Si apre qui di fronte a me l’immenso
verde brullo di Mongolia, che respira piano nella quiete della notte. Silenzio
e stelle, profili di monti addolciti dal tempo, poche luci sparse e un fuoco
accesso, in lontananza.
Ormai ci sono. Ieri ed oggi ho
percorso le ultime due tappe in terra russa, che è tanto grande, tanto spietata
alle volte; la bellezza, fin qui, non l’ho rubata, ma pagata al giusto prezzo
della fatica per poterne godere. Per questo lascio la Russia con la serenità
dell’uomo onesto, senza conti in sospeso, senza paura di dover restituire
qualcosa, prima o poi. Non ci sono sati furti ma scambi tra pari e quando ci
rivedremo, in futuro, sarà come riabbracciare un vecchio amico. Per i bilanci
finali non è tempo ancora, certo è che la Transiberiana a pedali è stata un’esperienza
grandiosa. Ho imparato così tanto in due mesi… Sul mondo e su di me.
Da domani sarò in Mongolia,
dunque, per un assaggio di questa terra nuova che mi accoglierà, spero, come s’accoglie
il pellegrino giunto da lontano, quasi da un altro mondo (e invece è sempre lo
stesso), a rendere omaggio. Porto il dono del mio tempo, è la cosa più preziosa
che possiedo, di meglio non ho da offrire a questa patria di nomadi che pulsa
il ritmo ancestrale del galoppo dei cavalli selvatici.
Certo, arrampicarmi fin quassù al
confine, da Ulan-Udè, non è stata una passeggiata, pur nella meraviglia
assoluta dei paesaggi.
Ieri ho lasciato l’Hotel Buriazia
molto, molto tardi, già quasi nel pomeriggio; durante la mattinata ho infatti
accompagnato Raymond a cercare abiti più pesanti: guanti, pantaloni lunghi, una
giacca… Non può pedalare fino a Vladivostok, sotto i cieli implacabili della
brutta stagione che avanza, in t-shirt, pantaloncini e sandali. Purtroppo i
pochi negozi di abbigliamento sportivo vendono oggetti random, dal monopattino
alla cintura per chi solleva pesi, dalla canna da pesca ai fidget-spinner, ma
non contemplano alcun capo di vestiario invernale. Perché è estate. Nemmeno un
paio di guanti, una felpa tecnica. In Russia, con temperature già prossime allo
zero. Niente. Solo un paio di calzini che userà anche come guanti, nel caso. Perciò
m’è sembrato giusto lasciargli una delle mie due giacche invernali: io sono
quasi arrivata, e per di più muovo verso l’arido sud; non dovrei aver bisogno
di un cambio in caso di pioggia torrenziale, una giacca mi basta. A lui serve sicuramente
di più. Ha provato entrambe (gli calzavano a pennello) e poi ha scelto quella
più aggressive, la divisa firmata Boglia e con marchio Colnago che ho usato solo
lo scorso inverno, dopo l’operazione (visto che il mio altro invernale era
stato tagliato dai volontari dell’ambulanza per bloccarmi il braccio).
Era
tutto contento, il buon Raymond, perché è una cosa utile e che appaga anche il
suo non trascurabile senso estetico (tutte le mattine, per dire, si pettina con
una spazzola davanti allo specchio, sistemando i ciuffi ribelli. Io non ho
nemmeno portato un pettine, tanto con il casco…). E così ci siamo salutati, sotto
un sole caldo e buono che ha sigillato l’arrivederci. Chissà che l’idea di fare
insieme, l’anno prossimo, la via della seta a pedali, non si realizzi davvero. Per
me è già un sì.
Con questo minuscolo vagabondo bretone mi son trovata benissimo
e da lui ho imparato la pazienza e la calma di chi lascia che le cose accadano
senza mai preoccuparsi: a qualunque problema, tranne uno, c’è soluzione, quindi
non serve preoccuparsi. Ci sono salite o strade orribili? Si arriverà un po’
più tardi e facendo un po’ più di fatica. Fa freddo? Si beve un tè caldo e si
indossano i calzini come guanti. Non ci sono hotel? Si pianta la tenda. Non ci
sono ristoranti e supermercati? Si dà fondo a pane, miele, pasta e sardine di
scorta. E così via. Raymond viaggia da 50 anni in sella alla bici e ha visto il
mondo, ha vissuto esperienze estreme tra deserti e ghiacciai, non è uno
sprovveduto. Ma soprattutto ha imparato a prendersi tempo e a goderselo tutto,
senza crucci. Un modo per cavarsela si trova poi sempre.
E’ questo, oltre ai suoi racconti
e ad una collana che arriva dalla missione in Burkina Faso dove opera, il
regalo grande che mi ha fatto: prima di incontrarlo stavo iniziando a cedere,
per la fatica e lo stress di tutti i problemi e le incognite cui si è esposti
quando si vive on the road. Ora no, sono un mare calmo, un cielo steso. Ho
preso coscienza di potermela cavare comunque, conosco la strada e conosco me
stessa. Può capitare di tutto ma un nocciolo dentro di me resta saldo e
splendido come il Buddha d’oro che ride in silenzio nel tempio.
Quindi arrivederci Raymond, e
buon viaggio a te che prosegui verso l’Oriente estremo, imperturbabile come l’abisso
di un cielo stellato o di un mare di insondabile profondità.
Sola e accompagnata da uno sciame
di ricordi degli ultimi giorni mi sono così diretta di nuovo ai ponti sull’Uda
e sul Selenga, per tornare esattamente al punto dove il giorno prima avevamo
lasciato la strada per entrare in città.
Ulan-Udè mi ha salutata con la statua
della Buriazia e con quella di una delle tigri a guardia del fiume.
Poi, in un
soffio, mi sono ritrovata nell’arida valle del Selenga, che ha assunto via via
un aspetto sempre più desertico e alienante. Ho passato Ivolginsk, sede di un
monastero buddhista fondato nel 1945, in barba ai tentativi da parte di Stalin
di estirpare la religione e le tradizioni buriate.
è un banale supermercato ma il totem del cavallo e la pagodina d'ingresso meritavano |
Poi più nulla, per 100km, in
un susseguirsi di colline brulle, bruciate dal sole arroventato. 36 gradi
segnava un termometro.
Ogni tanto, nell’immobilità di questa enorme clessidra
ferma, un cane della prateria, una cicala intermittente o il fischio laconico
del treno che corre sulla Transmongolica. La monotonia dei colori dell’arsura è
rotta qua e là da un occhio azzurro di lago, che si spalanca al cielo ed esala
un vapore finissimo che offusca la vista.
La strada è tutta in salita, ma
di una salita lieve e solo a tratti percettibile: è così che pian piano inizia
la scalata all’altopiano della Mongolia, che si trova tutto tra i 1000 e i 1300
metri.
La meta che mi attendeva era
Gusinoozersk, una piccola cittadina industriale che prende il nome dal lago,
Gusinoye ozero, su cui sorge, che letteralmente significa “lago dell’oca”. E
infatti il monumento che da lontano pareva un’aquila è un papero.
Qui si estrae
lignite ed è per questo che, nel 1939, la località ha iniziato ad essere
abitata per diventare città solo negli anni Cinquanta. Ad oggi l’economia si
basa sulla centrale elettrica alimentata a lignite, di cui dalla finestra della
mia camera vedevo le ciminiere. Ho trovato l’albergo al primo colpo, una
stanzina onesta e senza pretese come piace a me, al lussuoso hotel Raduga.
E in
un attimo è calata la sera anche su questo lembo estremo di Russia tra gli sbuffi delle ciminiere e altro e meno visibile disperdersi d'anime.
Il giorno seguente, cioè oggi,
sono ripartita con calma sotto un sole già caldo,
ma fin dalle prime pedalate
mi son resa conto di quanto contrario e freddo e bastardo fosse il vento. Proprio
oggi, che mi attendeva un’altra tappa da Gran premio della montagna… Che sfiga!
Ho costeggiato il lago per qualche kilometro, con partenza in salita (e arrivo
in salita e tutto in salita, mannaggia all’altopiano mongolo).
Da lì, superata
la città, è iniziato il grande nulla che dilaga tra queste valli rose dalla
siccità e soffocate dalla polvere rossa che il vento solleva.
A parte un tempio buddhista e un
paesino a 80km dalla partenza (ma sprovvisto di negozi o bar o benzinai o un
qualunque posto per comprare dell’acqua), tra le due città di partenza e arrivo
della tappa non ci sono tracce umane, fuorchè la strada, deserta anch’essa. Ho
avuto, nemmeno a dirlo, problemi per l’approvvigionamento idrico, peggiorati
dal caldo, dalle salite continue e dal fatto che l’acqua comprata ieri al
negozietto in paese sapeva di ferro al punto che pareva di bere sangue; per di
più era calda, e mi sembrava di essere uno di quei masai che si disseta bevendo
il sangue dalla gola forata delle mucche. Per domani mi son comprata mezzo
Bajkal in bottiglia, mannaggia.
Tra un’ansa del Selenga e gruppi
di colline punteggiate di cespugli, tra una buca nell’asfalto e una gobba,
mi
sono portata fino a metà tappa, per scoprire con orrore che, da lì in poi, la
strada era quasi del tutto sterrata.
Ma non come le strade bianche,
non con la terra battuta o il brecciolino bello, no. Con i sassi grandi e
aguzzi come quelli che si mettono tra i binari del treno, e con la sabbia alta
una spanna, rossa come il sangue che ho sputato per arrancare in salita e controvento
nell’arsura.
Per far le piaghe d’Egitto mancavano solo le cavallette… No! C’erano
pure quelle, una marea. Mai viste così tante tutte insieme. Per lo più si
suicidano nei raggi della Signora, saltando direttamente nel frullatore, ma a
volte finiscono sui polpacci e si aggrappano con le loro zampette uncinate ai
pantaloni, e staccarle senza disintegrarle (cosa che non voglio e che mi
farebbe pure schifo) non è punto facile.
Ho percorso a piedi solo
brevissimi tratti di questa non-strada: era già tardi e c’era il rischio
concreto di dover pedalare in quel vuoto dopo il tramonto. Diciamo che ho
testato la tenuta delle viti che ho nei gomiti e ho riapssato i nomi di tutti i
santi.
Per fortuna negli ultimi kilometri la strada è tornata ad essere tale,
anzi, con l’asfalto nuovo.
Ho accelerato, con le ultime energie e la forza di
chi non vuole sentirsi dire in ogni albergo nie miesto, non c’è posto. Fiato
corto, gambe sfilacciate e disidratazione totale mi han portata fino alla meta,
Kyakhta, che si trova stesa tra le colline, proprio appoggiata al confine,
affacciata al bordo della Mongolia, austera dirimpettaia di Altanbulag,
località confinale mongola dove si passa la frontiera. Infatti per accedere
alla città bisogna passare un posto di blocco della polizia che controlla
passaporto e visti.
Kyakhta in buriato significa
luogo copero di gramigna dalla parola mongola khyag, gramigna appunto. La città
in sé è stata fondata nel 1727 subito dopo la negoziazione del trattato di
Kyakhta, accordo commerciale e di definizione dei confini tra zar e imperatore
cinese. Si aprì così una nuova via del commercio di tè legname, seta e
porcellana, spezie e tessuti in un continuo flusso di carovane e chiatte tra
Cina e Russia; Kyakhta, pur essendo porto di tanta ricchezza, non trasse mai
gran giovamento dai traffici che brulicavano nelle sue strade, e rimase sempre
piccola spoglia, sporca e focolaio di malattie Da qui partirono alcune famose
spedizioni d’esplorazione della Mongolia interna. Dal 1860, però tutte le
frontiere tra Russia e Cina furono aperte ai commerci e le ferrovie, che non
passavano di qui, fecero cadere in declino la città. Interessante è che,
trattandosi del primo mercato aperto tra cinesi e russi, Kyakhta dà nome ad una
lingua mista di contatto, un pidgin sino-slavo che permetteva ai mercanti dei
due imperi di comunicare.
Ancora oggi svolge il ruolo di
porta tra imperi, perché qui si apre la più importante frontiera per accedere
alla Mongolia, quella di Altanbulag, da cui passerò domani, spero senza
problemi.
Dovrò cambiare i rubli in tugrik
e abituarmi alla nuova lingua, che, all’inizio, mi stordirà nelle parole
incomprensibili scritte sui cartelli. Se possibile, acquisterò una sim card
mongola, come ho fatto per la Russia, altrimenti dovrò accontentarmi delle wifi
degli hotel che pare siano più un fatto di forma che di sostanza. Evidentemente
qui il nie rabotaiet è internazionale.
E’ tempo adesso di riposare per
me e la Signora, perché domani sarà un grande, lungo giorno di avventure nuove
su questa vecchia terra.