giovedì 26 agosto 2021

21-23. "Lungo la linea di minor resistenza/ siamo in marcia da gran tempo, stanchi/ ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell'insieme"




Lungo la linea di minor resistenza/
siamo in marcia da gran tempo, stanchi/
ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell'insieme./
Di noi nessuno, credo,
più ricorda quando cominciò, /
né di dove, esattamente; un piccolo scarto forse,/
una prima deviazione a evitare vampe lontane,/
un tronco di abete o faggio a riparo,
un muricciolo di pietre,/
la breve spada per tre quarti nel fodero,
l'occhio attento,/
l'orecchio ben spalancato al fragore della battaglia/
laggiù. Non sempre era facile seguirla, la linea./
Spariva oltre un torrente ringhioso,
si perdeva nell'incavo di fossi cari/
al crescione e a limacciose lumache senza guscio.
O perché/
cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì/
attorno a magri fuochi di sterpi,
malamente accampati,/
inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli./
L'alba svelava molteplici insidie/
ovvie a chiunque. Quel bosco troppo fitto
troppo buio,/
quella gola tortuosa fra pareti di roccia,
quel ponticello nudo e sottile/
sui risucchi del fiume,
la palizzata sbilenca dall'aria indifesa,/
un convergere di uccelli neri sulla radura a oriente,/
l'ululìo di grossi cani tra ruderi anneriti.../
Avevamo imparato, ci tenevamo a distanza
avanzando a ginocchi piegati,/
schiena curva, in silenzio.
Ma la linea di minor resistenza.../
...ci sarebbe servita soprattutto nello smeraldo
di un prato/
prima di metter piede su dolcissime chiazze/
di mughetti, di primule. Finalmente! Lo slancio/
era invincibile, ci lasciavamo cadere su quel manto
a braccia aperte,/
lo sguardo ozioso, socchiuso, scivoloso/
su vaghe ramaglie musicali in un accenno di vento./
Api, anche.
E una libellula incerta nel battito d'ali trasparenti./
Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti/
non lo era. In mezzo a noi languidi/
- appena un fruscio, un taglio nel bisso -/
precipitava il primo giavellotto. Il nemico era lì/
tutto attorno. Bisognava fuggire, ritirarsi,
più di una volta/
combattere sopprimendo il tremito,
richiamando l'impigrito furore/
a denti stretti, l'urlo pronto a scoppiare, il braccio/
mulinante a caso nella mischia. Belve, tutti.

Carlo Fruttero




23/8/21
Vik-Hvolsvöllur
86km

Oggi abbiam vinto alla lotteria.
Non quella italiana che promette montepremi da capogiro in vil danaro, ma quella islandese, ovvero della direzione del vento.
Un vento teso, forte, arrabbiatissimo... Ma a favore! Che ci ha sospinti rapidissimi lungo i piatti rettilinei costieri dell'Islanda meridionale. Oh sì, finalmente. Che goduria. D'altronde queste strade ci hanno già visti pedalare, ma allora in direzione opposta e controvento, con fatica titanica. Questa è dunque la giustizia salomonica di Eolo, che finalmente si mostra pietoso.

Certo, vento a favore non significa meteo felice tout court. Sarebbe chiedere troppo. Per l'intera notte ha piovuto a secchiate, nella bufera che buttava con violenza le gocce sulla tenda come scudisciate. Pareva dovessimo essere trascinati via come in un nordico Mago di Oz, e invece no, tutta la struttura ha tenuto. E questa mattina, quanto a pioggia, non è da meno. E' un continuo, obliquo, monotono flusso d'acqua che tutto diluisce e dilava, in un grigio opalescente 

Siamo costretti, come ieri, a chiudere le borse al chiuso, e piegare la tenda ancora fradicia. I tempi si dilatano e, quando partiamo, siamo già fradici e gocciolanti, pur coperti da vari strati antipioggia. Per fortuna non fa troppo freddo, siamo intorno ai 12 gradi.

La partenza è in salita, ma grazie al vento affrontiamo agilmente le due rampe che conduco fuori dalla piana di Vik. Poi pedaliamo lungo la 1, ripercorrendo i nostri passi all'indietro. Mentre all'andata ci eravamo gustati la meraviglia del paesaggio, grandioso di monti e ghiacciai, fiumi purissimi e nere spiagge, ora purtroppo la foschia ruba l'incanto e custodisce il segreto dell'orizzonte. Ma noi sappiamo cosa c'è lì, oltre la coltre di nubi e nebbia. Noi sappiamo la bellezza, l'abbiamo vista.

Facciamo una deviazione alla famosa carcassa d'aereo che tanti turisti di passaggio attrae. Sulla sabbia lavica si trovano i resti della carlinga di un aereo militare statunitense, un Douglas super DC-3 costretto ad un atterraggio d'emergenza, il 24 novembre 1973. Pare l'incidente sia stato causato da un'inspiegabile serbatoio vuoto, ma ci sono mille teorie più o meno complottiste e bislacche a riguardo. Certo è che, per fortuna, tutto l'equipaggio è sopravvissuto e anche qui gli americani han lasciato un rifiuto nella natura incontaminata. Tanto il velivolo era danneggiato che non è valsa la pena recuperarlo.



La foto che vi propongo è d'archivio perchè, detto papale papale, non ci siamo accollati i 7km di camminata su roccia e sabbia impedalabili. Diluviava, e il detour ci avrebbe fatti raffreddare troppo. Senza contare che la visibilità era minima e il posto già affollato. Sarà per la prossima, diciamo. 


Il vento ci spinge ad andare e manteniamo una velocità di crociera altissima, che non si vede da settimane. Per questo, a metà tappa, ci concediamo una sosta in un locale sperso nel nulla, che sarebbe una macelleria ma porta anche l'insegna di ristorante e caffè. Sbagliamo porta ed entriamo dal retro e, nel fare ciò, io riesco a cascare come un salame su una rampa scivolosa di pioggia. A piedi, non in bici! Pesto il già plurifratturato e ribullonato gomito ma me la cavo con un livido e due moccoli.

Il locale, gestito ora da una ragazzina adolescente (qui camerieri e commessi sono tutti under 20, probabilmente sono studenti in pausa estiva) era una stalla dal basso soffitto. E' un luogo accogliente, e ne approfittiamo per caffè, cioccolata e una fetta di torta al cioccolato che peserà un kilo e mezzo. OTTIMO


Questo è ciò che si vede fuori, mentre la pioggia continua incessante a danzare nel vento, clinamen di vapor d'acqua.



scheletro di balena?


Ripartiamo, dopo esserci rimessi addosso i vari strati, uno più madido dell'altro. Brrrr. Però la temperatura interna dei locali qui è quasi pari a quella esterna, e pedalando ci si scalda in fretta. Il vento ci spinge e vorrei poter issare vele come quelle delle navi vichinghe.

Costeggiamo le nebbiose pendici dell'Eyjafjoll, l'ultimo ghiacciaio che l'Islanda ci dona.





E dopo la valle di Thor, si riapre la pianura, stesa e illuminata da un insperato, improvviso sole.




Le case si fanno più  frequenti, ravvicinate e grandi le fattorie. Cavalli e pecore stanno nei recinti e, insomma, la città è vicina.





In un volo siamo al campeggio di Hvolsvollur, dove approfittiamo di un grande tendone in plastica che serve a piantar la tenda al riparo dalle intemperie. Il vento è feroce ora, fortuna ci è stato in poppa per l'intera tappa!
Lavatrice e asciugatrice sono gratuite ed è proprio il caso di adoperarle, visto come siamo conciati. La sala comune è minuscola ma riscaldata e ci godiamo qualche ora di riposo, prima della spesa e della cena, nonchè del solito spettacolo d'arte varia dell'umanità poliglotta che da una cert'ora si affolla nelle cucine.

a sinistra il tendone matrioska per le tendine, a destra la bandiera islandese tesa e in centro un regalo di Iris

Altra buona notizia è aver trovato gli scatoloni per imballare e imbarcare le bici. In barba a tutti gli hotel e i campeggi che chiedono, come servizio magazzino, dieci euro al giorno per scatola. Ieri sera ho spammato a tutti i negozi di bici di Reykjavik una mail in cui chiedevo se avessero le fantomatiche cardboard boxes e mi hanno risposto in molti, e per lo più in modo affermativo. Abbiamo appuntamento venerdì 27 in mattinata presso Markid, nemmeno distante dal campeggio della capitale. 


24/8/21
Hvolsvollur-Selfoss
52km

Ma che meraviglia queste tappe brevi di puro godimento di un'Islanda ormai decifrata! Una terra che addomesticata non potrà mai essere, ma compresa, e vissuta lungo la linea di minor resistenza, oh sì. Ed è proprio ciò che stiamo facendo noi, regalandoci questi ultimi giorni di viaggio in un mix di relax, pedalate perchè ci piace (potremmo prendere un bus, come tanti, ma perchè mai privarci del piacere di stare in sella?) e scoperta di quei dettagli che, a un primo veloce passaggio, eran sfuggiti allo sguardo.

Dunque, la strada di oggi ci ha riportati a Selfoss, paese da cui si era passati a inizio tour, dopo Reykjavik e il Circolo d'Oro. Era stata la nostra porta verso la costa meridionale e il Sudurland, nonchè una meravigliosa scoperta in termini di campeggio, con grande sala comune riscaldata e docce sulfuree bollenti.
Poichè sono pochi kilometri, partiamo con calma estrema. La temperatura si è alzata di oltre 10 gradi rispetto alla zona dei ghiacciai e tira vento forte ma ancora a favore. Stiamo nella nostra serra e salutiamo tutti i vicini di tenda e camper, che, stando molte ore nelle aree comuni, abbiamo conosciuto ieri. Quando i più se ne sono andati, e pure un gruppone di bimbi della materna è passato dal parco giochi (7 elfi in giubbino catarifrangente, stivali di gomma e berretti colorati + 2 maestre), ce ne andiamo, pronti ad affrontare la pioggia che pare imminente.



Anche per via ce la prendiamo molto comoda, con sosta caffè e seconda colazione, deviazione parchi e pedalata agile con chiacchiera. Nemmeno piove, se non un vapore fine fine quasi all'arrivo. Il vento ci spinge e consente di quasi (quasi) non pedalare, e aiuta ad affrontare il comunque morbido saliscendi in cui si snoda la strada. Intorno, prati, pratoni, pratissimi. Fattorie. Cavalli dalle lunghe criniere pettinate nonostante il vento. Aperto orizzonte che si sperde al grigio.



Si sta bene davvero. Certo qui il traffico è più consistente, per quanto ridicolamente minimo rispetto ai nostri standard. Ma la strada presenta una spalla larga asfaltata che consente di stare in parte alla corsia di transito, cosa che, fino a qualche km fa, era impensabile oltrechè inutile. Non vi ho ancora detto, infatti, che pure sulla ring road, ad eccezione di quest'area che è più densamente abitata e porta alla capitale, di mezzi ne passano talmente pochi, ma talmente pochi, che si pedala proprio in mezzo alla strada, che ha solo due corsie, una per direzione di marcia, ma resta sempre e comunque vuota. Infatti le auto, quando devono superare i ciclisti, allargano fino ad andare del tutto contromano. E chi guida qui si fida a compiere tale manovra anche in presenza di curve o dossi che impediscono di vedere se qualcuno arriva dall'altra parte. Perchè la probabilità che due auto passino contemporaneamente nello stesso tratto è quasi nulla.

Qui non è così, ma si sta tranquilli nella nostra safe zone di là dalla linea bianca.





Nonostante la partenza tarda e lenta e il pedalare molto rilassato, arriviamo in campeggio assai presto.


L'idea è quella di approfittare delle vasche di acqua termale e bollirci un po' nei vapori caldi, ma, ahimè, l'impianto è chiuso causa Covid e dobbiamo "accontentarci" delle docce roventi.
Anche la volpina-polena ne avrebbe bisogno, a ben guardare.


Dopo aver piantato la tenda nel "nostro" spot ci rilassiamo al calduccio dell'area comune, che è ancora deserta.


Ne approfittiamo anche per compilare il lunghissimo noiosissimo stracciamaroni modulo per rientrare in Italia senza quarantena, che dovremo mostrare in aeroporto. Ma finirà mai questa farsa di scartoffie bizantine?

Poi, siccome non piove, decidiamo di fare un giro in paese. Non che Selfoss sia una metropoli dalla frenetica vita culturale e mondana, ma si difende, rispetto ai paesi attraversati finora, e risulta molto piacevole passeggiarci. In un quarto d'ora la si percorre da cima a fondo, passando per la libreria caffetteria, che sorge accanto all'enorme biblioteca (qui leggere è cosa seria, perchè gli inverni sono lunghi).


Poi si passa per il centro dedicato a Bobby Fischer, che purtroppo chiude prestissimo, alle 16 (qui al massimo alle 18 si tira giù la serranda) 


per il parco


la galleria d'arte in lamiera tradizionale


la gelateria


e il ristorante collocato in edificio storico del '29


 da cui si vede il centro, con kebabbaro curdo e negozio di artigianato della lana.


Giungiamo al fiume Olfusà, sulle cui sponde sorge la nuovissima chiesa luterana




e il suo piccolo cimitero di lapidi minimal, con mappa esterna e un silenzio interrotto solo dal gorgogliare delle acque del fiume.



Ci sono pannelli che ricordano alcuni passaggi fondamentali dello sviluppo della cittadina. Citata già dal IX secolo e abitata stabilmente dal 1000, ovviamente da vichinghi, è rimasta un minuscolo agglomerato fino al 1891, quando un membro del parlamento nonchè businessman fece costruire qui un ponte, infrastruttura moderna e all'avanguardia per l'Islanda dell'epoca. Essendo questa un'area a forte vocazione agricola, e posizionata in mezzo ad altri centri abitati, l'infrastruttura diede un grande impulso allo sviluppo di Selfoss, al punto che, se nel 1900 contava 40 abitanti, nel 2011 ha raggiunto i 6500 e lo scorso anno i 9000. Il ponte originario è crollato nel '45, dopo esser stato occupato da truppe alleate, e ricostruito poi. 



Negli anni '30 hanno aperto un general store e un'azienda lattiero-casearia, che hanno dato impiego a tanta gente della zona. Ancora oggi aziende e negozi qui garantiscono un tasso di disoccupazione tra i più bassi della nazione e molti residenti nella capitale, che dista neanche 60km, si trasferiscono qui sia perchè i prezzi sono più ragionevoli sia perchè si respira un'aria più tranquilla e meno stressata che a Reykjavik.

Noi finiamo la passeggiata con una ricca spesa e torniamo in campeggio per la cena. Intanto ricevo risposte da numerosi negozi di bici in Reykjavik, quasi tutte positive in merito alla richiesta di scatoloni per imballare i nostri potenti mezzi. Ma allora che fonte di guadagno furbesca si sono inventati hotel e ostelli e camping, nel farsi pagare per tenere da parte in magazzino quattro pezzi di cartone? Saremo fortunati noi o c'è del marcio anche in Islanda?

In ogni caso, domani sarà l'ultimo giorno in sella. Con gli ultimi 60km torneremo al campeggio nella capitale, dove già abbiamo alloggiato all'arrivo. Domani pomeriggio andremo a recuperare pluriball e scotch, mentre gli scatoli venerdì mattina. Venerdì pomeriggio tatuaggio dalle valchirie. E nel resto del tempo? Dopodomani mattina andrò su un gommone d'assalto alla ricerca di pulcinelle di mare (questa volta non mi scappano, dopo il gran bidone dello scorso anno a Capo Nord), balene e cetacei vari che qui si avvicinano molto alla costa per nutrirsi. Gigi non verrà, perchè non ama troppo l'acqua, il mare e tutto ciò in cui si può annegare.
E ancora ci sono almeno un paio di musei che non voglio perdermi. Insomma, di bellezza da raccogliere per via ce n'è ancora tantissima!

25/8/21
Selfoss-Reykjavik
60km

Ebbene, siamo giunti al fine. Dopo 1871km, come l'anno della Comune di Parigi, come chi ha pedalato gli ultimi km di oggi in uno continuo stato di mental breakdown perchè fino all'ultimo l'Islanda ci ha fatto pagare tutta e per intero la sua bellezza.

Oggi abbiamo percorso la 1, nel tratto che in andata avevamo saltato, essendo scesi da Geysir, dopo aver esplorato il Circolo d'oro. La tappa è stata a dir poco accidentata e piena di ostacoli. Un gran finale col botto.
La premessa è che ormai la strada si può definire trafficata, e stretta. Passano camion e bus a tutta velocità, sempre raso culo a tagliar la fetta di prosciutto, e spesso la corsia esterna sparisce o è tutta zigrinata per segnalare che si sta sbandando.

In questo contesto, avere 15km di cantiere con lavori in corso che riducono ulteriormente lo spazio, spesso con traffico a corsia alternata, mentre e piove e tira vento laterale, rende tutto bello frizzantino e mai scontato, sopravvivenza compresa.

Ma questo è il meno. Superiamo Hveragerði, i cui primi edifici risalgono agli anni Venti ma cresciuta in seguito allo sviluppo dell'agricoltura, legato alla presenza di serre riscaldate con energia geotermica proveniente dalle vicini fonti di acqua bollente. Vediamo il geyser attivo e fiumi fumanti di vapore caldo.
E poi più nulla.



La strada prende a salire con una pendenza leggerissima, ma continua. E ci troviamo immersi in una nebbia che non permette di vedere nulla oltre i tre metri di distanza. Dentro a questa nube gelida, ovviamente, piove. La strada curva in modo da esporci a folate di vento laterale che spostano fisicamente la bici ora verso la scarpata, ora verso il centro della strada. Camion e auto si intuiscono dal rumore, ma loro non vedono noi (nonostante le luci e l'abbigliamento ad alta visibilità) e noi non vediamo loro, se non all'ultimo. Lo spostamento d'aria è tale da farci volare via i copricasco e da farmi quasi cadere due volte nonostante i freni tirati ed entrambi i piedi ben piazzati a terra.


Il braccio ancora è dolorante dalla caduta dell'altro giorno e le mani, fradice e fredde, sono indolenzite e insensibili a forza di stringere il manubrio con ogni forza, per tenere in piedi la bici. A tratti dobbiamo camminare, perchè il vento ci fa finire inevitabilmente in mezzo alla strada. Ripenso a tutti i ciclisti incontrati in questi giorni e alla loro saggia scelta di prendere il pullman per entrare nella capitale. 

Il viso si trasforma presto in una maschera di pioggia, moccio e fanghiglia sollevata dalle ruote dei mezzi che ci sfrecciano accanto. Si intravedono cascate e fiumi, alture, valli. La strada sale e sale e non si vede altro che grigio a perdersi nel grigio.



Passo circa un'ora a bestemmiare urlando nel vento, ininterrottamente, e a urlare improperi di ogni genere che l'aria disperde. Se qualcuno mi sentisse, penserebbe che sono completamente fuori di testa. Ma serve a sfogare la tensione e a mantenersi saldi in sella.



A un tratto inizia la discesa e la strada piega in modo da riportarci a favore di vento. Inizio a spingere perchè il mantra condiviso con Gigi è "da qui ci si deve levare di culo e in fretta altrimenti si finisce sotto a un camion Scania". Con Eolo che ci aiuta teniamo una media di 40km/h e voliamo, completamente fradici e congelati, fin nel cuore di Reykjavik, con la sola immagine salda in mente della doccia bollente che ci attende.

Torniamo al campeggio della capitale, quello in cui avevamo sostato una notte, all'inizio del viaggio. Prima di piantare la tenda ci laviamo e cambiamo, tanto ormai non abbiamo più alcuna fretta. Così rimessi al mondo come nuovi ci dedichiamo alla preparazione della "casa" che non sposteremo più fino al giorno del rientro, sabato.


Ci godiamo poi un caffè nel bar dell'ostello adiacente e organizziamo i prossimi giorni. Per oggi si decide un salto al Byco, il Brico islandese, per recuperare nastro adesivo e pluriball per imballare le bici, in bus, e rientro a piedi attraverso il centro.

Passiamo dal museo dedicato alle balene


e dal museo delle saghe norrene


dal porto vecchio





e dalle vie centrali, con la statua dedicata al fondatore di Reykjavik




le casine colorate di lamiera


e la casa della cultura.


Poi risaliamo fino alla Hallgrimskirkja attraverso vie turistiche, in un susseguirsi di negozi di souvenir e localini graziosissimi


e passiamo dalla Hofdi Hus, consolato francese poi divenuto famoso per l'incontro tra Reagan e Gorbacev, nell'86.



Torniamo in campeggio e ceniamo insieme ai due cicloturisti francesi che avevamo incrociato a Djupivogur e Hofn. Sono tornati qui in bus già due giorni fa. Lo stesso han fatto tanti altri, scoraggiati dall'incessante maltempo.

Domani l'intera giornata sarà dedicata al turismo: gommone per cercar balene e pulcinelle, museo nazionale d'Islanda e museo della fondazione vichinga. Venerdì, invece, andremo a prendere gli scatoloni e, prima o dopo il tatuaggio dalle valchirie, inizieremo a imballare tutto.
Scriverò ancora in merito a questi ultimi giorni e tirerò qualche somma, perchè l'Islanda è una maestra esigente e chiede di imparare molto e in fretta. Ho aperto il racconto di questa avventura a pedali con un elenco di cose apprese nelle prime 24 ore di permanenza sull'isola, ed ora è il momento di rivedere quelle prime impressioni e raccontare cosa si scopre dopo un mese on the road nella terra del ghiaccio e del fuoco, cosa aspettarsi e a cosa esser preparati, nel caso si volesse intraprendere una simile impresa. Quindi, stay tuned!