Non solo siamo partiti, ma siamo anche arrivati! E la
Madonna! Anzi. E la Fatima! Ma arrivati dove? A Qom ovviamente! La seconda
città santa dell’Iran, luogo di pellegrinaggio, di madrase e scuole islamiche.
Di canti che riempiono l’aria scivolando
giù dai minareti come balsamo azzurro e oro; di mullah che camminano per strada
con il loro berretto, negli abiti bianchi o color crema. Di teocrazia e
conservatorismo duro, ma non invadente (temevo per il teorico divieto alle
donne di andare in bicicletta –che spero rimanga teorico altrimenti Huston
abbiamo problema).
E come ci siamo arrivati da Teheran fino a Qom, che è una
schioppettata di 150Km più i tot di strade sbagliate e pasticci per uscire
dalla capitale? Ma con l’autostrada, la 7S, la Teheran-Golfo Persico! Son
domande da farsi, dopo tre anni che pedalo più su autostrade che altro?
In realtà eravamo assolutamente e profondamente decisi ad
evitare questa soluzione, seppur più breve, ma poi, nel farsi della giornata,
si è rivelata ottima. Siamo partiti tardi perché abbiamo dovuto preparare i
bagagli e acconciarli sulle bici, tutto facendo ogni volta 3 piani di scale,
sotto gli sguardi curiosi degli ospiti dell’hotel.
Pronti, via, bardati come
beduini, le truppe cammellate si sono dirette verso un negozio indicatoci da
Jean per acquistare il gas per il fornello da campo di Raymond. Fermi, adesso
ve lo dico chi è Jean. E’ un ragazzo di 25 anni, laureato in ingegneria
meccanica, che s'è licenziato, insieme ad alcuni suoi amici, ed è partito con
loro per un anno di viaggio. Dalla Bretagna sono arrivati qui e muovono verso
la Cina, poi chissà, forse il Sud America. Li incontreremo di nuovo a
Samarcanda, probabilmente.
la cena con Jean |
Comprato il gas siamo partiti davvero.
Questa è la parte più moderna della capitale.
In città non è proprio facilissimo districarsi nel traffico
folle che impesta le vie principali. Precedenze, semafori, frecce, sensi unici,
marciapiedi e freno sono strumenti ignorati o sconosciuti del tutto. Si usa il
clacson per sopperire ad ogni necessità, con tutta una gamma che va dalla
strombazzata levatidarcazzo al “pit!” cordiale del “ti lascio passare”. E auto,
motorini, birocci e pedoni (ciclisti non ce ne sono) attraversano schivandosi,
come su una scacchiera dove ognuno cerca di immaginare cosa farà l’altro alla
prossima mossa. All’inizio è delirio, ma poi si entra in quest’ottica e si va
tranquilli.
Altro problema di uscire da Teheran è stato capire come
imboccare le arterie principali nel senso giusto, e non nel c*lo, perché ci
sono guard rail, recinzioni e fossati coi coccodrilli tra le corsie che vanno
in una direzione e quelle che vanno nell’altra. Per kilometri. Tant’è che s’è
dovuto scavalcare malamente e con fatica.
Tra l’altro, come dicevo, volevamo fare la strada
secondaria, chiamata “Antica strada Teheran-Qom”, che corre più o meno
parallela all’autostrada. Ma prima tutti i passanti cui chiedevamo
indicazioni ci hanno sempre indicato la motorway, poi abbiamo capito che era
pure più sicura. Tecnicamente sarebbe vietata alle bici, come in Italia, e c’è
tanto di cartello con i vari divieti all’imbocco. In pratica nessuno dice
nulla, nemmeno la polizia che abbiamo incontrato sia in pattuglia sia in
diversi posti di blocco; si sono sempre limitati a dei gran schiamazzi di
saluto e incoraggiamento. Inoltre questa autostrada è proprio ben tenuta, per
l’asfalto e la segnaletica, ed è larghissima: ha tre corsie più una di
emergenza molto ampia e pulita (non come in Russia, dove la mia comfort zone di
là dalla linea bianca della carreggiata era spesso un troiaio di fango, sabbia,
sassi e maledizioni); gli automobilisti passano molto larghi e l’unica paura è
l’infarto che viene quando strombazzano per salutare (sempre), soprattutto
camionisti (pochi) e autisti di pullman (bitonali). Da ultimo, per quanto si
sia passati due volte dal casello, non s’è pagato. La vecchia strada, la 71, è
comunque piuttosto trafficata ma molto meno larga e peggio tenuta, quindi
perché farsi del male da soli?
gente che aiuta, che chiede, risponde e fa da navigatore
Lungo il percorso, all’altezza dell’aeroporto omonimo, siamo
incappati anche nella moschea-santuario dove è sepolto l’Imam Khomeini. E’ la
struttura più grande che io abbia visto finora.
Tra l’altro a pochi km dall’ingresso sulla 7S ci ha
raggiunti un ragazzo di Teheran in sella a na bici da corsa, con una divisa da
ciclista serio (persino i braghetti corti, mal visti anche sugli uomini); si è
presentato come “in allenamento” e ha preso a scortarci; si è venuta a formare
così la Teheran dream team, che proseguito svelta per le prime decine di
kilometri. Intorno, deserto.
Credevo che questa parte, piuttosto pianeggiante (ma con
diverse collinette piccole e noiose da risalire) e a nord, fosse ben più verde.
Invece “e già sono deserto” come diceva Ungaretti. Dune, rocce, polvere,
sabbia. Qualche arbusto, sterpaglia. Sabbia. Sabbia ferma. Sabbia gialla.
Sabbia rossa. Sabbia marrone. Sabbia in nuvole spostata dal vento (tutto il
giorno, contrario, ma foriero di una minima frescura). Sabbia.
Intorno all’una abbiamo deciso di fermarci ad un’area di
servizio ben fornita di negozi, moschea, cessi e officina. Insomma
l’occorrente, i minima moralia del viaggiatore. Iniziava a fare caldo (39°C) e
avevamo finito l’acqua, o meglio, il piscio bollente della borraccia e del
camelback. L’intenzione era anche quella di offrire qualcosa al ciclista, ma
alla fine è stato lui ad insistere per pagare i nostri acquisti (acqua e varia
bibenda fredda, ghiacciolo io, barretta e formaggio Raymond); ci ha spiegato,
fumando una sigaretta, che fa il giardiniere e nel dirlo ha sfoderato due mele
una prugna dalla tasca: “Lavoro nei parchi e nei frutteti, tenete”. Poi ci ha
fatto mille complimenti e ci ha chiesto se avessimo bisogno di essere
accompagnati ancora. Gli abbiamo risposto di no e dopo altre smancerie se ne è
andato. Tre minuti dopo il padre di una famiglia in sosta-gelato si è
avvicinato offrendoci mezzo melone con vassoio e coltello. Ha insistito tanto
che abbiamo spazzolato anche quello.
Gli iraniani sono così. Gentili, ospitali.
Quello che hanno, condividono. E’ stato lo stesso alla terza sosta, quando, in
una sorta di centro commerciale, ci hanno regalato acqua e caramelle,
offrendoci anche un tavolo all’interno, con l’aria condizionata, mentre uno dei
negozianti sorvegliava le bici. Anche con me, che pure son donna – mannaggia!,
non ho ci sono problemi. Se gli uomini sono restii a parlare, a volte, è per
eccesso di riguardo, per non sembrare sconvenienti.
Dopo la sosta siamo tornati in sella e a quel punto ho
iniziato a capire cosa significhi davvero il caldo di questa terra battuta da
un sole implacabile. Prima quel sole che è un occhio spalancato ardente
colpisce la fronte e le guance, poi sale al collo, alla testa e si concentra tra
gli occhi e le tempie. Non c’è modo di sfuggire. Se anche decidi di sprecare un
po’ d’acqua, preziosa e bollente, per bagnarti la testa, dopo un minuti sei già
di nuovo asciutto e bruciato. Si diventa lenti soprattutto nei pensieri, ancor
più che nelle gambe, e tutto pare uno sfocato seguirsi di ombre e miraggi. Fa
caldo nei valloni e fa caldo in salita, batte come un maglio il sole da cui non
si trova riparo, perché non ci sono alberi e nemmeno anfratti; chi viaggia trova
rifugio sotto ai cartelloni pubblicitari o stradali, e così abbiamo fatto noi,
seguendo la moda locale.
Per chi se lo stesse chiedendo: indosso, sotto, un completo
estivo da ciclista, sopra pantalone bracalone, maglia leggerissima a manica
lunga e hijab. Allo zaino con la sacca d’acqua ho appeso l’antivento giallo e
catarifrangente, così che mi renda ancor più visibile nella luce sconfinata (e
mi copre pure le terga, se mi alzo sui pedali). Questa bardatura non procura
poi gran caldo ulteriore, e protegge dai raggi solari che spaccano le labbra,
divorano la pelle e fanno esplodere i bulbi oculari come pop-corn. Pop!
Il vantaggio del velo è che, se impregnato completamente
d’acqua, sotto al casco resta umido per un po’, e quando c’è vento fa un
discreto effetto rinfrescante.
Per le successive ore siamo stati costretti a pedalare circa
20-30km alla volta e far sosta man mano alle varie stazioni di servizio, per bere
e rinfrescarci; il balordone del caldo e la relativa rinco-cefalea passano in
fretta e poi si può ripartire. Abbiamo costeggiato per lungo tratto un grande
lago salato, Hoz-e Soltan, che è bianco come latte e rende irreale il
paesaggio, già tendente al lunare.
Dopo l’ultima sosta si era ormai vicini a Qom, dove abbiamo
deciso di arrivare comunque, in una tirata unica, perché nel mezzo abbiamo
incrociato sì un po’ di villaggi e case sparse, ma non certo dotati di
strutture. Ancora qualche colpo di pedale, e ancora, mentre il sole ormai era
basso e la luna si faceva sempre più luminosa sopra i minareti. Siamo arrivati
al casello ed abbiamo poi chiesto indicazione ad alcuni poliziotti, che ci
hanno indicato la via più rapida per entrare in Qom.
Di lì è stata una volata,
sul vialone moderno che costeggia il fiume che dà nome alla città. Era ormai il
crepuscolo. Da un lato le sponde verdi, dall’altro aiuole fiorite di oleandri e
rose. Profumo di fiori e di erba umida intorno, nel fresco benedetto della
sera. La voce del muezzin, all’improvviso, ha riempito l’aria del suo canto,
mentre l’azzurro e l’oro di una grande moschea facevano da sfondo a questo
sogno liquido che porta ad oriente. Non è per la religione, islamica o altre,
né per un dio. Ma nemmeno per gioco. Ho avuto la sensazione che davvero ci
fosse del sacro e in quel preciso istante ogni cosa fosse piena di dei, dalla
radice minuscola del filo d’erba alla luna immensa, dalla goccia di rugiada al
marmo dei palazzi.
Raymond mi ha richiamata alla realtà: “C’è un hotel lì!”. Ci
siamo diretti verso il centro ed abbiamo chiesto indicazioni ad un ragazzo che
parlava inglese; un veterinario fra l’altro. Ci ha portati in un albergo di
lusso pieno di curiosi ospiti dal Bahrein, giunti qui in pellegrinaggio: donne
completamente velate (anche il volto, per intero, occhi compresi) e bambine
avvolte nei drappi neri, uomini dalla pelle più scura, vestiti di bianco, che
paiono usciti da un quadro ottocentesco. Tanto noi siamo incuriositi da loro,
quanto loro sono incuriositi da noi, e ci chiedono da dove arriviamo e dove
andiamo. Siamo due mondi. Ma in entrambi beviamo tè con gli occhi allo
smartphone.
L’hotel, oltre al notevolissimo
buffet che offre piatti locali (di cui tre quarti allo zafferano, compresi i
wafer e il gelato) e budini fluo, ha anche, sul soffitto, una freccia che
indica la direzione della Mecca, per non dar le spalle ad Allah, e un bagno
ibrido, al mezzo tra la turca e il water. Roba seria!
Pedalando oggi facevo tra me e me
una breve considerazione: se l’anno scorso in Russia ogni piazza aveva la sua
statua di Lenin e ogni città una via a lui dedicata, qui è lo stesso con l’imam
Khomeini. Ed entrambi, in modi e tempi diversi, hanno tentato di ribellarsi ad
un potere assolutistico, quello dello zar e dello shah, e di opporsi al modello
occidentale capitalistico. In entrambi i casi è finita male e peggio, perché si
è persa tanta libertà. Ma noi, che pure affoghiamo nel libero mercato, nel
fluire allucinato di informazioni e merci e persone, quanto siamo davvero
liberi? Non è che ci siamo solo dipinti le catene d’oro e le abbiamo dotate di
wifi e bluetooth? E’ più libera la donna nascosta sotto al chador (che
significa tenda) che si sente pura e in pace o quella seminuda che sfila per la
strada pensando che la sua libertà consista nel porsi come un bel pezzo di
carne agli occhi altrui?
Oggi, giovedì 28, abbiamo deciso di restare a Qom per
visitarla. Avremmo potuto spendere qui solo mattina e ripartire nel pomeriggio,
ma la prossima città è l’anica Kashan, che dista 100Km. In mezzo, deserto.
Serve una giornata intera per arrivarci, considerando che nelle ore più calde è
necessario fermarsi.
Dopo la colazione siamo partiti alla scoperta di questa
città, così importante per i fedeli sciiti. L’umanità che percorre le strade è
forse ciò che di più interessante si possa vedere. I pellegrini affollano ogni
androne e ogni piazza. Le donne portano il chador e non l’hijab (a Teheran è il
contrario). Molte famiglie attendono su tappeti enormi, bevendo tè, all’ombra degli
alberi, nelle piazze di marmo. Mullah, mufti, faqih, ulama e altri dotti di
religione e diritto (o storto) camminano lentamente nella metà in ombra delle
strade.
Siamo andati, anzitutto, a visitare il santuario di Fatima
bint Musa, o Hazrat-e Masumeh, luogo sacerrimo per gli sciiti, secondo solo a
Mashad.
Costei era figlia del settimo e sorella dell’ottavo imam, venerata fin
da bambina per la sua sapienza e la saggezza (a 8 anni sapeva già rispondere ai
quesiti di legge e religione posti dai fedeli a suo padre). Durante un viaggio,
nel 816, fu avvelenata in un assalto contro quella carovana di sciiti; compagni
e parenti morirono; lei si ammalò e chiese di essere portata a Qom, già sciita,
e il suo corpo riposa qui, simbolo di purezza assoluta, e tuttora viene
venerata come santa. Prima il santuario era un giardino dove i fedeli si
riunivano, poi, mano a mano, sono stati aggiunti edifici e mura e cupole. Dal
XVI secolo, sotto i Safavidi, il santuario è stato abbellito e ornato con
tessuti ed oggetti preziosi, soprattutto dalle donne della famiglia reale, che
si rifugiavano qui in tempo di guerra e si immedesimavano con Fatima; molti
personaggi di riguardo da allora sono stati sepolti qui (e pure oggi abbiamo
assistito ad un funerale, con un corteo che portava la salma su una sorta di
barella, cantando). Tra fine ‘700 e inizio ‘800 sono state aggiunte la cupola
d’oro e la nuova corte. Da questo luogo, fin dal 1970, Khomeini ha iniziato la
sua predicazione, che ha poi portato alla Rivoluzione; qui l’imam ha studiato e
vissuto. Da secoli infatti Qom è nota per le madrase e le scuole religiose.
A spiegarci tutto questo è Alì, 27 anni, marito,
cordialissimo alim (esperto in scritti sacri e legge, pastore d’anime, cui
rivolgersi per problemi religiosi e non, anche per telefono, via whatsapp,
perché almeno può intanto studiare il problema e poi inviarti la risposta). Ha
anche spiegato che i religiosi che indossano un turbante bianco sono coloro che
hanno studiato e sono pii, quello con il turbante nero, invece, sono anche
diretti discendenti di Maometto. Ci ha raccontato che per diventare esperto in
diritto devi studiare 6 anni, nei quali leggi, mandi a memoria e commenti tutti
i testi importanti (10 all’anno di 300 pagine circa. E poi fai esami scritti e
orali. E’ difficile! Ha detto); poi lo studio continua e si comincia a fare
ricerca, cosa che, a volte, dura decenni. E’ la forma sciita del life-long
learning insomma. Dice Alì di aver viaggiato molto, che a sua moglie non piace,
e non è mai uscito dall’Iran. Ci permette di fare foto e ci consiglia i punti
migliori, ma nel sepolcro vero e proprio non si può entrare: solo i musulmani.
Io, per altro, ho dovuto indossare un chador. Ta-da!
Usciti da lì andiamo a visitare l’antico bazaar
e poi
facciamo spesa per eventuali soste non previste. Questa è la pasta, fusilli
(macaroni per Raymond, semolina per gli iraniani);
questa la Coca-cola.
Domani
si parte presto e la destinazione è Kashan, abitata fin dalla preisotira e poi
città-oasi di mercanti e pellegrini. Sarà bellissima, come tutto, qui, finora.