del tramonto! Eh la Madonna, mancano 14km e son solo le 16! Ma la maledizione navajo sta già agendo su di noi, a nostra insaputa. Proseguiamo, fiduciosi. Ma il ghiaino diventa sabbia. Sabbia sempre più fina e fonda, Sabbia d'oro e rossa impedalabile, che rende difficilissimo anche trascinare a mano la bici pesante, che affonda, che sbanda, che non sale in salita e scende troppo in discesa. Camminiamo. Si fermano altre auto, ci consigliano strade alternative che passano fra campi e Canyon. Ma è tutta così. Ormai le scarpe sono piene zeppe di sabbia e i piedi si pigiano dolorosamente contro le dune formatesi in punta. Siamo luridi. Le bici, peggio. Proseguiamo. Penso: alla prossima auto che si ferma chiediamo acqua, alla peggio campeggeremo alla bella, dove la notte ci coglie. Passa un'auto cisterna. La fermo. A bordo quattro indiani vestiti da cowboy con il viso da esquimesi. Spieghiamo la situazione. "No no! Avete sbagliato strada! Di qui va a peggiorare, non riuscite con le bici. Dovete tornare tutto tutto indietro fino al benzinaio, allo stradone, e proseguire su quello e poi salire sulla strada che piega in montagna, che è asfaltata". Insomma, avevamo due opzioni e abbiamo scelto quella sbagliata. Solo che ormai si sta facendo tardi e tornare indietro significa rifarsi 4km camminando nella sabbia e una ventina a pedalare, ritornare alla Shell e da lì farsi 20km di montagne russe e 16 di salita secca. Da spararsi. Chiediamo acqua e gli indiani gentili benché bruschi ci riempiono le.borracce con un brodo di acqua torbida e erba e terra della cisterna. Ma si può bere? Sì, loro bevono quella. Se ne vanno e noi giriamo le bici indietro. È l'unica soluzione. Torneremo al benzinaio, faremo scorta d'acqua e poi si vedrà se campeggiare in giro wild (che non è il massimo qui nella riserva), chiedere ospitalità a qualcuno (ma non ci sono città), raggiungere il campeggio comunque a ogni costo e tirar dritto a Kayenta.
Mentre camminiamo e medito sul da farsi, accosta un macchinone e una ragazza indianissima, capelli neri di seta raccolti in treccia e pelle olivastra, si ferma e ci chiede che stiamo facendo. Ci spiega che la gente del posto va in bici tranquillamente fino al campeggio, che forse riusciamo prima del tramonto ma che è meglio comunque tornare sulla strada principale asfaltata. Ci offre acqua. Le chiedo dove stia andando lei. "Al benzinaio Shell a comprare il ghiaccio, non abbiamo elettricità e frigo a casa". Anche noi andiamo lì... Hai spazio in auto per caricarci? "No, ma posso tornare a casa, a due minuti da qui, lasciare l'auto e prendere il camion. Se voi continuate a camminare tra 5' vi raggiungo e vi carico". Oh graziosa fanciulla dolcissima e gentile! Tu sia benedetta! Grazie! Grazie mille in tutte le lingue del mondo! Così accade. La ragazza, di cui ahimè non ho compreso il nome, fa inversione a U, torna a casa, lascia l'auto, prende il mega pick up e ci ritrova qualche centinaio di metri avanti. Carichiamo sul cassone bici e borse (lei tira su dei pesi allucinanti senza nemmeno una goccia di sudore) e ci fa salire davanti, accanto a lei. In auto va un CD di musica indiana di quelle "eoh eoh eoh ehhhhh eoh eoh eoh ehhhhhhh!". Ci spiega che lei fa la guida turistica a Page ma nel weekend torna al ranch dove vivono i suoi ad aiutarli con pecore e cavalli. Ci chiede di noi, le spiego. Ride pensando al fatto che o nostri grandi progetti si erano incagliati nella sabbia tra le colline, e io calco la mano sulla nostra ingenuità. Lei spiega che va a prendere il ghiaccio perché a casa dei suoi non ci sono né corrente né acqua e non hanno modo di conservare il cibo. Lei è cresciuta lì senza nulla, né luce né tv né computer. E dire che avrà 20 anni. Mi fa vedere che sulla strada, oltre un certo punto, ci sono i pali della luce. "Se nasci qui sei fortunato, il telefono comunque non va ma almeno la sera puoi leggere senza bisogno di candele e fiamme". Ecco l'America, signori miei. Il paese della Silicon Valley. E dei villaggi dove gente più giovane di me è cresciuta come cent'anni fa e più.
Mentre camminiamo e medito sul da farsi, accosta un macchinone e una ragazza indianissima, capelli neri di seta raccolti in treccia e pelle olivastra, si ferma e ci chiede che stiamo facendo. Ci spiega che la gente del posto va in bici tranquillamente fino al campeggio, che forse riusciamo prima del tramonto ma che è meglio comunque tornare sulla strada principale asfaltata. Ci offre acqua. Le chiedo dove stia andando lei. "Al benzinaio Shell a comprare il ghiaccio, non abbiamo elettricità e frigo a casa". Anche noi andiamo lì... Hai spazio in auto per caricarci? "No, ma posso tornare a casa, a due minuti da qui, lasciare l'auto e prendere il camion. Se voi continuate a camminare tra 5' vi raggiungo e vi carico". Oh graziosa fanciulla dolcissima e gentile! Tu sia benedetta! Grazie! Grazie mille in tutte le lingue del mondo! Così accade. La ragazza, di cui ahimè non ho compreso il nome, fa inversione a U, torna a casa, lascia l'auto, prende il mega pick up e ci ritrova qualche centinaio di metri avanti. Carichiamo sul cassone bici e borse (lei tira su dei pesi allucinanti senza nemmeno una goccia di sudore) e ci fa salire davanti, accanto a lei. In auto va un CD di musica indiana di quelle "eoh eoh eoh ehhhhh eoh eoh eoh ehhhhhhh!". Ci spiega che lei fa la guida turistica a Page ma nel weekend torna al ranch dove vivono i suoi ad aiutarli con pecore e cavalli. Ci chiede di noi, le spiego. Ride pensando al fatto che o nostri grandi progetti si erano incagliati nella sabbia tra le colline, e io calco la mano sulla nostra ingenuità. Lei spiega che va a prendere il ghiaccio perché a casa dei suoi non ci sono né corrente né acqua e non hanno modo di conservare il cibo. Lei è cresciuta lì senza nulla, né luce né tv né computer. E dire che avrà 20 anni. Mi fa vedere che sulla strada, oltre un certo punto, ci sono i pali della luce. "Se nasci qui sei fortunato, il telefono comunque non va ma almeno la sera puoi leggere senza bisogno di candele e fiamme". Ecco l'America, signori miei. Il paese della Silicon Valley. E dei villaggi dove gente più giovane di me è cresciuta come cent'anni fa e più.
Mi ricorda molto la ragazza che mi fece da guida nel deserto del Gobi, in Mongolia. 20 anni di cui 16 passati in tenda, senza acqua, senza elettricità, fuori da un mondo in corsa. Però in Mongolia te lo aspetti. Qui no. E queste generazioni giovani cercano il riscatto, per non vivere come i loro genitori, nonni e bisnonni. Allora vanno in città e studiano. E spesso riescono nella piccola grande impresa di vivere una vita diversa.
I
I
In un attimo siamo al benzinaio. Scarichiamo tutto e non so come ringraziarla. Lei è molto timida e schiva e, mentre rimontiamo le bici, sparisce al supermercato. Torna più tardi, non vuole nulla, neanche un thank you detto bene. Sorride, dice che è a posto così, e se ne va. Grazie fanciulla indiana, ci hai evitato una bella menata!
Ora bisogna però sbrigarsi. Non c'è tempo per i sentimentalismi. Compriamo acqua, un gallone lo carico io e Gigi una bottiglia da 1.5 litri. Il cibo già lo abbiamo. Il tramonto si avvicina, abbiamo ancora un'ora e mezza di luce, più mezz'ora di crepuscolo. Io sono stanchissima per altro. Non ho mangiato abbastanza, ieri abbiamo pedalato 138km e adesso, alla meglio, ce ne sono ancora 36 di cui 15 in salita secca. Con tutta l'acqua, che pesa come un maiale morto trascinato nel fango. Partiamo. L'idea è fare almeno 20km e arrivare ad un piccolo agglomerato di case intorno a una miniera, dove parte la strada per salire al campeggio. Lì, in base all'ora, decideremo se 1. Salire al campeggio 2. Chiedere ad eventuali locals di piantare la tenda nel loro giardino 3. Buttare la tenda in un anfratto nascosto e levarci di culo alle prime luci 4. Tirar dritto a Kayenta. L'opzione 3 sfuma rapidamente quando vediamo i resti di due serpenti a sonagli e un coyote spiaccicati a bordo strada. L'opzione 2 sfuma fatti i 20km: non ci sono case, solo terreni recintati con filo spinato e alcuni edifici, tra cui una stazione di servizio, abbandonati e pieni di rifiuti. Arriva il buio. Kayenta è troppo lontana. Dobbiamo salire al campeggio. Imbocchiamo la strada che si arrampica sul monte e un cartello indica a 9 miglia sia il Navajo National Monument sia una minuscola tendina, simbolo di campeggio. Inizia l'agonia. Sta per fare buio e la strada sale e sale. L'acqua pesa troppo e si aggiunge a una bici già elefantiaca.
Porto su un peso pari circa al mio, 45x45. Sforzo immane. Gigi mi vede bianca cencio e rallentiamo, ma non c'è tempo. Pedalare col buio qui significa finire in un burrone alla peggio, in un cactus se va bene. Le foglie degli alberi frusciano intorno e le salite son rampe che non mollano. La luce del tramonto infiamma l'orizzonte e i monti piatti e i boschi risaltano con il loro profilo nero sull'ultimo chiarore prima della notte. Non ce la faccio più, ho tutte le giunture in fiamme. E i kilometri non passano. A tratti delle discese improvvise fanno pensare che abbiamo sbagliato strada, eppure no, eppure è questa. Dovrebbe, almeno. Dopo 15km di salita estenuante vediamo i fari di un'auto. Sventolando le nostre lucette la fermiamo e chiediamo se davvero c'è un campeggio lassù. Sì dice l'indiano. A mezzo miglio. Oh dei. Allora è vero. Allora ci siamo. Stavamo per tornare indietro a buttare la tenda nel bosco! Ultimo sforzo. Un cartello, poi un altro, ed eccoci. Sfiancati, sfiatati, vuoti. Ma arrivati. Il posto in sé è fantastico.
È una terrazza in cima a tutto, tra gli alberi, con vista sul tramonto. Peccato esserci arrivati così tardi! Nel buio piantiamo la tenda e ci prepariamo una lauta cena a base di pasta al formaggio e stufato con le verdure (in scatola). Frutta e mezzo kg di biscotti di consolazione. La doccia non c'è, ci si lava nel lavandino (tanto gli avventori di questo campeggio sono pochissimi) facendo attenzione agli scorpioni attaccati ai muri. Mi cade l'occhio anche su un cartello informativo che spiega che fare se si incontra un leone di montagna. Ma bene! Però si vedono le stelle come nel deserto. Uno spettacolo di luci che fa commuovere, anche se son luci fredde e lontane. Ma fanno l'occhiolino a noi formichine che ci affatichiamo sulla crosta del mondo, ed è bello così. Il sonno arriva rapido e nemmeno ci passa per la testa l'idea di visitare il Navajo National Monument, che di fatto è un sito archeologico sparso tra i monti con insediamenti pueblo, hopi e navajo che risalgono al XII secolo. Siamo TROPPO stanchi. Domani finalmente raggiungeremo la Monument Valley, e lì, come Forrest Gump, potrò dire: "Sono un po' stanchina..."
Nessun commento:
Posta un commento