venerdì 26 luglio 2019

25-26. Le Montagne rocciose. Durango e Pagosa Springs, nella riserva Ute, tra temporali e cervi



24/7
Cortez-Durango
88km

La tappa di oggi è stata breve, in termini di kilometri e tempo impiegato in sella, ma intensa. Abbiamo iniziato a scalare le Montagne Rocciose, le uniche vere grandi salite di questo viaggio, che pure ha avuto poco o nulla di pianeggiante, finora. Abbiamo schivato per tutto il giorno, ma preso all'arrivo, un temporalone di quelli seri, che speriamo ci lasci in pace domani. Abbiamo portato i culi nostri e delle bici fino a 2600 metri di quota, per poi scendere di nuovo fino a Durango. Ah, Durango! Finalmente un nome noto!
A Gigi viene in mente la canzone di De Andrè, che pure è ripresa da Dylan e si riferisce alla Durango messicana. Ma non importa, i nomi sono sigilli.

Che cosa è il colpo che ho sentito
ho nella schiena un dolore caldo
siediti qui trattieni il fiato
forse non sono stato troppo scaltro

Svelta Maddalena prendi il mio fucile
guarda dove è partito il lampo
miralo bene cercare di colpire
potremmo non vedere più Durango...


La giornata in sè è partita benone. Nonostante esclusa dalla prenotazione di Booking, il buon indiano dell'India che gestisce il motel ha deciso di farci parte della colazione a buffet gratis. Abbuffet. Povero lui. Mai dare queste opportunità a cicloturisti affamati come la lupa dantesca! L'offerta non è varissima ma basta e avanza. Tè e caffè 'mericano, latte e succo di frutta, mini muffins, pane, marmellata e burro d'arachidi. Si fanno molti giri di tutto, mentre due anziani olandesi seduti accanto a noi restano stupiti da quanto riusciamo a mangiare. "Pedalate molto, si vede!" dicono. Eh sì, signora mia che sei stata più volte in Italia e conosci bene Milano.


Impacchettiamo tutto di nuovo, io mi bombo di Brufen chè il ginocchio è sempre lì un po' sifulino, soprattutto con vento e salite, e partiamo. Destinazione Durango, via highway 160. Il meteo non dice benissimo, potrebbe piovere come ieri. Qui i temporali estivi in quota sono assai frequenti. Speriamo che gli spiriti della pioggia siano in buona. I tuoni e i fulmini, in lontananza, non lasciano però presagire nulla di buono.



La strada sale e scende, ma sale più di quanto scenda. Non ci sono, nè ci saranno, pendenze allarmanti. Solo lunghe lunghissime rampe un poco inclinate, larghe e ben asfaltate, non pericolose nonostante il traffico a tratti. Passiamo accanto alla deviazione per il parco nazionale di Mesa verde, altro sito archeologico con i resti di abitazioni di nativi che vanno dalla preistoria alla conquista europea.
Una noticina a margine. I 'mericani se la menano TANTISSIMO per questi siti archeologici, gli unici che hanno, di fatto. Ne fanno davvero un vanto nazionale, un motivo d'orgoglio sbandierato ai quattro venti. Chissà se si ricordano che fine han fatto fare ai nativi. Massacrati, sterminati e rinchiusi, ancora oggi costretti al margine della società, in riserve dove mancano non solo la copertura internet e la rete telefonica, ma pure l'acqua in casa e la luce. Per dire.





Il saliscendi con sfondo di rumba di tuoni ci porta fino a Mancos, in una bellissima vallata verde verde che profuma di rugiada ed erba grassa. Mancos per ideas che si scendes peròs!





Mancos fu casa, almeno fino al X se non al XIII secolo, degli Anasazi, o antichi Pueblo, i primi abitanti di queste terre.



Poi arrivarono le tribù Navajo e Ute (non l'Università della Terza età) ad occupare la regione e ancora, nel XVIII secolo, frati e soldati spagnoli lungo la Old spanish trail, che congiungeva New Mexico e California. Il nome Mancos deriva da un episodio contestuale alla spedizione del frate francescano spagnolo Escalante, che con 8 fratelli esplorò, nel 1776, queste zone. I cavalli si rinvigorirono dopo aver mangiato l'erba fresca di questa valle dopo che erano arrivati magri, storti e zoppi (manchi, appunto) a causa della traversata delle montagne di San Juan.




Dagli anni '50 dell'Ottocento qui si è stabilita la riserva degli indiani Ute, oltre a numerosi ranch e fattorie, con tanto di canali di irrigazione e villaggi dei minatori che hanno aperto il cuore di pietra delle montagne, ricche di minerali di ogni tipo, oro in primis, che richiamò l'attenzione dei pionieri affamati di pepite.




Noi facciamo una sosta, sotto la sguardo incuriosito dei condor (che, visti da vicino, son veramente grossi. Dei tacchinoni dalla testa rasata), e poi ripartiamo. Le nuvole non promettono nulla di buono e abbiamo ancora un bel po' di salita da fare.





Il paesaggio si fa dolce intorno, e mite nel sole tiepido che spunta, nonostante tutto. Campi, pascoli, ranch sparsi e valloni verdissimi fanno pensare alle nostre Alpi. E come da noi, questo volto di pace della montagna incute comunque timore e rispetto: i giganti dormienti della roccia, i boschi scuri ed il cielo così vicino possono diventare disumani in breve, e pericolosi e pieni di insidie. La montagna non è il mio ambiente, non mi ci sento mai sicura del tutto. Però apre i polmoni e lo sguardo corre. Tutto sembra più piccolo e le proporzioni ridanno senso d'umiltà alle cose, quelle umane anzitutto.










Tra Mancos e Durango, di fatto, non ci sono altri paesi. La distanza è breve ma i tempi si dilatano. Bisogna salire fino a 2600 metri. Ecco che torna la lentezza misurata del passo breve del cicloturista. Ecco la pazienza infinita che serve a percorrere decine, centinaia, migliaia di kilometri con calma antica, piano piano. Le nostre forze non permettono altro. La frenesia, la fretta, l'impazienza futuristica dei motori e degli scoppi è rimasta a casa, dove si vive correndo tra un appuntamento e una scadenza, schiavi delle lancette. Seneca, caro mio, quanta ragione avevi. Qui il tempo è invece scandito dal sole e dalle stelle. Qui il ritmo è quello del respiro e del giro del sangue, al battito del cuore, al fremito delle ciglia. Non siamo padroni del suo scorrere, ma nemmeno schiavi, e viviamo l'attimo. Il granello prezioso della clessidra, il granello che brilla e poi cade, declina, tramonta. Ogni secondo è un giro del sole.









Si sale e si scende, i tuoni lontani non ci lascian tranquilli. Ma è così bello questo ritrovato verde. E pensare che solo una settimana fa eravamo in pieno deserto! Sento la linfa che corre sottoterra, le radici che crescono e le foglie che sussurrano. Sento la vita vegetale crescere e stirarsi in riccioli di venature e germogli. Ne sono parte. Piano piano, quasi ferma come queste piante, ma solo quasi. Lentamente, lentissimamente.







Troviamo alcune tracce della spedizione dei francescani di Escalante. Penso a cosa sia stato per loro attraversare questi luoghi per tracciarne una mappa e conoscerne la forma, il volto. Altro che conquista dell'inutile, altro che viaggio d'avventura. Quello era un percorso di vita e di morte. Con i sandali aperti e un saio di lana grossa, nella neve e nel deserto, e soltanto Dio nel cuore, nel cuore e non nel cielo, a mandare avanti la baracca.










Alle nostre spalle tuoni e fulmini si fan sempre più vicini. Il temporale ci insegue. Affrettiamo il passo, per quanto possibile, e saltiamo possibili soste. Ma siamo lenti.




Raggiungiamo, con gli ultimi strappi di salita, un'area di piste da sci, Hesperus, dove alcuni uomini sono intenti a riparare la seggiovia, mentre le mucche nere dal muso bianco pascolano placide, alzando il testone solo per commiserare la nostra fatica. I bovini sono animali di pace dei sensi.




Un ultimo sforzo ed eccoci al passo. Da qui a Durango è tutta discesa. Una meraviglia, un volo, la goduria assoluta dopo la fatica. La gioia pazza che fa cantare a squarciagola nel vento che porta via il sudore e la voce e li disperde sui fianchi dei monti e tra gli aghi dei pini. Le cime più basse e i boschi si spalancano allo sguardo per rendere lo spettacolo ancora più grandioso.







Costoni di roccia, più in basso, emergono a bordo strada. Gli alberi sono sentinelle attente e guardano giù il nostro sfrecciare rapidi come aquile in volo, tra nuvole che corrono e sanno di pioggia.







Arriviamo infine a Durango e al suo fiume, l'Animas.



La città fu fondata nel 1880 per la vicinanza alle miniere di San Juan, dove era stato trovato l'oro. Poi fu raggiunta dalla ferrovia ed oggi è un nome famoso sulla carta, ma non molto di più.
Certo qui si pavoneggiano di una storia che inizia nel 12.000 a.C. ma si fa più chiara con l'arrivo degli Ute (XIII-XIV secolo) e dei Navajo (XVII secolo). Leggo queste notizie su un volantico del centro turistico. Dicono che la vita degli Ute cambiò con l'introduzione dei cavalli, permettendo loro di diventare mercanti e pure razziatori. Ma la pacchia finì nel 1800, quando persero le loro terre, messi in ginocchio dagli americani, che, dopo una serie di trattati, li confinarono nelle riserve. Gli spagnoli furono i primi ad esplorare queste zone, seguiti poi da Charles Baker che tracciò una mappa della Silerton area. Poi fu scoperto l'oro, che portò qui centinaia di minatori, che fondarono Rockwood, nel 1861, nella valle dell'Animas. Durante la Guerra civile molti si arruolarono con i Confederati. Nel 1873 il Trattato di Brunot scacciò gli ultimi Ute da queste montagne, per aumentare l'estrazione mineraria, che toccò il suo apice negli anni '70 del'Ottocento.
Giunse poi la ferrovia e Durango fu fondata. Nel 1889 un incendio distrusse tutti gli edifici in legno, che furono poi ricostruiti in mattoni e pietra nel 1905. Roosvelt diede vita al parco naturale della Foresta di San Juan, limitando le attività minerarie, che tornarono però negli anni '50, dopo la Grande depressione, per l'estrazione di uranio. Nel 1960 furono aperte alcune stazioni sciistiche, come quella di Purgatory, e, dagli anni '70, tra alti e bassi dell'economia, tutta l'area fu dedicata alle vacanze, allo sport e alle attività ricreative.

Tutto molto interessante. Ma inizia a piovere, e noi rapidi tentiamo lo slalom tra le gocce per raggiungere il campeggio fuori città, sempre un Koa che ho prenotato nel pomeriggio con una telefonata sofferta (qui in Colorado hanno un accento per me tremendo). Ci si rovescia addosso l'ira di Zeus nefelegheretai, a grosse lacrime, ma è un attimo. Subito siamo al Koa e aspettiamo che spiova prima di montare la tenda.





La sera e la notte scorrono tranquille e asciutte, per fortuna. Ceniamo nella lavanderia, accanto all'ufficio del campeggio (che ha pure un negozietto di alimentari e tuttivendolo). Un gruppo di mormoni arriva e le donne, con abitoni lunghi e larghi e una cuffietta bianca in testa, si affaccendano alle lavatrici con millemila panni da lavare. Ma che fanno, vengono qui nei campeggi solo per fare il bucato? Parlano un inglese misto tedesco, e facciamo un po' di conversazione. Poi calano la sera ed il buio, e ci ritiriamo nella nostra tendina. Domani si prosegue verso il cuore delle montagne.


25/7
Durango-Pagosa Springs
94km

La mattina è fresca e il cielo limpido sembra contraddire le previsioni nefaste che dicono male: temporalissimi e allerta meteo nel pomeriggio a Pagosa Springs, dove faremo tappa. La cittadina sta a circa 90km di saliscendi (da 1900 a 2300m, poi giù di nuovo a 1800 poi su ancora a 2300 e giù a 2100). Dopo, ovvero domani, ci sarà la grande salita, il passo definitivo e ultimo: il Lobo Pass, o Wolf creek pass, una bestia da 3300 e fischia metri spalmati su 37km di salita. Poi tutta discesa e piano fino all'Oceano Atlantico.

Vabe', ci penseremo a tempo debito. Intanto, dopo aver chiuso la tenda e richiuso le borse (una sorta di quotidiana preghiera), andiamo a far colazione. Qui un veterano che ha combattuto in Italia fino al '45 ci prepara caffè e pancakes alla fragola, da inzuppare di sciroppo d'acero. Mi chiede se siamo canadesi. Quando scopre che veniamo da Milano, oltre alle sue memorie, tira fuori il gioioso incontro, a Roma, nel '93, con Papa Giovanni Paolo II, in privato. Gli brillano gli occhi azzurrissimi al ricordo e si emoziona. Poi torna a spadellare e a urlare con quest'accento terrificante del Colorado, chiamando la gente alla colazione come fosse ancora nell'esercito. Su uno schermo scorrono immagini storiche dei primi treni che passavano su questi monti, allo scorcio dell'Ottocento. Neve e uomini intabarrati in pellicce ghiacciate. Nuvole di vapore e mani callose e nere di carbone.


Si parte, il cielo fa belle promesse (che non manterrà).





La prima città che incrociamo, sempre seguendo la strada 160, è Bayfield, cittadina anonima che offre quattro servizi all'area, per il resto piuttosto vuota e disabitata, più o meno sprovvista di tutto per i successivi 70km. Ma noi abbiamo acqua e barrette, e chi ci ferma? Tiriamo dritti senza cedere alla tentazione di fermarci a bere schifezze colorate.





Come sempre si sale e si scende, oggi più che mai. Cime coperte di boschi si alternano a valli adibite a pascolo, dove le mucche e i cavalli stanno, placidi, nel sole.
Non mancano i recinti attorno alla strada per ridurre il rischio di incidenti con i cervi, qui diffusissimi. Infatti, purtroppo, se ne vedono molti morti e marcescenti a bordo strada, con i loro corpi maestosi e bei palchi mangiati dai vermi. L'odore è nauseante.




Vediamo anche un camper uscito di strada e finito giù in un mezzo precipizio, con la guidatrice sconvolta che si appoggia ad un palo di legno e la polizia che si affaccenda intorno al mezzo. E' il secondo che vediamo, e il secondo che sbanda così per una ruota esplosa. Quelle stesse che troviamo spesso a bordo strada e provocano forature. Meglio la foratura che un camperone grande come un tir che ti arriva addosso, veh.




Ancora si va, nell'aria che man mano si scalda. Fattorie e ranch, molti dei quali abbandonati, si susseguono fino all'altro paese che troviamo sulla strada, Piedra. Sul fiume Piedra. Quello del libro melenso e sdolcinato di Coelho? Sulle sponde del fiume Piedra NON mi sono seduta e NON ho pianto, tiè.















Noto la presenza di fiori. Non ne vedevo da tempo, se non alcuni rossi e irti di spine, piccoli e affilati, nella riserva Navajo, tra la sabbia e le rocce rosse anch'esse. Qui ci sono i fiori veri, gialli e azzurri e rosa. Mi fanno sbocciare un sorriso, son belli questi boquet vivi e composti dalla natura stessa, che adornano i prati e sopravvivono alle "antologie".







Il resto è tutto un susseguirsi di pratoni grassi e pinete dove gli alberi sono schierati come soldatini e stanno dritti dritti sull'attenti. Il profumo di resina ed erba che secca mi inebria. Sarò ripetitiva, ma nulla più sa di gioia semplice, per me, di questo odore. Più ancora del profumo del pane o della crema solare, che fanno casa e infanzia ed estate, rispettivamente.













Le acque limpide del Piedra ci raccontano storie antiche, gorgogliando limpide accanto alla strada, che è un fiume anche lei, ma fermo. Si muovono coloro che passano sopra, come correnti. Ci fermiamo un momento a quel che sembra il negozio/ristorante di un campeggio. Ma è tutto chiuso e abbandonato, sembra il set di un film western, un saloon fantasma di assi scricchiolanti, scolorite e mangiate dalla muffa. Mi accorgo qui che di nuovo il telefono è fuori uso. Ma guarda strano! Che caso! Siamo nella riserva degli indiani Ute, e d'improvviso mancano di nuovo i servizi e la rete. E' un copione già letto.
Mentre riposo con lo sguardo perso vedo un frullare d'ali. Un colibrì verdissimo e minuscoli si avvicina quasi da poterlo toccare, poi se ne va. Che meraviglia, che apparizione fausta! Uno spirito guida. Come le molte farfalle coloratissime, che però saltano come cavallette. E son farfallette o cavalle. Ne è piena la strada.



Mi informo su Wikipedia riguardo a questo gruppo di nativi. "Inizialmente era composto da sette tribù distribuite su un vasto territorio compreso fra gli attuali Colorado e Utah. Oltre a essere abili cacciatori, la loro economia era basata sulla raccolta di radici e frutti vegetali. In seguito all'avvento degli europei divennero anche abili cavallerizzi e allevatori.
Entrati in contatto con le spedizioni verso la California capitanate da John Ch. Fremont e Kit Carson nel 1849 e stabiliti rapporti amichevoli con Carson da parte di alcuni capi (Colorow, Kaneeatche e, più tardi, Ouray), e divenuti amici dei Mormoni di Brigham Young negli anni 1849-1850 molti importanti capi (compresi Walkara, Arrapeen, Sobita, Tabiuna, Kanosh, Sanpitch, Shavano), per qualche tempo gli Ute si illusero di poter convivere in modo soddisfacente con i coloni, ma nel volgere di breve tempo la situazione peggiorò sensibilmente sia per l'insorgere tra gli Ute di malattie portate dai coloni, sia per le difficoltà frapposte dai Mormoni al traffico di schiavi che aveva arricchito i più importanti capi Ute nel decennio precedente, sia per l'afflusso costante di nuovi coloni nelle terre degli Indiani e la prepotenza dimostrata da molti nuovi venuti. Gli Ute insorsero nel 1853, sotto la guida di Walkara e suo fratello (nonché fidato luogotenente) Arrapeen, sebbene non tutti i capi più importanti (come Sobita, Tabiuna-to-kwanah, Kanosh) si unissero alla rivolta che, nel frattempo, aveva coinvolto anche bande Shoshone e Pahute. L'abilità di Brigham Young, e probabilmente la mediazione esercitata da capi influenti, consentirono ai Mormoni di avviare una trattativa con Walkara e Arrapeen, i quali si convinsero di avere male interpretato il comportamento dei seguaci di Young in diverse occasioni, rappacificandosi coi Mormoni nel maggio 1854. Walkara morì nel suo villaggio di Meadow Creek, presso Fillmore nello Utah, nel gennaio 1855, succedendogli il fratello Arrapeen, il quale, con la mediazione di Young e dell'agente indiano Garland Hurt, stipulò nell'estate 1855 un trattato di pace con gli Shoshone.
Durante le guerre indiane, nel 1859, gli Ute siglarono un accordo con i coloni, offrendo le proprie guide e concedendo all'esercito di attraversare il loro territorio per attaccare i Sioux e i Cheyenne.
La scoperta dell'argento nei loro territori (1860), segnò la fine del trattato e l'invasione dei bianchi. Nella primavera 1865 una nuova guerra fu intrapresa da Antonga, minacciando Fort Gunnison e Fort Douglas e Salt Lake City e mettendo in crisi la linea della Overland Express; Antonga, ferito in combattimento contro la milizia mormone, sospese la guerra nel giugno 1866, e Kaneeatche affrontò le truppe comandate dal col. A. Alexander nell'autunno, proseguendo, nel frattempo le ostilità in corso contro i Navajo. Nonostante i tentativi di conciliazione messi in atto da capi storici come Nicaagat e Colorow, la guerra proseguì fino alla definitiva sconfitta degli Ute in una battaglia presso il fiume Milk.
Nel 1878, persi i propri territori, gli Ute migrarono con una lunga marcia di 500 km fino alla regione isolata dello Utah, dove ancora oggi vivono, oltre che qui. Parlano inglese e si sono convertiti al cristianesimo, benchè non manchino i riferimenti ai simboli indiani.


Alla nostra destra si staglia il Chmney rock national monument, una montagna dal profilo stranissimo che nasconde un sito archeologico degli antichi Pueblo rimasto inalterato per oltre 1000 anni. Ci sono 200 case, edifici sacri e magazzini scavati nella roccia.






Qui, per i turisti, sono stati allestiti un campeggio gestito dagli Ute e pure un resort con casinò, pubblicizzato con cartelloni orrendi. Questo non credo sia gestito dagli Ute.



Noi proseguiamo, tra pinete e pascoli






fino ad un negozietto, il primo dopo diverse decine di kilometri, dove ci fermiamo a bere un caffettone e mangiare qualcosa. Il negozio, che fa anche da biblioteca, noleggio dvd, ristorante e pompa di benzina, è gestito da un grosso americano bianco, baffoni candidi e capello lungo, occhi azzurri, mani enormi e grembiule da macellaio. Perchè lui è anche macellaio e cucina il tacchino arrosto. E sa sparare, se necessario.


attenzione! Ci sono gli orsi da queste parti!



Ripartiamo per gli ultimi 20km. Il cielo sembra sereno ma si alza un vento improvviso che non fa presagire niente di buono. E infatti a margine del nostro campo visivo, di là da una fila di colli, si addensano nubi sempre più nere.




Cerchiamo di accelerare ed entriamo a Pagosa Springs con fretta del diaulo in chiulo.



Voliamo giù per le discese in questo paesino di villeggiatura dove il 60% delle abitazioni son seconde case. Qui ci sono le terme, le sorgenti calde, la montagna bella e pura e il Continental divide. Poi c'è il fiume, e non mancano ristoranti, birrerie, gelaterie, motel, campeggi e negozi per l'outdoor. Insomma, è luogo di vacanza. E di piogge e temporali. Di nuvole che si ammassano sulle vette che qui intorno superano facilmente i 3000 metri.



Corriamo verso il campeggio, pedalando controvento, nella speranza di arrivare prima che si scateni l'inferno. Ma a nulla valgono i nostri sforzi. La procella porcella ci si rovescia addosso con malagrazia a 200 metri dall'ingresso del campeggio, il Riverside. Troviamo momentaneo riparo sotto una tettoia.



Poi Gigi la butta lì: "Ma se andassimo in un motel per oggi?".
Avoja!
Non mi entusiasma l'idea di montare la tenda sotto il diluvio e di stare nel fango tutto il pomeriggio e la sera, tanto più che a Pagosa (nomen omen: si paga!) gli inn e i motel a prezzo pop non mancano. Torniamo indietro un poco e ci buttiamo nel primo motel non luxury che vediamo. Ah che meraviglia! Bagno caldo, tè fumante e vista sul San Juan mentre la furia di Giove Pluvio si scatena, fuori. Fa pure freddo, al punto da accendere un attimo il riscaldamento in camera.





Asciutti, profumati e rifocillati, approfittiamo di un momento di tregua del temporale per uscire a far due passi nonchè la spesa per stasera (domani la colazione è inclusa, a buffet, e non dico altro).
Pah gosah in Ute significa "acqua che guarisce", in riferimento alle fonti sulfuree che sgorgano calde dal cuore della terra.
La città in sè è quel che è, un luogo turistico e mestamente da borghesi.









Ora, ancora, diluvia. Speriamo che butti giù tutto stanotte e domani il cielo ci permetta di scalare il Wolf creek pass in santa pace. Sarà bellissimo e difficile, appagante, tosto e avventuroso al punto giusto. Sarà una gioia immensa raggiungere la vetta e poi scendere in picchiata fino ad Ash Fork o addirittura Del Norte. Ci sarà la neve su al passo, a 3309 metri, e una vista fantastica. Ci sarà il nocciolo duro del Colorado, al Continental divide, dove i fiumi poi scorrono giù su entrambi i versanti. Sarà un'altra croce sulla mappa da segnare, dove abbiamo sepolto un palpito puro.

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