Giovedì, 28/7
Yura-Laguna de las vicuñas, quota 4120m
46km
In lontananza si sente il rumore, sempre più indistinto, della strada. Vaghe non sono invece le stelle, che splendono luminose come non le ho mai viste e ridono forte e ammiccano nella loro siderale distanza da ciò che accade quaggiù. Sono in tenda. Sulle Ande peruviane, a 4120m di quota, al limitare della riserva nazionale di Salinas y Aguada blanca. Si vede la via lattea da qui, e fa freddo. Ma siamo attrezzati per le temperature che scenderanno sotto allo zero, a breve. Il termometro ha fatto un tuffo a picco al basso già prima del tramonto, che qui è questione di pochi minuti.
Ora c’è il sole, e fa un caldo atroce. Ora il sole è sparito dietro ai fianchi alteri delle montagne, e il vento freddo punge la faccia e morde le mani e i piedi. Abbiamo visto le vigogne selvatiche. Sono camelidi schivi e ombrosi, ma siamo stati fortunati e oltre a un gruppo in lontananza ne abbiamo vista una famiglia da vicinissimo, che ha persino attraversato la strada a pochi metri davanti a noi. Non per altro siamo ai margini della laguna de las vicuñas. E’ stata un’emozione ineffabile di delicatezza, anche perché l’incontro è avvenuto nella luce già obliqua del sole basso, dopo una giornata veramente impegnativa.
Giornata bella, grandiosa, difficile. Abbiamo portato le nostre chiappe secche e quelle larghe e pesanti delle bici da 2500m a quassù, in una salita ininterrotta, estenuante. Mai ripida davvero. Gentile, in qualche modo. Ma passati i 3500m si comincia a sentire l’effetto della quota e lo svarionello è dietro l’angolo. Non siamo stati male, niente mal di testa, niente nausea. Semplicemente, a un certo punto, tutto è diventato pesante, come fossimo su Giove. Pesante la bici, pesanti le spalle, la gabbia toracica, pesanti le braccia e persino la lingua. I piedi! Pesantissimi. Una sola cosa si è fatta leggera leggera come un palloncino ad elio: la testa. Evaporata. Impalpabile. Pensieri mucillagginosi e a filamenti vacui, difficoltà a pensare un pensiero per più di un palpito, figuriamoci razionalizzarlo o parlare. Il poco fiato costringe al silenzio, a pesar bene le sillabe. Insomma, l’altura.
Per questo siamo stati costretti ad un’andatura minimalista, la velocità necessaria per stare in equilibrio e nulla più. E poi a frequentissime soste. Brevi, perché poi ripartire e rimettersi in pressione è quasi più dura che non tirar dritti senza indugi. Poi io sono abbastanza guarita, ma sto ancora prendendo l’antibiotico per l’accidente gastrointestinale. Gigi è raffreddato ed entrambi abbiamo dormito poco. Ma non importa, siamo arrivati dove volevamo, e abbiamo visto molto più di quel che ci aspettassimo, in bellezza e grandiosità.
il pueblo fantasma di Pampa de Arreios, dove prima c'era una stazione ferroviaria |
Stamattina siamo partiti da Yura con calma, perché il paese, in piena festa nazionale, si è risvegliato tardi. E noi avevamo bisogno di provviste per la scalata, perché il primo paese dista oltre 100km. Quindi abbiamo fatto scorte, siamo stati più volte inseguiti dai perri mali e ci siamo riportati sulla strada principale, che poi si dirama in direzione Colca oppure Puno (la nostra).
All’inizio la salita è stata attaccata con fierezza, ma già a poco meno di 20km ogni baretto e baracchino roncio è stato occasione di sosta e riposo. Poi son state solo alture, arbusti, rocce e cactus. Perfino in fiore, di una bellezza primordiale, ancestrale, antica come il mondo. E cielo, sole, e strada. Lunga. In salita. Colori azzurro e oro a perdita d’occhio, sempre più su, dove la natura si riduce a spine e corteccia ritorta, insetti corazzati e poco più.
accesso trionfale ai bagni pubblici |
Dai 3700m in poi Gigi è andato in crisi e ho temuto che non riuscisse a proseguire oltre. Poi, poco a poco, tra un biscotto e una banana, si è un po’ ripreso e abbiamo pedalato fino all’ultimo scorcio di luce. Dopodichè abbiamo dovuto montare la tenda in gran fretta, per il vento che si è fatto improvvisamente gelido. Siamo su un fianco del monte che cinge la laguna, tra gli arbusti durissimi e irti che paiono in fil di ferro. Ci siamo messi al caldo, al riparo e abbiamo approntato una cenetta. Alle 18 era buio pesto, alle 20 ora di dormire. Sto scrivendo ma crollo di sonno, non vedo l’ora di abbandonarmi al calduccio del sacco a pelo, cullata dal canto antico di queste montagne figlie della Madre terra.
Venerdì, 29/7
Laguna de las vicuñas-Imata (quota 4450m)
64km
La nottata trascorre tranquilla, per quanto il freddo bussi più volte alle porte della nostra tenda. Riusciamo a dormire, ma non a riposare quanto dovremmo. Ed è già l'ennesima notte di fila così, prima a causa dei malanni vari, ora delle condizioni. All'alba ci svegliamo e non vediamo l'ora che il potentissimo sole sacro delle Ande, sempre sia lodato, scaldi l'aria. Fuori, la vista è questa.
Da togliere il fiato, letteralmente. Un po' per la stanchezza, un po' perchè è il primo vero giorno in altura, siamo molli e fiacchi come meduse spiaggiate. Alzarsi, preparare le borse e smontare il campo sono operazioni che ci chiedono circa un'ora e mezza di movimenti al rallentatore, e con il fiatone. Temiamo per il momento in cui dovremo PERSINO pedalare... E invece no, una volta in sella tutto è più facile, ci si mette in bolla, si torna e pressione e le cose fanno meno attrito.
Anche perchè i primi 10km corrono dritti e in leggera discesa, attraverso un vallone di bellezza incommensurabile. Entriamo nella riserva già citata di Salinas e Aguada Blanca, entriamo definitivamente in zona vigogne.
Intorno distese fiorite di minerali multicolori, bianchi, ocra, argento, verdi, coronati dalle vette dei vulcani che sempre vegliano l'orizzonte.
Fin da subito ci imbattiamo in gruppi di vigogne che brucano i cespugli irti di spine (ma come fanno?); sono elegantissime e pare sempre camminino in punta di piedi, anzi, di zoccoletti, per non disturbare le divinità capricciose dei monti azzurri.
In fretta e senza troppo sforzo (anche se in altura si fa sempre per dire) raggiungiamo il "pedaggio patahuasi", cioè un casello circondato da alcuni baretti e bodeguite. Ne approfittiamo per fare colazione e scorta d'acqua e viveri per la giornata, perchè anche oggi, fino a sera, dovremo arrangiarci. Puntiamo al pueblo di Imata, a 54km da qui, ma non è detto che riusciremo ad arrivarci: dobbiamo salire ancora finoa quasi 4500m. Oltretutto, non essendoci connessione da ieri, non riesco a calcolare dislivelli e profili altimetrici della tappa.
Si riparte, e il profilo altimetrico lo sentiranno le nostre gambe e i nostri polmoni, ahimè. I panorami diventano via via più maestosi, imponenti, disumani. Capisco come mai tante civiltà precolombiane pensassero adatto a tali numi un sacrificio d'anime. Passiamo il canyon di Vacas con le sue acque termali
e iniziamo a trascinarci in un saliscendi ininterrotto, più sali che scendi, che dopo poco ci sfibra e ruba il fiato, quel poco che era rimasto. Intanto il sole inizia a bruciare, e gli occhi paiono dover esplodere da un minuto all'altro come grossi asciutti pop corn.
Si sale, si sale. Cicale cicale cicale. Si fa fatica, tanta, issima. Insoffribile. Ma un po' meno della vergogna di abbandonare l'impresa. Si va avanti, piano pianissimo, in silenzio, ciondolando. Tra le vigogne vigogne.
Fanno la loro comparsa i boschi di pietra, formazioni rocciose particolari che ricordano in qualche modo alberi. E questo può averlo detto solo chi, come gli andini locals, di alberi non ne hanno visti proprio mai.
P-alpaca&vigogne |
A forza di salire raggiungiamo il Mirador Carlitos, quota 4320m. Da qui si vedono tre vulcani: Chachani e Misti, che già conosciamo... E il PichuPichu. Ma ti prego. Ma puoi essere una bestia sputafuoco createrremoti di 5664m e chiamarti Pichu Pichu?
Dal mirador Gigi, tutto soddisfatto, dopo la pausetta, sentenzia con un fil di voce: da qui sarà tutto discesa e spiana, discesa e spiana. Voltata la curva, si palesa invece la prima di una lunga serie di rampe ripidissime per le nostre gambe. La risata che ciò mi provoca mi fa quasi svenire per la carenza di ossigeno. Ai 4400m alzo lo sguardo e noto una grossa roccia a forma di mano che fa il dito medio, e penso che oggi proprio alla Pachamama stiamo sul culo.
alpaca e vigogne con pastoressa andina che ci saluta riferendosi a noi come senorita e caballero |
Siamo esausti e abbiamo percorso neanche 40km. Cominciamo a disperare di arrivare in tempo a Imata, ma vorremmo evitare un'altra notte in tenda. Abbiamo bisogno di riposo vero e sodo. Ma qui le salite si susseguono come i grani del rosario che mi passano fra le dita, e sulle ultime siamo costretti ad camminare spingendo la bici.
La svolta avviene alla stazione di Pillones, una fermata dei treni in mezzo al nulla, ma nei pressi di una cava. C'è una gentilissima signora che ci rifocilla e ci passa pure due sedie, sempre dalla finestra. Facciamo due chiacchiere e lei resta stupita della nostra impresa, e ci chiede quanta coca ci caliamo per fare tutto questo.
Ripartiamo e la musica è tutta un'altra. Ad esclusione di una minuscla salitella, davanti a noi si apre finalmente l'altiplano, e corrisponde a una definizione condivisibile di altiplano. Qualcosa che resta piano, in alto. Senza più brusche montagne russe. In più il vento si è alzato ed è perfettamente a favore. VOLIAMO.
Boschi di pietra e camelidi ci vedono passare rapidi e così la meta si avvicina in fretta. Siamo veramente cotti, arrivare è una benedizione.
Ed eccoci nella ridente Imata, o meglio, Comisaria rural di San antonio de Chuca. Con il suo arco, le sue statue alla vigogna e all'alpaca e la sua ferrovia.
Prendiamo alloggio nell'hospedaje che pare più sano, quello senza cani e senza carogne all'uscio. Scopriamo ahimè che non c'è acqua, ma pace, ci laveremo in un'altra vita. Le coperte sono spesse e calde e la sera la signora ci prepara riso e pollo alla piastra. E dalla finestra godiamo di un tramonto su queste vette che, viste da quassù, non paiono nemmeno poi così alte... Sono "colline" da 6000m!
Ora riposo: i prossimi giorni saranno ancora impegnativi e dobbiamo essere in gran forma per giungere a sua maestà il Titicaca!