Venerdì, 26/8
Tarma - La Oroya (3800m)
60km
Ormai l'incipit dei miei racconti si ripete monocorde: anche stanotte sono stata male, non ho dormito, ho vomitato, ho passato il resto del tempo sul cesso a chiedermi cosa io abbia fatto di male, mai, in questa vita e nelle altre prima. Quali peccati. Nel disturbato e doloroso dormiveglia, ho pensato due cose. La prima: sto marcendo, da dentro; sono in putrefazione. La seconda: la pietra tiepida dello scalino di fronte a casa, nelle sere di giugno, quando è tardi e il cielo è ancora lilla, una festa di rondini, e la corte porta memoria del primo sole estivo che l'ha baciata.
Qui invece è tornato il freddo dei monti, e oltretutto, ogni volta che si esce dalle coperte, son brividi.
Tuttavia questa mattina ci si fa animo. Mi sveglio dopo qualche frazione di sogno e trovo Gigi gonfio in viso come se fosse stato picchiato. E' una reazione allergica a tutte le punture d'api dei giorni scorsi. Lo spedisco in farmacia, anche perchè due malesseri raramente si consolano, piuttosto si amplificano. Intanto preparo la colazione, e mi accorgo che i fiammiferi che ho comprato ad Arequipa son di marca Inti. Giustamente, il dio inca del sole. Ormai un dio delle piccole cose.
Gigi torna con medicamenti vari, ci nutriamo e ci mettiamo in moto. Già portare le borse, in più giri, al pian terreno, ci sfianca. Salire le scale toglie il fiato, a siamo solo a 3000m. Nel giro di poche ore supereremo i 4200... Speriamo bene!
Mi vedo nello specchio e mi accorgo che ormai il mio corpo ingombra meno degli abiti che indosso, ma so che regge e tiene botta ed obbedisce a quanto la volontà comanda. Oggi si deve scalare, e si scala.
Tarma finisce presto, con il viavai di mototaxi e combis che corrono a Lima, a Cerro de Pasco, a Huancayo. Noi imbocchiamo la strada che porta a costeggiare la valle e poi a lasciarla con una serie di tornanti larghi che aggiogano le vie delle vette. Non c'è traffico e si respira una quiete quasi assoluta, interrotta solo dalle trombe bitonali che non solo ci riservano i camion, ma pure le auto e a momenti pure i tricicli. Son saluti, incoraggiamenti, richiami a non stare sulla carreggiata, tutto insieme.
Le propaggini della vallata sono un susseguirsi di campi, orti, frutteti e coltivazioni di fiori ed erbe aromatiche. Su tutta questa campagna affacciano casette modeste ma dignitose, che han visto tante stagioni e popoli spaccarsi la schiena su questi solchi.
Si sale, si sale senza sosta. A bordo strada e nei campi si vedono di nuovo gli andini, con i loro profili immutati nei secoli, i vestiti tradizionali e i bimbi portati avvolti nelle coperte colorate, sulla schiena. Tutti i lavori sono svolti a mano, senza macchine. Zappare, dissodare, arare, costruire canali per l'acqua.
Compaiono anche le prime cave. Stiamo per addentrarci in una delle zone minerarie più ricche al mondo, e anche più inquinate e deleterie per l'ambiente e la salute di chi ci vive. Ma qui l'inferno non è ancora aperto sotto ai piedi, in fucine e voragini sulfuree. Qui una madre seduta nel campo zappetta metro a metro, mentre il figlio legge un libro illustrato poco distante.
Poi le abitazioni si diradano e la roccia prende il sopravvento. E la roccia si spacca, si taglia, si scava, si sbriciola, si gratta via dal monte qui per portarla altrove in comodi sacchi porzionati. Gli Apu non sono d'accordo, e ogni tanto mandano una sciagura, che sia d'acqua o terremoto.
Gli ultimi pueblos sono quasi città fantasma, con due o tre persone rimaste e una chiesa. Il resto son edifici abbandonati, alberghi chiusi da decenni e persino una scuola spettacolo tristissimo, ridotta a mura colorate, banchi arrugginiti e un tetto crollato su ciò che resta,
Si chiude così la valle del Tarma e la strada impenna. Ricompaiono gli alpachini, che da tempo non si vedevano. Sono il chiaro spirito del luogo. Siamo di nuovo nella pancia della cordigliera andina.
I primi tornanti ci tolgono il già poco fiato. Il corpo non si è ancora abituato all'altura, ma conviene lo faccia in fretta. Spariscono gli alberi, se non i resistenti eucalipti. Il rigoglioso tripudio di fiori e frutta si trasforma in sasso, ghiaia, roccione.
Salendo incrociamo un cammino precolombiano che ancora oggi si può percorrere come trekking, stile Inca trail.
Noi siamo già abbastanza indaffarati nel portarci su e su, curva dopo curva, tornante dopo tornante. Il vento, salomonico, ora ci aiuta, ora ci sputa in faccia, a seconda della direzione che la strada prende nel continuo zigzag.
Gigi procede spedito, io mi sento svenire ad ogni giro di pedale. A quota 4000 inizia a uscirmi sangue dal naso, e la situazione un po' migliora. La pressione si autoregola così, probabilmente. Passo passo mi abituo ai respiri regolari e frequenti che l'ossigeno rarefatto richiede. Bisogna andare piano. Non avere fretta. E' la montagna a decidere il tempo, il come, il quando, il quanto a lungo.
Al kilometro 15 siamo già abbastanza cotti e approfittiamo della presenza di un paesino per una sosta. In realtà il pueblo resta in basso rispetto alla strada, ma una signora andina sopperisce alla mancanza di servizi con il suo bel mototaxi parcheggiato a bordo strada, ricolmo di leccornie caserecce: pane, formaggio, frutta secca. Lei sferruzza, ci vede arrivare, resta impassibile. Forse un po' intimorita, forse no. Quando vede che ci avviciniamo per comprare, si apre in un largo sorriso e poi ci invita a riposarci un po'. Poco prima un'anziana in abiti tradizionali che raccoglieva erbe in un campo mi ha detto: "Senorita! Se va a cansar!" (signorina, ti stancherai!). Ma no? Davvero?
Dalla sosta sappiamo che mancano ancora 11km di salita, prima di scollinare e scendere dall'altra parte... Dove ricomincia la salita. Qui fa ridere perchè ti chiedono: da dove vieni? E se non conoscono il nome della città di partenza della tappa, la seconda domanda è: vieni dalla salita? E la risposta è sempre sì, in ogni caso. Si viene dalla salita e si va alla salita. Così son le Ande.
Ripartiamo e ci lasciamo alle spalle anche gli ultimi rari baraccamenti di pastori, abitati più che altro da burri raglianti e agnelli minuscoli.
Per quanto si salga, la strada corre sempre più in alto, e la si intravede, e si intuisce il percorso; inevitabile calcolare a mente quanto tempo ancora ci vorrà, e quanta fatica per trascinarsi fino in cima.
Poi però si comincia a intravedere la valle dal suo punto più alto, e i tornanti si contano sulle dita di una mano. Non manca molto.
E infatti eccoci. Alcune casupole di fango e paglia indicano che siamo quasi giunti al passo, che non è neanche un passo, e non ha un nome, nè un cartello. E' solo il punto più alto della nostra giornata, la svolta, il giro di boa. 4220m. Da qui si scende di nuovo a 3800. A risalire ci penderemo domani (e dopo).
In questo pueblo che sembra uscito da uno scenario post-apocalittico o da un western, facciamo sosta per celebrare l'inizio della discesa. L'unica capannina che vende qualcosa è gestita da quella che pare l'unica signora del paese, che mastica un bolo di coca così grosso da non riuscire a parlare. I prezzi sono indicati con le dita.
Ci sediamo al sole, al riparo dal vento freddo, con i perri cansadi. Dobbiamo coprirci e indossare l'invernale completo, perchè quassù fa ben fresco e a scendere ne farà ancora di più.
Però che goduria. La lunga, non troppo ripida, ampia, liscissima discesa. Intorno prima il paesaggio arido e vasto dell'altiplano, steso al sole che già un po' sta calando.
Davanti a noi altri monti, a strati, accavallati, quasi sovrapposti nella distanza. Eccoci nel mezzo. Nel centro della spina dorsale di un continente.
In un soffio siamo a valle, ma dall'altra parte. Incrociamo il fiume Mantaro e la ferrovia, che è la più alta al mondo dopo quella Tibetana. Stiamo per addentrarci in una delle aree più misere, sfruttate e povere, per la gente che ci vive, di tutto il paese. Qui ci troviamo nella regione delle miniere.
Eppure il paesaggio, in questa luce dolce che sembra miele e glassa la pietra aguzza in cime tonde, non farebbe presagire nulla di male.
L'altiplano torna a chiudersi tra alte pareti di roccia a strapiombo sulla strada, che disegnano ombre lunghe su chi passa.
Si susseguono agglomerati di casine, tutte diroccate, ammalorate, semidistrutte ma non abbandonate. Non solo c'è chi ci vive, ma alcune di esse sono ristoranti o negozietti.
Paccha è l'unica cittadina vera e propria, e infatti ricompaiono i mali perri che ci inseguono, ma noi in discesa li seminiamo facilmente.
La roccia intorno si fa alta come onde di pietra congelate nei millenni. E assume tutti i colori, dal bianco al rosso al verde, in una tavolozza primordiale in cui pedalare è uno spettacolo, un caleidoscopio di brezza.
Anche la forma della alture è impressionante, e ricorda il gran calderone che è stata la terra, quando tutto era magma e collassi e rivolgimenti di lava. Questi monti sono usciti da una mastodontica sac à poche, sono meringhe minerali.
Che si sia arrivati a La Oroya è chiaro quando il paesaggio si fa improvvisamente più squallido, caliginoso di polvere e cupo.
Questa città vanta il triste primato di essere la più, o una delle più, inquinate al mondo, a causa delle attività di estrazione mineraria e della fonderia. Si autodefinisce la capitale metallurgica del Perù e del Sud America, e, se si guarda ai volumi estratti, è pure vero. Ma questa ricchezza è anche la più grande miseria.
museo dei minatori |
L'estrazione mineraria è la principale risorsa economica del Perù e buona parte di questa attività si svolge proprio egli altopiani centrali. Zinco, piombo, argento, rame e oro sono materie prime di cui il paese è tra i primi quattro esportatori al mondo e portano grande ricchezza, che però pone il problema della derivante distribuzione del benessere e dei danni ambientali. Infatti i più floridi centri minerari del paese sono anche tra i luoghi più poveri e inquinati del paese, se non dell'intero continente. A Cerro de Pasco si cavano zinco e piombo, qui a La Oroya si fondono e, benchè la Doe Run, società proprietaria della fonderia, abbia momentaneamente interrotto la produzione, questa città risulta una delle più inquinate al mondo. Beffa al danno: la popolazione ha richiesto, pur conoscendone i rischi, che le attività riprendessero, pur di non perdere il lavoro. Non sono mancati gli scioperi (huelgas) organizzati per protestare contro le condizioni di vita e lavoro, ma è evidente che la gente è disposta a sopportare pur di portare a casa il tozzo di pane. A Cerro de Pasco il problema è anche più evidente: il pozzo di estrazione si apre proprio nel centro città ed è chiamato ironicamente la plaza de armas più grande del Perù. ). 9 bimbi su 10 hanno nel sangue una quantità di minerali pericolosa; l'acqua è disponibile nelle abitazioni solo poche ore al giorno, perchè il grosso è convogliato alla miniera. Una percentuale ampia di popolazione vive sotto la soglia di povertà e, oltretutto, le case sono affacciate al bordo del pozzo e il rischio di cedimenti è imminente. Il Governo ha fatto un bel salto carpiato: prima, nel 2008, ha venduto tutto il centro storico alla compagnia estrattiva, poi ha approvato una legge che prevede, in teoria, di trasferire l'intero abitato a 20km di distanza, cosa che costerebbe 500 milioni di dollari -che ovviamente non ci sono, nè ci saranno mai. Però dal posso si scava, quello sì.
Noi ci lasciamo alle spalle la città vecchia, tutta edifici in cemento e filo spinato della Doe Run, anche perchè molti alberghi sono convenzionati e ospitano solo operai. Superiamo l'incrocio trafficatissimo di mezzi pubblici e privati che portano all'altiplano, alla selva o alla costa, e proseguiamo in valle verso la città nuova, più vivibile. Una coppia ci ferma e ci chiede lumi del nostro viaggio, tra mille complimenti. Anche loro hanno una parte della famiglia in Italia. Stiamo tornando in luoghi dove i gringos non sono cosa così rara, e spaventosa, e odiosa.
Prendiamo alloggio in un hotel di lusso che, oltre all'acqua calda, dispone di un magico meraviglioso incredibile dispositivo elettrico per scaldare il letto. Inutile dire che ci grigliamo sopra come gamberetti, godendo del tepore. Appena cala il sole la temperatura crolla sotto lo zero, e stare al calduccio è un piacere ineffabile. Domani tappa breve di avvicinamento al passo: non puntiamo nemmeno la sveglia, abbiamo l'intera giornata per scalare 20km nemmeno troppo ripidi. E' quasi un festivo!
Sabato, 27/8
La Oroya - Nueva ciudad de Morococha (4300m)
22km
Per fortuna s'è deciso per la tappa breve: ho il grave e doloroso sospetto che l'antibiotico peruviano non stia funzionando. Anche stanotte tutto ciò che ho mangiato nella giornata è finito nel cesso, con vomito, diarrea e somma sofferenza. Sono al limite fisico di tenuta. Manca poco, mi aggrappo a questa consapevolezza e tengo duro. Perfero, patior.
Dopo colazione, che per Gigi è doppia di uova e succhi di frutta, mentre per me si riduce a un panino inzuppato nella camomilla, partiamo con calma, aspettando che il sole scaldi. Intorno alle 10 dentro alla stanza fa molto più freddo che fuori. E' ora di andare.
Più di metà tappa corre in valle, in falsopiano a salire. Se seguono il fiume Yauli e il binario su cui non passa neanche un treno. Si susseguono centri pobladi piccoli e caotici, dove il mestiere principale e più diffuso è quello di sventolare piatti colorati e bandierine, a bordo strada, per attirare clienti in auto nei ristoranti.
Alcuni centri di questi paesini malandati sono anche molto graziosi e ben tenuti, con la loro chiesina e il parco giochi. Poi basta voltarsi dall'altro lato della strada ed è polvere, son macerie, cani randagi e immondizia.
La valle si stringe nelle sue spalle di roccia e presto lasciamo la ferrovia, che prosegue fino a Lima attraverso tunnel e gallerie, per imboccare la strada che porta al passo Ticlio.
Appena le pendenze si fanno un poco più aggressive, l'altura colpisce. Manca il fiato, tutte le più curiose estremità si informicolano (oltre alle mani, il mento, le labbra, la lingua, le palpebre), la testa si fa leggera leggera. Devo fermarmi ogni kilometro, pur procedendo ad un passo appena sufficiente per stare in equilibrio sulla bici.
l'esatto istante in cui è cascato un pezzo di cioccolato a terra |
Per fortuna anche oggi il vento ci aiuta e ci permette di procedere, in qualche modo, a manate sulle spalle. Purtroppo a volte c'è traffico: i camion più pesanti arrancano sulle rampe e creano un tappo ai conducenti nervosi dietro di loro. Lì cominciano le sclacsonate e i sorpassi circensi, mentre noi cerchiamo di stare a bordo strada, ma nemmeno troppo: lo strapiombo è un soffio.
Proseguiamo sulla Carretera central e guadagniamo quota, fino ai 4200m. Il paesaggio è ormai pressochè brullodel tutto, quasi desertico.
In un odore di ferro che impregna l'aria, mentre agnellini e pecore belano al vento, raggiungiamo il bivio ed entriamo in Nueva Morococha.
Ci accoglie la laguna Hualmish, occhio spalancato al cielo che ne riflette luci e azzurro. E' anche abitata da un numero incredibile di uccelli acquatici, che non riconosco e mi incantano. Starei a osservarli per ore.
La città sembra piuttosto nuova, ma è completamente deserta. Pare una ghost town. Si intravede qualche finestra aperta qua e là, un minatore in lontananza. Per il resto, silenzio. Solo il fischio del vento tra gli edifici. E' stata costruita di recente per dare alloggio ai minatori e alle loro famiglie. In parte è ancora disabitata.
Per fortuna qualcosa c'è. Un hospedaje familiare, che costa poco e offre letti con sei strati di coperte pesantissime. Io arrivo e mi ci tuffo, piombando in un sonno nero da cui mi sveglio solo al crepuscolo. Nel frattempo Gigi ha già incontrato Marco Martello di Varese, cicloviaggiatore di lungo corso che, per una connessione astrale incredibile, si trova qui, proprio a Nueva Morococha, anche lui in bici. Ha preso un anno sabbatico e va a sud, via Cordigliera, verso la Bolivia, l'Argentina e dove lo portano cuore e gambe. Ceniamo insieme, e la serata si fa ricca di storie e racconti di orizzonti lontani. Per essere precisi, Gigi mangia un po' di yuca fritta, mentre Marco ed io ci limitiamo a bere un mate: siamo entrambi gastroribaltati.
Domani è il gran giorno. Si scollina. Ci mancano 20km per raggiungere il passo Ticlio, e poi, da lì, è tutta discesa fino a Lima, fino all'oceano. Ci siamo quasi... Tra una pausetta e l'altra!
Domenica, 28/8
Nueva Morococha - Passo Ticlio (4818m) - Matucana (2400m)
76km
Signore, signori, signor*, abbiamo fatto il passo. Non quello più lungo della gamba, anche se a tratti lo abbiamo pensato. Abbiamo fatto il passo Ticlio, 4818m di purissima bellezza, fatica, fiato corto, meraviglia.
Stamattina era tutto in forse. Ho passato una nottata terribile, in preda a spasmi e dolori addominali, divorata dall'infezione, a bruciare tra letto e cesso. Un inferno che non auguro veramente a nessuno, mai. Al suono della sveglia non mi ero ancora addormentata ed ero ridotta veramente male, ma così male che Gigi mi osservava come durante una veglia funebre. Per vestirmi e chiudere le borse ci ho impiegato due ore, rallentata dal freddo degli ambienti mai riscaldati e quasi sottozero, anche all'interno, e dalla debolezza. Ho preso la decisione di cambiare antibiotico, e pare funzioni. Stanotte vedremo.
Gigi mi propone più volte di prendere un passaggio, di non pedalare. Rifiuto, come da giorni. A questo passo voglio arrivare in sella, dovessi poi evaporare in una nuvola di diarrea gassosa al primo metro di discesa. E' una questione di principio. Non esiste il "non ci riesco" a prescidere. Ci provo. Poi vedremo.
Salutiamo Marco, che oggi va a La Oroya.
E iniziamo subito a smoccolare grosso. Per riprendere la strada principale, ci inerpichiamo su una sterrata ripida come la morte, dove facciamo fatica persino a camminare spingendo la bici. Le scarpe non fanno presa e si scivola, si casca all'indietro, mentre il fiato è già rimasto sul cuscino. Gigi va meglio, io devo fermarmi ogni dieci passi per non svenire.
Salutiamo la deserta Nueva ciudad di Morococha in un sole già limpido e caldo, per quanto sia prima mattina.
Ci attendono 20km di salita, con 600m di dislivello, dai 4200 ai 4800. Questi numeri sembrano dettagli, o ghirigori onanistici, ma sono la consapevolezza razionale che permette di affrontare una fatica che, per me, risulta TITANICA. So che la distanza è quella, quello il dislivello. Ogni tre minuti guardo komoot, che registra ogni passo, e mi convinco che siamo più vicin, anche solo di 100 metri. Uno sforzo del genere è tolleraile solo se razionalizzato, e dimensionato.
Saliamo a Pucara, cittadina anonima d'altura, dove le pecore escono di casa insieme ai cristiani e tutti vanno a lavorare, masticando chi coca, chi fieno.
Lasciata alle spalle quest'ultima cittadina, la strada serpeggia in un ambiente sempre più suggestivo, sempre più "altro mondo". La laguna Huascocha, più verde che azzurra, inaugura l'infilata di laghi e specchi d'acqua che impreziosiscono le vette qui. L'incontro di elementi essenziali, la roccia, l'acqua, il vento, danno la misura di quanto la natura si riduca al minimo, essenziale
Finchè si resta in falsopiano si riesce ancora ancora a pedalare in senso stretto, per quanto la testa sia leggerissima e le membra inconsistenti, quasi ingovernabili.
Quando però le pendenze si fanno poco più accentuate, si entra in una sorta di stato di trance, di incoscienza lucida. "Il cuore rallenta, la testa cammina"... Le gambe continuano a girare, pianissimo, e il corpo resta in equilibrio sulla bici, ma senza che ci sia il preciso ordine di farlo. La mente è troppo impegnata a resistere al sopore, che la porta a fondersi con gli elementi intorno. Si ha la percezione di sfumare, come se i contorni della pelle e dei vestiti si mescolassero in superficie con l'azzurro e la luce, con il rosso roccia e la sabbia chiara. Ci si con-fonde.
Oltre ai laghi, anche i monti intorno sono opere d'arte per forma e colori. Ricchi di minerali, sfruttati, scavati nelle viscere, riescono a mostrare il loro volto policromo che quasi è arte.
Inizia l'ultimo tratto di salita, e davvero qui non svenire è impresa ardua. Basta bere mentre si pedala per finire in apnea col fiatone che dura minuti. Le soste si fanno più frequenti, ma quando ci si ferma gira la testa ancor di più. Ma la sensazione di essere già a buon punto, già così in alto, nonostante tutto, dà una tale scarica di energia vitale da resuscitare i morti (e i quasi morti di cagotto).
Intorno, cave. Monti spianati, ruine multicolori, arcobaleni minerali.
Raggiungiamo la laguna Huacracocha, e siamo a 4700m. Le cime attorno son nere, spolverate di neve. Gli apu, gli spiriti delle vette, si chiamano Yanasinqa e Anticona
Non sono in grado, onestamente, di dare descrizione efficace della grandiosità maestosa di queste alture. Pedalarci in mezzo, nel cuore, tra le costole, nel ventre, è un'esperienza estatica, letteralmente. Si esce da sè, si diventa parte del tutto.
Lascio che siano le immagini a parlare. Per me è facile aver contezza dell'immensità imponente, perchè ero lì, minuscola formichina tra giganti di pietra.
Nel giro di un attimo, o di un'eternità, chè gli estremi convergono, eccoci. Komoot indica 4820m. Ci siamo. E' il passo. L'ultimo scollinare. Da qui sarà tutta discesa, fino all'oceano.
Le foto di rito per celebrare l'impresa sono il minimo, tutto considerato. Nei pressi dei cartelli ci sono diversi venditori ambulanti un po' aggressivi, motociclisti e automobilisti che si immortalano e un ragazzo in gravel e bikepacking leggerissimo. E' inglese ma vive a Lima e sta facendo una scalatina della domenica (4800m di dislivello in 150km). Nota enciclopedica: il cartello mente, non è questo il passaggio ferroviario più alto al mondo. Non più. Il primato è detenuto dalla linea Xining-Lhasa.
Rapidi ci copriamo con tutti gli strati possibili: tra vento gelido, sole velato e discesa fa e farà freddo per i prossimi 56km. Ci bardiamo stile Amundsen e via, in picchiata di testa giù per la Carretera central che d questo lato è molto più ripida e attorcigliata di tornanti.
Anche a scendere il panorama toglie il fiato, e non più per la fatica, ma per la sola bellezza.
Ogni tanto ci fermiamo a far foto e a riprendere mobilità delle mani e della schiena, o a tirare i freni, che ormai sono agli sgoccioli. Il rosso e l'ocra della roccia fanno risaltare gli specchi d'acqua ed è un volo. La lingua, la gola e le labbra tornano ad umidificarsi un poco: in altura si asciugano, e si spaccano e sanguinano.
Dopo aver superato formazioni rocciose che paiono uscite da Marte, raggiungiamo i primi paesini di questo versante. Sono spogli e malconci, baracche e lamiere dove pastori andini vendono il formaggio. Più si scende, più assumono invece il profilo di cittadine. Casapalca, Chicla, San Mateo... Tutti scorrono in infilata. Ci fermiamo solo per un mate caldo, visto che,oltretutto, siamo pure in anticipo sui tempi calcolati.
Il secondo tratto di discesa diventa ancor più incredibile e espettacolare. Pare di essere sulle montagne russe... Anzi, peruane! La valle si chiude in un canyon che tenta di rimangiarsi la strada, e solo il fiume lo tiene a distanza. Si vola tra altissime pareti di roccia scura e, qua e là, si inforcano gallerie e ponti. Mai stata su giostre così divertenti e grandiose!
Nel giro di poco siamo a Matucana, meta di oggi. Lima è a meno di 100km, in discesa: la tappa di domani. L'ultima.
Prendiamo alloggio in un alberghetto accogliente e pulito, gestito da una signora che è stata in Italia e snocciola i nomi di tutte le città che ha visitato.
Siamo scesi a 2400m e le temperature sono già ben più miti. Doccia calda (habemus!), riposo, cena e ora, nella speranza che il nuovo antibiotico funzioni, si avvicina l'ultima notte di viaggio vero e proprio. Domani, nel pomeriggio, saremo a Lima, all'hotel dove tutto è iniziato. Ci hanno tenuto gli scatoloni per imballare bici e borse, quindi tutto è pronto per... Ripartire! Non ci si ferma mai.
Dopo l'estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità
Come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità"
(Guccini, La canzone dei dodici mesi)