Premessa:
sì, ne è passato di tempo dall'ultimo post. E ne son successe di cose. Per esempio, il viaggio è finito: sono arrivata ad Almaty, ho vissuto come una kazaka urbana per qualche giorno; ho conosciuto persone nuove. Ho fatto, come da tradizione, un tatuaggio. Ho salutato Raymond, che ora è in India. Ho preso un aereo e poi un altro, sono andata a Minsk e, alla fine fine, sono tornata a casa.
E perchè non hai più scritto, volpe?! Che fine hai fatto?!
Ah regà, ero stanca. Stanchissima.
Succede sempre così quando arrivo all'ultima tappa. Raggiungo la meta e mi concedo il lusso di sentirmi cotta, bollita, provata. Stanca. E' un fatto più psicologico che fisico: finchè so che c'è ancora tanto da pedalare, riesco a comprimere la fatica in fondo alla coscienza, riesco ad isolarla con porte stagne di volontà. Ma poi, all'arrivo, emerge prepotente come un fiume in piena e distrugge gli argini; mi lascio travolgere, "e il naufragar m'è dolce"...
Per non dire poi del ritorno a casa. Saltare da un mondo ad un altro in 12 ore di viaggio aereo è l'esperienza più straniante che esista; non è diverso solo il paesaggio umano e naturale intorno: sono diversa IO. E per quanto tutto si tenga, sempre, e in me restino il vento e il sole, la sabbia e le rocce e i volti e i sorrisi di questo viaggio, tornare alla vita solita non è facile. Raccontare lo è ancora meno. Mi scorrono addosso parole in inglese e in russo, in farsi, in francese, in kirghizo, una pioggia di alfabeti diversi e segni che mi scorrono sulla pelle e a volte graffiano e lasciano una piccolissima cicatrice.
Ora, che ho ripreso un posto nella mia vita di prima e ho ritrovato tutto ciò che avevo lasciato, la mia casa e un amore, i genitori, i gatti, le voci amiche e i problemi, provo a rimettermi a dire. Perchè in tanti, e vi ringrazio, davvero, di cuore, avete chiesto che fine avessi fatto. Vi voglio bene anch'io.
30/8/18
Oggi è il gran giorno: si passa l'ultimo confine, si entra in Kazakistan. Ormai mancano solo due giorni all'arrivo. Ho studiato il più possibile la strada che ci attende, perchè pare proprio che nel mezzo tra Bishkek e Almaty, in questi 240km di strada che taglia a metà la steppa, ci sia poco o nulla. Su Caravanistan, il sito più utile per chi viaggia da queste parti, ho letto dell'esistenza di un unica gostinitsa sulla strada, tal Avrazya, a 130km dalla capitale kirghiza e 110 da Alma-Ata. Puntiamo lì, anche perchè non c'è scelta. E poi il Kazakistan è un paese moderno, ospitale, che ti accoglie a braccia aperte con il suo azzurro immenso di cieli e bandiere. Altro che Borat. Ci ho pedalato qualche giorno l'anno scorso, nell'estremo nord, a Petropavl, e ho ricordi d'oro di spighe e denti in larghi sorrisi.
Così partiamo presto da Bishkek, dopo una colazione a base di vareniki (ravioli dolci) e blini (crepes) con smetana (panna acida). Naturalmente dobbiamo sottoporci al rito della foto davanti al logo dell'ostello, come ormai ci viene chiesto in modo sistematico in qualunque ristorante o struttura; facciamo esotico, via. Per le strade di Bishkek il traffico è già in delirio, in una luce grigia di nuvole e smog. Fa pure fresco, quasi freddo. L'estate sta davvero cedendo il passo all'autunno.
Dopo l'immancabile sosta perchè Raymond compri l'immancabile fromaggio da falciare a mezzogiorno, partiamo davvero ed imbocchiamo la strada che mena al confine. Questa è occupata per lo più da un paesino grigerrimo e urendo dal nome che è tutto un programma: Lenin. Ma dura poco: dopo solo 20km e qualche madonna tirata contro ai cagnetti marci che ci inseguono dalle cascine, siamo al confine.
La frontiera è anticipata dai baracchini del cambio e dai classici ristoranti lerci dove l'attrazione principale è il cesso. Cambiamo i som che ci restano in tenge kazaki, e qualche euro, ma pochi, perchè il tasso è sfavorevole. Poi prendiamo una bella boccata d'aria e ci buttiamo nel delirio di umanità e auto e valigie che attendono ai cancelli del confine.
Questo di Korday, invero, si rivela il confine più liscio e facile di tutti quelli finora attraversati; al checkpoint kirghizo la pratica si limita ad un bel timbro d'uscita accanto a quello d'ingresso. Al checkpoint kazako, invece, bisogna compilare un modulino (da conservare fino all'uscita dal paese) e si devon far passare i bagagli ai raggi x; ma, al di là del piccolo impiccio di smontare e rimontare le borse dal portapacchi, tutto è rapido e semplice. Appena fuori, ci troviamo nel paese di Korday e qui ho di nuovo la conferma di quanto il Kazakistan sia un paese civile.
Non ci sono capannelli di losca umanità nè baracchini ronci nè altre forme di casino tipiche dei confini: ci sono i negozi delle compagnie telefoniche (compro l'ennesima Sim card, Beeline, per i soliti 5 euro), i bar e gli uffici. Certo, tutto i versione centrasiatica, ma siamo distanti anni luce dalle altre repubbliche circostanti.
Korday è la frontiera più trafficata tra Kirghizistan e Kazakistan, perchè, sfruttando il confine naturale del fiume Chu, collega Bishkek ad Almaty (che fu capitale ed oggi resta la città più ricca e popolosa della nazione). Qui inoltre passa l'highway M-39, ovvero, per uscire dalla denominazione sovietica, la E40, che è una strada immensa che collega Calais alla Cina, passando per Russia e nazioni centrasiatiche.
La cosa bella è che, fuori da Korday, inizia la steppa.
E' questo il paesaggio che predomina un po' in tutto l'immenso Kazakistan, ma qui, nella regione di Jambyl, a maggior ragione, dove il clima è continentale arido.
Tutto mi aspettavo men che il continuo e spesso ripido saliscendi di questa steppa che è un susseguirsi di colline. In effetti i monti Alatau, e il Tien Shan, sono vicinissimi e chiudono l'orizzonte a sud. Queste sono le propaggini settentrionali. E pensare che proprio questi monti li abbiam visti, dall'altro versante, da sud, nei giorni scorsi, quando eravamo sull'Issyk kul.
Non starò a dilungarmi di nuovo (i curiosi possono leggere i post di viaggio dell'anno scorso) sulla storia del Kazakistan. Certo è che questa nazione transcontinentale, sconfinata e grandiosa di silenzi e orizzonti resta per me il cuore più vivo dell'Asia centrale. Basti dire che il nome di chi abita questa terra deriva da qaz, verbo comune alle lingue turciche che significa girovagare. E' un paese di nomadi a cavallo, di cieli immensi in cui le nuvole corrono e la luce cambia su un mondo che non muta nei secoli dei secoli. E' impossibile non pensare a Borodin, al suo poema sinfonico che fa fondere canzone russa e nenia asiatica, le due tradizioni che si sono scontrate e incontrate ed hanno dato vita a questo unicum prezioso come un tappeto ricamato d'oro.
(qui per ascoltare un pezzettino di Borodin con spiegazione: https://www.youtube.com/watch?v=wIYFBz7zang )
Portata dalle note potenti del compositore russo, raggiungiamo una grande centrale ad energia eolica, che dimostra, in primis, quanto vento terribile frusti queste lande, poi, quanto il Kazakistan stia muovendo in direzione di una gestione moderna e sostenibile delle proprie risorse.
non mi sembrava così ripida questa salitella! |
Intanto il tempo inizia a cambiare e vira in modo deciso al brutto. Le nuvole, spinte dal vento sempre più freddo, si raccolgono in cumuli minacciosi e neri e si respira aria di temporale. In lontananza si vedono scrosci di pioggia e colonne d'acqua, mentre le vette dell'Alatau raccolgono una danza cupa di cieli strappati.
Dopo Korday e per 80km la strada corre dritta nelle steppe e non c'è nulla, non una stazione di servizio, non un benzinaio, non un bar od un magazin, un negozio. Nulla. O meglio: ci sono, frequenti, i resti di ciò che furono negozi e benzinai, ora ridotti a macerie, edifici abbandonati o divorati dalle fiamme.
Troviamo un paio di micro botteghine solo al grande incrocio dove la strada si divide tra il ramo che va ad oriente, verso Almaty, e quello che porta ad occidente, a Taraz, capitale della regione.
Ne approfittiamo per bere qualcosa di caldo e coprirci, perchè le temperature sono precipitate in un attimo e fa davvero freddo.
Quando ripartiamo, di fatto, piove.
Per fortuna è una pioggia fine e rada, gelida sì, ma non battente. E le nuvole cariche d'acqua s'inseguono in cielo lasciando scoperti persino brevi lembi di azzurro.
Il vento cambia in fretta e, se per alcuni kilometri ci è favore, poi diventa laterale e rallenta la marcia. Incrociamo alcuni pastori a cavallo che radunano le mandrie e, lottando contro alle raffiche, entriamo nella regione di Almaty. Buon segno.
Quando ormai siamo al limite della stanchezza e del freddo, fradici e intirizziti dopo 130km in sella, arriviamo all'Avrazya, l'unico ristorante-gostinitsa dove sappiamo di poterci fermare. Entriamo nell'ampio parcheggio e, con vago sospetto, noto che sull'immenso edificio a tre piani ci sono molte insegne (kafesi, tyalet, magazin...) ma nessuna che parli di hotel, motel, camere o simili. Eppure la struttura ha più piani e se il primo è evidentemente un ristorante, gli altri han tutta l'aria di esser camere. Chiedo al custode del parcheggio che mi dice: "No, non è un motel, si mangia e basta!" e al mio incredulo insistere mi rimanda al proprietario. Entro. Il locale è grandissimo e pieno di tavoli, umidità tiepida e odore di cibo. Mi avvicino ad una cameriera e le faccio la stessa domanda: "Eta gastinitsa?" è un motel (-madonna-santissima-che-vi-prenda-un-acciacco-improvviso-se-mi-dici-di-no)? "niet niet" e mi fa segno di andare comunque a parlare con un omino scuro scuro e con un braccio rotto che sta dietro alla cassa.
Ho letto che sono turchi, anzi curdi, a dimostrazione di quanto sia multietnico questo paese. E infatti su Google è pure pieno di insulti razzisti dei vari clienti centrasiatici che insultano i curdi lamentando prezzi troppo alti. Multietnico e multirazzista as usual.
L'omino, scuro, curdo e arroccato dietro al bancone, mi liquida velocemente: "Gastinista nie rabotet". Oh lo slogan russo: ni rabotet, non funziona, è fuori uso.
Mi cala così addosso un greve velo di disperazione.
Ma dai, l'ultima notte prima di arrivare ad Almaty mi deve andare in merda così? Ma su, ma via, ma sul serio?
Ed evidentemente sì. Perchè, dopo un minimo di ricerca, vediamo che il paese più vicino è a 60km da lì; ne abbiamo già pedalati 130; piove e tira vento contrario; sono già le 18 e tra due ore è buio; e non è sicuro che poi davvero nel paese a 60km ci sia qualcosa.
Tocca campeggiare. Ma anche qui è un bel casino: siamo attrezzati per la tenda, ma non abbiamo cibo, acqua e gas per il fornello. Non ci sono posti adatti ad accamparci senza dare nell'occhio perchè è tutta steppa, piatta e fangosa. E poi piove. Mannaggia ai climi finti aridi, piove. E tutto si è trasformato in un mare di melma in cui già mi vedo ad affondare fino al ginocchio mentre fisso i picchetti. La rasputiza. I curdi. Ma porc***... (segue lunghissima fila di blasfemie ed improperi, in cui mi dilungo mentalemente per circa un'ora. Il Puill, intanto, mangia quattro porzioni di baklava con il tè).
Ci risolviamo, alla fine, così.
L'idea è rimanere vicini al ristorante. Cambiarci e lavarci nei bagni (a pagamento, ma accettano anche spicci in som kirghizi, che ci son rimasti in tasca), cenare lì. Poi piantar la tenda dietro alla struttura, nella steppa che si apre alle spalle, in un punto piuttosto riparato dall'edificio stesso. Al mattino potremo così anche avere la colazione e scaldarci un po'.
Pertanto, attendiamo il crepuscolo nel locale e ci accampiamo al tavolo, con vestiti stesi sulle sedie ad asciugare e cellulari in carica. Ceniamo, anche. Il proprietario inizia a temere seriamente che passeremo lì la notte.
Quando inizia a fare buio, raccattiamo i nostri amabili resti e imbocchiamo una viuzza che porta dietro all'Avrazya, verso una cascina.
Qui, nell'ultima luce, piantiamo la tenda. A terra noto tantissime ossa di animali vari, grandi e piccoli, e anche un inquietante numero di teste di corvo mozzate. Speriamo non sia un monito... Se non altro, ha smesso di piovere. E buonanotte.
31/8/18
La notte è stata tragica: un freddo allucinante, la mia tosse e il mio raffreddore che son tornati a molestarmi e cani randagi che hanno ringhiato e abbaiato intorno alla tenda per ore. Non ho dormito e ho preso un freddo diaccio marmato, cose che mi rendono lenta e mordace.
Mi calma però la vista di ciò che sta intorno alla tenda, paesaggi ieri nascosti dalle nuvole e dal buio. Mi viene in mente Ungaretti, la sua "Giorno per giorno":
Fa dolce e forse qui vicino passi
dicendo: "Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l'aurora e intatto giorno"
E così, con doppio caffè turco e baklava, riesco a svegliarmi e a trovare la forza di rimontare in sella. E' l'ultima tappa, in fondo. Gli ultimi 110km. Ce la posso fare.
La strada corre dritta e buona sotto ad un cielo che finalmente riconosco. E' quello d'azzurro spalancato come la bandiera kazaka, quello purissimo delle steppe immense.
Qui l'orizzonte è impreziosito dai riflessi di pura luce di cui ride la neve fresca, sulle vette vicine dell'Alatau.
Il gioco dei colori si fa meraviglioso e incredibile, nell'accostarsi degli azzurri e dei verdi, separati dall'oro delle spighe mature, in un profumo di erba bagnata e menta selvatica che sembra un incenso rivolto al dio degli orizzonti aperti.
Di paesi ne incrociamo pochi, anzi, quasi nessuno. E sembrano vuoti e abbandonati da poco, come catturati in una questa magia fuori dal tempo che cristallizza ogni attimo e lo rende eterno. Qui il tempo segue un altro corso, e lo sanno i popoli che varcarono i confini tra i continenti, lo sanno la rugiada e le spighe.
Percorsi 80km siamo ormai quasi alla periferia della periferia di Almaty. Il traffico si intensifica e i paesi si susseguono con maggior frequenza. La temperatura si è alzata tantissimo e, se stamattina siamo dovuti partire bardati con l'invernale, ora dobbiamo spogliarci e rimetterci in corto. Ne approfittiamo per una pausa; mi calo un gelato ai semi di sesamo e papavero e poi dormo seduta su una panca, con la testa appoggiata al tavolone di legno di un ristorante abbandonato.
Da lì poi ripartiamo. La strada si fa molto trafficata e decisamente pericolosa per le manovre criminali degli autisti di marshrutka, le cui manovre hanno ragioni che la ragione non conosce. Tante sono le auto in strada quanti i falconi in cielo; mai visti così tanti e tutti insieme. Sembra quasi si muovano a stormi e per kilometri e kilometri se ne vedono a decine volare a cerchi larghi e calare d'improvviso in picchiata su qualche preda inerme. Un vero spettacolo. A buon diritto questo paese porta sulla bandiera un'aquila della steppa.
Così, in un volo anche noi, giungiamo all'agognato cartello: Almaty. Qui inizia la città, qui finisce il viaggio.
Invero per portarci in centro, all'hotel, e pedalare gli ultimi 20km abbiamo impiegato gran tempo: a causa di lavori in corso e del traffico che si concentra alla stazione dei treni e degli autobus, sopravvivere e districarsi tra auto e pullman, camion e moto non è cosa scontata. Per fortuna poi, quando si imboccano i vialoni immensi di 6 corsie che attraversano la città come una scacchiera, tutto diventa più semplice.
Siamo anche passati accanto al bacino artificiale Sairan, che è l'equivalente dell'Idroscalo, e ha le sue spiagge fighette (importanti per un paese che non ha sbocchi sul mare) e i suoi motoscafini.
Infine, finalmente, abbiamo raggiunto l'hotel, centralissimo, sovieticissimo ed economicissimo: Ambassador. Abbiamo fatto il check-in, sistemato le bici nella hall ed io ho raggiunto il letto ed ivi ho meditato per lunghe ore sulla vita e sulla morte. Ho dormito, 'nsomma.
Così si è concluso il viaggio. In realtà "ho tante cose ancora da raccontare, per chi vuole ascoltare (e a culo tutto il resto)". Perchè Almaty è un gran bel posto, una città che proprio non ti aspetti.
Scriverò un post a parte su questa città dove tanto ho visto e fatto. Con calma, chè moralmente sono ancora "sdraiata" come in foto. Ma chi va piano... vive 5500km di mondo in due mesi!