E come quell’altro, più famoso,
anch’io ricompaio al terzo giorno, e vi annuncio, con meno pretese: ci sono!
Sono arrivata a Ulaanbataar!
Questi ultimi giorni in Mongolia
sono stati pazzeschi per la meraviglia dei luoghi, la gentilezza delle persone
e tutto ciò che di nuovo porta allo sguardo questo mondo altro, che con la
Russai non c’entra assolutamente nulla; altro pianeta, altra galassia. Per
questo scriverò in maniera forse un po’ caotica, nel riportare il turbinio di
sensazioni e impressioni che mi ha travolta appena varcato il confine; chiedo
venia, ma non ho ancora avuto il tempo di mettere ordine tra emozioni e novità.
Torniamo a tre giorni fa, quando
mi sono svegliata presto e senza quasi aver dormito nell’ultima città russa del
mio viaggio, Kyakhta, crocevia di commerci e nodo di strade.
Dopo aver preparato tutti i
documenti, il pacco immenso di registrazioni agli hotel (quasi 60) e aver fatto
le borse in modo che fosse agevole aprirle e chiuderle per le mille volte
richieste alla frontiera, sono partita sotto l’auspicio di un sole già caldo.
4km più avanti, alla dogana, sono iniziati i problemi; appena giunta sono
infatti stata presa d’assalto da tre donne larghe in tutto, dalla vita al
sorriso, e con il tratti mongoli, che insistevano a che io salissi su uno dei
loro van per passare la frontiera. Ma scherziamo? Ho attraversato non so quanti
confini mano nella mano con la Signora, figuriamoci se in Mongolia entro in
auto. Così ringrazio, scanso il placcaggio e mi dirigo verso il cancello e le
sbarre d’accesso, superando alcune auto ferme a motore spento in attesa chissà
da quanto. Una delle donne mi scorta, seguendomi da vicino, come se avesse
ancora qualcosa da dirmi.
Mi si fa incontro, al cancello,
un agente lungo lungo e magro, avrà vent’anni, che, sorridendo alla donna che
annuisce, mi dice che da quel confine non si passa né a piedi né in bici, solo
su mezzi a motore. Protesto, tento di spiegare che non è mai capitato, che di
solito mi lasciano passare portando la bici a mano… Niente. Niet, niet. Così mi
tocca tornare indietro con la signora e la Signora, la prima mi apre il
portellone dell’auto e la seconda viene mestamente caricata nel bagagliaio,
insieme alle borse. Inizia così la lunga breve odissea del transito.
In bici,
di solito, si può saltar la coda e passare davanti a tutti. Così no. E tocca
pure tirar su e giù dal van tutto quanto quattro volte, perché tanti sono i
controlli e ricontrolli della milizia russa; la taxista deve anche, ad ogni
blocco, aprire il cofano, tirar via i tappetini, lasciare ogni cassetto e vano
spalancato. Sale il cane, scende il cane; un agente guarda con la torcia e
fruga i bagagli, poi annuisce e si riparte per 50 metri. Altro fermo. Giù
tutto. Sale il cane, scende il cane. Un agente perlustra gli interni con la torcia
e ravana nelle borse. E così via, in uno slalom a rallentatore cui l’autista è
costretta perché le vie sono volutamente scassate, piene di buche, acqua e
ostacoli di cemento o metallo da evitare, così che nessun mezzo in corsa possa
attraversare la frontiera. Nota a margine: la taxista porta con sé tre borsoni
da palestra, tutti pieni strabordanti di cioccolatini che son come i mars ma
russi autarchici e in miniatura. Probabilmente in Mongolia non si trovano o
costano molto o sono farciti di cocaina.
Dalla parte mongola, dove
intuisco di essere ormai perché le divise degli agenti sono diverse, e non per
altre differenze, i controlli sono invece molto più sbrigativi e distratti.
Compilo una sorta di migration card che però non mi viene lasciata (oddio, e se
poi mi serve? Chiedo: no, non serve), passo le borse, lo zaino e tutto al metal
detector come in aeroporto, sotto lo sguardo annoiato di una guardia che,
attaccato alla cintura, ha un portachiavi che è una grossa vertebra, e… Liberi,
finiti i controlli.
Sono in Mongolia. L’autista si
prende i suoi 1000 rubli per il passaggio di circa 1km (e le due ore di attesa)
e lascia me, la Signora e un monticchio di borse e sacchetti al primo spiazzo
di Altanbulag, la città frontaliera mongola; ed è subito un altro mondo.
Questa
microscopica cittadina della provincia del Selenge (dal nome del fiume), da non
confondere con l’omonima nella provincia del Tov, è stata fondata nel 1730 come
controparte cinese di Kyakhta, dopo il trattato firmato da imperatore e zar, per
permettere il libero scambio e favorire i commerci; inizialmente si chiamava
Maimaicheng, che significa “città della compravendita”, poi venne battezzata
Kyakhta mongola o meridionale e infine con il nome attuale, che vuol dire
“sorgente dorata”. Era una sorta di piazza immensa e fortificata, con palizzate
e torri di guardia, milizie ad ogni ingresso e quartieri per i commercianti di
diversa nazionalità. Fino al 1908 era vietato alle donne vivere qui, per
evitare che i mercanti cinesi divenissero residenti stabili in una città che
doveva esser solo di transito per uomini e merci. Oggi le cose non sono molto
cambiate. Altanbulag conta una manciata di abitanti, ma vanta una “free trade
zone” ed offre tutti i servizi necessari a chi è in viaggio tra nazione e
nazione. Proprio qui anch’io ho cambiato tutti i rubli in tugrik; questa
valuta, introdotta nel 1925, inizialmente aveva lo stesso valore del rublo
russo, ma oggi proprio no: qualche banconota e una manciata di monete si sono
trasformate in una mazzetta di tugrik così alta da non entrare nel portafogli.
Un euro sono poco meno di 3000 tugrik. Le banconote sono da 50, 100, 1000,
5000, 10.000 e 20.000, ma quelle più grandi circolano di rado. Immaginate
quanta carta vi trovate in mano, soprattutto in una nazione dove le carte di
credito, di fatto, non si possono usare se non nei grandi alberghi della
capitale. Serve il sacco di iuta della Banda Bassotti!
Sempre qui, tra un vecchio che
berciava e bambini mezzi nudi che correvano nella sabbia, ho comprato una sim
mongola per avere qualche giga in caso di estrema necessità. Ad occuparsi della
pratica è stata questa bella fanciulla che mi ricorda Mulan, solo qualche kilo
più in là.
Nel giro di poche pedalate mi
sono lasciata alle spalle quella confusa bolla di polvere e umanità che pare
ancora una stazione di posta settecentesca e sono stata catapultata nel nuovo
mondo.
Colpiscono il verde verdissimo, un tappeto spesso e ispido di erbe che
si stende su tutto e pare finto, di plastica; perché qui ci sia e sulle colline
russe, a 2km, no, resta un mistero. Il profumo di fieno, erbe e fiori
essiccati. L’odore di stalla, di bestiame. La luce opaca e polverosa, obliqua,
che allunga le ombre anche nelle ore centrali della giornata e fa languido
l’orizzonte. Gli spazi aperti, sconfinati, immensi, dilatati ben oltre l’umana
possibilità di afferrarli con lo sguardo o con la mente. L’assenza dell’uomo,
di case, di strutture, di traffico sulla strada. Il silenzio.
Tra queste prime impressioni, in
un raro, prezioso tratto quasi pianeggiante, sono giunta a Sukhbataar, la prima
città vera e propria dopo il confine.
E’ piccola e sparpagliata tra i prati,
come se le case fossero state costruite senza precisa logica, una qui e una là,
distanti tra loro e dall’enorme complesso industriale che sorge nel centro del
paese. Forse questo è l’effetto dei vasti spazi, della ridottissima popolazione
(e del fatto che il governo ha persino regalato a ciascun mongolo un
appezzamento di terreno non piccolo per costruire la propria abitazione).
Rispetto ai villaggi russi qui è tutto più disordinato ma anche più umano: la
gente cammina in mezzo alla strada e bambini a torso nudo corrono qua e là
salutandomi tra sorrisoni sdentati e manine che fanno ciao.
Appena fuori si trova
un’arena/circo con tanto di statua al cavallo e al domatore. Perché qui i
cavalli non sono importanti, sono proprio sacri, e pure fondamentali per la
sopravvivenza di più di un terzo della popolazione, che è nomade e dedita alla
pastorizia.
Sukhbataar, che è la capitale della provincia del Selenge, è stata
fondata nel 1940 e prende il nome dell’eroe nazionale più celebrato dopo Gengis
Khan, Damdin Suh (poi Sukhbataar, chè bataat vuol dire eore), nato a fine
Ottocento e morto nel 1923. Quest’uomo, soldato e politico, prese parte alla lotta
della sua patria per conquistare l’autonomia dalla Cina e diventare, nel ’19,
uno stato comunista indipendente. E’ morto avvelenato in circostanze
misteriose, proprio durante alcuni torbidi all’interno del Partito, ma fin da
subito è stato celebrato come eroe nazionale, un Garibaldi mongolo, tanto che a
lui si riferisce il nome della capitale, Ulaanbataar, che significa “eroe
rosso”, e lui è raffigurato a cavallo nella statua che spicca sulla piazza
centrale della capitale, di fronte ad un largo batrace che è Gengis in trono.
Lasciata anche Sukhbataar alle
spalle, sono iniziate le salite (che son finite solo all’arrivo, mannaggia);
qui ho fatto il mio primo incontro con un ovoo, spesso situato in
corrispondenza di un tempietto buddhista.
La parola in sé significa “cumulo di
sassi”, ma spesso è un mucchio di cianfrusaglie, copertoni, sacchetti, legna o
persino alberi agghindati. Sono luoghi sacri per lo sciamanesimo, come parabole
che catalizzano gli spiriti buoni, ma servono anche da punto di riferimento per
le piste; perché il viaggio sia propizio bisogna lasciare un’offerta, che sia
un sasso, una moneta, una caramella, latte fermentato o vodka, o una sciarpa
cerimoniale, simbolo del dio celeste Tengri, la khadag. Poi bisogna girarci
intorno tre volte in senso orario o, se si è in auto, passare sulla sinistra.
Il culto degli ovoo in epoca sovietica era stato vietato ma non è mai cessato
davvero ed oggi ogni vetta, bivio o crocevia sono marcati da un cumulo con offerte antiche e recenti. Il
sacrilegio massimo è portar via le offerte, e infatti qui nessuno lo fa (mentre
in Buriazia, che ancora era Russia, di gente a raccoglier monete ne ho vista
tanta).
Oltre alle salite ha iniziato a
farsi sentire anche il caldo, che, a fine giornata, mi ha lasciato un bel
marchio di scottature sul viso e sulle braccia, a dimostrazione di quanto poco
sole io abbia preso in Siberia, al punto da perdere l’abbronzatura. C’è un che
di ovvio in quest’ultima constatazione, ma un conto è il raziocinio, un conto
la pelle. Bruciata.
La fatica e l’arsura non sono
comunque riuscite a distrarmi dalla meraviglia assoluta dei paesaggi, sempre
più vasti, più spalancati ed immensi mano a mano che procedevo di vallone in
vallone.
Se all’inizio ho incontrato solo
qualche fattoria in legno, sparsa e distante nell’immenso verde, più in là
hanno iniziato a comparire le prime ger (si legge gher), yurte in russo.
Sono
le tradizionali abitazioni di questa parte di mondo, impermeabili e scaldate da
una grossa stufa centrale che viene alimentata con sterco secco; avrò modo di
vederne l’interno a breve, quando sarò ospite, per due notti, di famiglie
nomadi. Non si tratta di folclore posticcio, di attrazioni acchiappa turisti:
qui una persona su tre vive in ger. Per questo motivo spesso si vedono mandrie
e persone apparentemente in mezzo al nulla, appese ai fianchi dei monti a
centinaia di kilometri di distanza da tutto; in realtà, seminascoste nelle
valli, ci sono le tende, e quindi quelle persone sono “in cortile”. Un cortile
sconfinato e senza limiti, ricompensa di estrema libertà per chi vive la fatica
di non aver radici ferme al suolo. Non di rado si vedono anche furgoni e moto
sfrecciare sulle piste, lontano lontano sul bordo dell’orizzonte, là dove
nemmeno c’è la strada ma solo una nuvola di polvere rossa dispersa dal vento.
Siccome sapevo di dover
affrontare lunghe distanze prive di qualunque struttura, ero attrezzata con
acqua e cibo, ma vi dirò: far la pipì può essere un problema, all’inizio. Non
c’è niente di più alto di mezzo metro, solo cespugli ed erbe basse. Il che
significa mostrare le proprie glauche terga a chiunque transiti nel raggio di
50km in ogni direzione e punto cardinale, così come io sento e vedo arrivare
un’auto o un cavallo al galoppo con mezzora di anticipo.
Pertanto ho approfittato
di una sorta di bar in muratura appiccicato lì nel vallone, al centro del
vuoto, tra una piega e l’altra di colline verdi. Subito mi si è fatto incontro
un bambino che è evidentemente una delle manifestazioni del Buddha: ho scoperto
poi che era lui il gestore del locale;
all’interno, tra mosche e odore di
carne, tre uomini intenti a bere latte di mucca fermentato (per loro è come una
droga!) e tè nero (qui si beve senza zucchero). Accanto, una donna incinta con
una bimba, entrambe assorte nell’arduo compito di suggere il midollo dalle ossa
di una pecora.
Fuori, gli amabili resti di altri
simili simposi.
Dopo aver bevuto quest’ambrosia
divina gusto pera e miele,
sono andata alla ricerca della toilette, che
naturalmente è fuori, “na ulitsa”, dietro alla ger, con vista panoramica. Quando si dice in the middle of the
middle of nowhere…
Mancavano ormai poche decine di
kilometri all’arrivo, qualche salita impegnativa e un leggero saliscendi tra
paesaggi sempre più assurdi e distanti da ciò che mi è familiare. La bici
diventa un ippogrifo e questa è la luna, non c’è alcun Astolfo ma di certo si
ritrovano tante cose perdute e molte nuove sbocciate qui tra i cespugli ispidi;
qui regna la natura, quella vera e non addomesticata; il silenzio, la calma, il
tempo che fluisce lentissimo e si mescola al miele di una luce d’oro, un mondo
che era e non è più, o quasi. Di nuovo si ferma la clessidra e l’istante muta
in eterno, vedo il filo d’erba che freme al vento e nella sua linfa sento
scorrere la storia dei millenni, che si ripete uguale sotto passi diversi e
palpiti e nuvole in un ciclico, immutabile, liquido cambiamento. Sboccia un
germoglio, corre la cavalleria assetata di sangue nella pianura, si srotola una
radice al buio ed esplode un tramonto, cade una moneta sull’altare degli
spiriti e l’eco riverbera per secoli nella valle deserta. Tutto è, tutto
accade. Io, nel mezzo del niente, assorbo l’energia della corrente del fiume
d’Eraclito e vivo, vivo fortissimo.
Così sono arrivata a Darhan.
Qui un uomo, fermo nel sole basso
ad aspettare chissà chi, mi ha fatto una foto.
Ho iniziato a capire quanto in
Mongolia la gente sia più gentile, altruista e amichevole rispetto alla Russia.
Sarà per le distanze, per la solidarietà di un ambiente che ti può uccidere
quando vuole, soprattutto se resti solo ed isolato, sarà perché son buddhisti e
non cristiani, o perché son nomadi e non sedentari. Ma i mongoli sono
tendenzialmente più umani, meno freddi. E questo è fondamentale ormai per me (oltre al fatto che l'inglese è ben più diffuso).
Qui d’umano non c’è ormai quasi
più nulla, e quei brevi e rari contatti devono essere positivi, altrimenti
resta solo una manciata di sabbia coperta d’erbe, un contenitore vuoto.
Meraviglioso ma vuoto.
Per fortuna è stato così.
Darhan è la terza città più
grande della Mongolia (75.000 abitanti… fate voi i conti di come sian piccole
le altre); il nome significa ferriera ed è nata proprio come città industriale,
nel vicino 1961, con il totale sostegno dell’Urss; dopo Ulaanbataar è il
principale centro per la formazione, l’istruzione e l’educazione anche
superiore; infatti ho visto numerosi ragazzi in uniforme scolastica, il mattino
seguente, perché qui si è già tornati sui banchi.
Ho poi trascorso la notte nel
lussuosissimo Buudai hotel, con tanto di colazione principesca; mi sono anche
resa conto di quanti problemi ci siano da queste parti nell’utilizzare le carte
di credito, sia nei locali sia nelle banche, e di come sia utile aver sempre
con s’è molto denaro in contanti. Non è un paese per banche (e va benissimo
così… Basta saperlo!).
Scongiurato il rischio di dover
rimanere lì qualche mese a lavare i piatti per pagare il conto, sono ripartita
alla volta del… chissà. Del forse, del maybe.
Perché avevo individuato sulla
mappa un motel sulla strada e in micro-insediamento, ma avevano qualcosa di
sospetto. E infatti…
Uscendo dalla città ho incontrato
il monumento agli operai della ferriera
e l’altra insegna d’ingresso a Darhan,
pietra nel sole tra le preghiere che fluttuano al vento nei colori della vita.
E in un attimo di nuovo il nulla spalancato, tra salite sempre più dure e
colori di un universo antico.
Ho incrociato molte ger di
apicoltori, che vendono qualche barattolo di miele a bordo strada. Si vede che
questa regione è particolarmente ricca di fiori e offre un ambiente adatto alle
api operose.
Cavalli, mandrie, orizzonti sconfinati, respiro che si fa battito
e si fonde al pulsare ancestrale di questa terra dei figli del lupo azzurro e
della cerva fulva, come vuole la leggenda.
Ahimè, in lontananza si
scorgevano nuvoloni sempre più cupi e minacciosi.
Ma pure qui sono riuscita a
catalizzare il maltempo? Qui dove il clima è arido e non piove quasi mai?
Modestamente, ebbene sì.
E mi ero anche vestita con il
completo estivo, visto il caldo del giorno precedente. Non c’azzecco mai.
Per la prima metà tappa sono
riuscita a scamparla. Poi Tengri, dio del cielo blu, supremo nume per gli
sciamani (quel dio da cui Gengis khan pensava di aver ricevuto l’ordine di
regnare su tutti i popoli della terra), ha deciso di testare la mia resistenza
al vento e all’acqua. Tanto non sono idrosolubile, che vuoi che sia.
Mi si è rovesciato addosso un
uragano nero, un tifone, non so nemmeno come definirlo. Buio, freddo, vento
contrario che ululava correndo nei valloni, pioggia così forte da far male. Mi
sono dovuta fermare in un kafè a bordo strada, e per fortuna proprio nel
momento peggiore mi trovavo in un paese! Qui ho atteso e atteso, perdendo
troppo tempo, cosa che avrei pagato più tardi. Finalmente la bufera si è
calmata un po’, lasciando solo tracce di vento ed una finissima pioggia, ed io
sono tornata in strada. Per fortuna, sospettando le difficoltà che avrei
incontrato di lì a poco, ho comprato del cibo a caso, l’unico trasportabile che
c’era, per aver qualcosa di simile ad una cena (ho scoperto poi essere pane con burro e un sushi contenente non pesce crudo ma insalata russa. Quando si dice fusion).
Mi sono rimessa in sella ed era
già tardo pomeriggio. Pareva il crepuscolo, così poca era luce. Mancavano
ancora 50km di salite dure. Il telefono su cui ho le tracce, bagnato, ha deciso
di morire a metà: si accendeva ma lo schermo restava completamente nero, e così
è rimasto fino all’arrivo. Poveretto, ne ha anche passate tante ed è stato
maltrattato in molti modi. Per fortuna la strada è una sola e non si può
sbagliare, anche senza avere le tracce; e poi sull’altro telefono, potendo
usare internet là dove c’è connessione, ho google maps a portata di ditone.
Così ho tentato di percorere
l’ultimo tratto di tappa il più velocemente possibile. Ma con le salite e il
vento scorevano solo le lancette dell’orologio e mai le cifre sul
contakilometri.
Ha iniziato a far buio davvero. Ho intravisto un tempio
buddhista e sapevo che poco oltre ci sarebbe stato il mio motel. Pedala e
pedala ormai nel crepuscolo, che mi ha costretta ad accendere i faretti non
tanto per le auto ma per evitare buche e ghiaia e nulla. Pedala ancora, magari
è poco avanti… Niente. Non so se non l’ho visto a causa del buio o proprio non
esiste, fatto sta che del motel non ho trovato traccia. Un brivido. E adesso?
Con questo buio non si può procedere, il fondo stradale è troppo scassato,
troppo pericoloso. Ah se avessi portato la mia tenda! Starei una crema, una
principessa nel suo minuscolo castello. E invece piove, fa freddo, è notte e
non so che fare. Controllando maps ho visto che poco oltre si trovava un
incrocio, e spesso agli incroci c’è qualche casa (altrimenti perché fare un incrocio,
in mezzo al niente?). Infatti c’era addirittura una specie di villaggio, con
qualche casa e persino delle luci accese. Arrivata alla più grande, che aveva
tanto di cortile e tre edifici, mi sono accostata ad una casetta che pareva
quella del guardiano. Luce e accesa e tv ronzante, ottimo segno! C’è qualcuno!
Inizio a chiamare: “Excuse me, sorry! Excuse me! I need help! Please!”, facendo
luce con il mio faretto ridicolo in tutto quel buio. Nulla. Riprovo. Sento che
la tv viene spenta. Insisto. Alla fine si affaccia al cancello un omino, con il
quale, a gesti, tento di far capire che sono proprio nella merda. Mi fa segno
di aspettare e prende il telefono. Sparisce. Ritorna. Mi fa segno di aspettare
ancora. Alla fine torna in compagnia di una coppia di anziani, che si
avvicinano incuriositi al cancello per vedere bene che faccia abbia questo
pellegrino perso nella notte. Li investo con un torrente di parole che suonano
come preghiere, in inglese, russo, italiano, in tutte le lingue che so. Per
favore! I due si aprono in larghi sorrisi e mi fanno entrare. Inizia qui un
assurdo dialogo a gesti, con loro, e al telefono, con i loro due figli che
parlano inglese. Nel giro di una mezzora si giunge a questa conclusione:
possono ospitarmi, ma non proprio in casa loro, bensì in una casa accanto, in
costruzione, in cui non c’è nulla, un cubo vuoto. Ma va benissimo! Sono la
persona più felice del mondo! Tanto ho il mio sacco a pelo e la cena, che si
vuole di più?
Tra l’altro i due gentili ospiti
mi portano persino un materasso e delle coperte, oltre ad un grosso thermos con
acqua bollente, una tazza e una bustina per il tè. Basta, io sono a posto per
tutta la vita! E così anche questa volta me la sono cavata grazie al buon cuore
di questa gente che pare dura e forgiata dal vento e dal silenzio, ma è capace
di sentire l’altro e di tendere una mano quando c’è bisogno. Ulaanbataar era
ormai vicinissima, a poche ore di pedale, e la notte nera e immensa non faceva
più paura.
Dell’ingresso in città e di
alcune considerazioni che ho elaborato in questi lunghi brevi giorni vi
racconto in quella che davvero sarà l’ultima puntata del viaggio in bici. Domani
partirò per tre giorni verso alcuni parchi naturali e il Gobi, ma con un tour,
una jeep, forse altre persone. Dormirò ospite da famiglie nomadi e vedrò i
cavallini selvatici e i cammelli. Sarà bello, anche se già sento che la libertà
assoluta si fa più evanescente e sfugge di mano. Sto tornado alla vita normale.
E’ giusto, e comodo. Ma già qualcosa manca e uno stormo di nuove idee si alza
in volo nel cielo finalmente azzurro ancora.