martedì 23 luglio 2019

19-21. Il Grand Canyon e i Navajo. Il tempo verticale, la sabbia rosso sangue e un errore



18/7
Williams-Grand Canyon village
87km

Dopo una dormita profonda e serena grazie al ritrovato fresco, la mattinata inizia con il piede giusto: splende un sole morbido, le ruote delle bici sono ben gonfie e il Grand Canyon è vicino.

Fa dolce e forse qui vicino passi
Dicendo: "Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
Puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
Lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l'aurora e intatto giorno"


L’idea è quella di arrivare il prima possibile al parco nazionale, che è poi uno dei luoghi più visitati degli Usa, e poi ritagliarci del tempo per visitarlo. Tanto so che, proprio all’orlo del Canyon, ci sono dei campeggi, e uno in particolare, il Mather campground, fa ad hiker e biker il prezzo nazional popolare di 3 dollari a capoccia. Direi benone!


Colazione dal solito benzinaio fedele e subito in sella, via rapidi in un saliscendi sempre più Sali e meno scendi.
Il paesaggio intorno è un mare calmo di verdi e azzurri, tra cespugli, alberelli e laghetti. Si va via spediti, solo con quel po’ di ansietta da forature che viene ogni volta che sulla strada occorre un minimo sobbalzo od una asperità del terreno. E’ la fobia che viene quando ci si sente perseguitati dal dio del buso nella gòma, come è successo a noi i giorni scorsi. Passerà prima o poi.


A onor del vero incontriamo sulla strada, intento a cambiare una camera d’aria, un cicloturista dai tratti orientali; gli chiediamo se abbia bisogno di aiuto e risponde che no, ha quasi finito e va tutto bene. Lo salutiamo con un “See u at the Grand!” e via, pedalare.











Arriviamo, a circa metà strada, 40 degli 80km abbondanti, ad un primo agglomerato di case, campeggi e negozietti vari, che gravitano intorno alla gas station. E’ dove saremmo dovuti arrivare ieri, non fosse stato per il cataclisma di forature e trapelli relativi. Poco male. Qui ci fermiamo per bere qualcosa di fresco e *TA-DA!* chi compare dall’ombra di un tavolino? Il nostro amico Paul, che avevamo incrociato ad Amboy ed aveva pedalato più o meno con noi una delle tappe più dure della 66, quella in pieno deserto. Il brav’uomo dagli occhi di ghiaccio ci chiede se abbiamo per caso visto un cicloturista giapponese sulla strada, uno giovane e magretto che aveva forato. Altrochè! Bene, è amico suo, hanno pedalato assieme i due giorni scorsi ed ora vanno entrambi al Canyon e poi alla Monument Valley. Come noi. Ci ragguagliamo sulla strada fatta i giorni scorsi (noi abbiamo seguito un percorso un po’ fantasioso, lungo il Colorado) e apprezziamo le porcherie presenti nei negozi della stazione di servizio. Dalle auto d’epoca agli animali impagliati, dal reparto abbigliamento cowboy alla sala interamente dedicata a gadget a tema John Wayne, o Elvis, passando per l’indian-kitsch e l’international kitsch.

Nel frattempo arriva anche il giapponesino, che scopriamo chiamarsi Shawn. Studente di lingue, 21 anni, sta pedalando da Los Angeles a New York. E’ partito circa 2 settimane fa, va abbastanza piano e parla un inglese buffo; è qui per migliorarlo. Ha una venerazione nei confronti di Paul che fa quasi pensare si sia innamorato, ma di questo parliamo dopo.

























A scaglioni, o a scoglioni, ripartiamo tutti per questi ultimo 40 cappa che ci separano dalla meraviglia che già intuisco e pregusto, senza sapere. Si sale e si sale, fino a quasi 2300 metri, e intorno la vegetazione si fa più spessa, densa e alta; siamo di nuovo nella foresta di Kaibab, per quanto arida e disseccata dal vento. Ogni poco un cartello ricorda quanto sia alto il rischio di incendi. Le cicale friggono e friscono e frullano e c’è un gran movimento di antenne ed elitre nell’erba alta, mentre al sole le foglie e la corteccia esalano un profumo di resina che inebria.
Arriviamo a Tusayan, città che vive della vicinanza al Canyon. Qui ci sono i parcheggi dei bus turistici, qui partono i tour in aereo, elicottero, jeep, camioncini, camioncioni, birocci e sti cazzi, o sti gran cazzi deluxe edition. Ribecchiamo Paul, che ha di nuovo lasciato indietro Shawn. Paul è tutto smorfiato perché, prima, sperava di poter mangiare al McDonald’s a prezzo pop, e già pregustava una terza colazione a base di bacon e paninazzo con vista sul south rim. Invece dice che gli hanno dato 5 patatine lezze e un panino microscopico a 18 dollari. Un furto! E’ davvero contrariato.
Insieme percorriamo ancora i pochi kilometri, discretamente in salita, che ci separano dall’ingresso al parco. Qui c’è una sorta di casello e noi ciclisti paghiamo 20 dollari a cranio per entrare (tutto escluso, si parla solo di utilizzo strada). Paul è ancora più scornato, non aveva messo in conto questa spesa.

Insieme tutti e 3 cerchiamo e raggiungiamo il Mather campground, dove i gentili ranger ci danno uno spazio attrezzato nel bosco.















Tenda, doccia, merenda al mega supermercato che sta nel centro del Grand canyon village e lesta partenza per visitare il più possibile. La curiosità mi brucia la lingua più della sete. Sarà davvero così bello? Così grande, così imponente, maestoso e mozzafiato come dicono? Sarà valso la deviazione, che allunga la strada?


Sì.






Per capirlo bastano i pochi passi che ci conducono dal campeggio, attraverso il boschetto profumatissimo, fino al sentiero panoramico, via Shrine of the ages (una chiesa) e anfiteatro.
Il primo impatto con il Grand Canyon non si dimentica.

Ti entra nel profondo dell’anima, va in circolo subito, attraverso la giostra del sangue. E’ un colpo, una botte forte, un’incendio che esplode silenzioso e ti fa spalancare la bocca e sgranare gli occhi.



















Come ben spiega Wikipedia
“è un'immensa gola creata dal fiume Colorado nell'Arizona settentrionale. È lungo 446 chilometri circa, profondo fino a 1.857 metri e con una larghezza variabile dai 500 metri ai 29 chilometri. Per la maggior parte è incluso nel parco nazionale del Grand Canyon, uno dei primi parchi nazionali degli Stati Uniti d'America.
Quasi due miliardi di anni della storia della Terra sono emersi alla luce grazie all'azione del fiume Colorado e dei suoi affluenti che in milioni di anni hanno eroso le rocce strato dopo strato, unita al sollevamento del Colorado Plateau.

Il primo europeo a vedere il Grand Canyon fu lo spagnolo García López de Cárdenas, che nel 1540 partì dal Nuovo Messico alla ricerca del misterioso fiume di cui parlavano gli indiani Hopi. La prima spedizione scientifica verso il canyon fu guidata dal maggiore statunitense John Wesley Powell alla fine degli anni '70 del XIX secolo. Powell descrisse le rocce sedimentarie esposte nel canyon come "pagine di un grande libro di storia". Comunque, molto prima di queste scoperte, l'area era abitata da Nativi americani che costruirono insediamenti tra le pareti del canyon. Il presidente Theodore Roosevelt amava molto l'area del Grand Canyon e la visitò diverse volte, per andare a caccia di puma ed ammirare il paesaggio”.
















E si capisce. Sembra una mastodontica città di pietra che va a perdersi tra il rosso e il grigio ben oltre l’orizzonte dello sguardo. E’ un’Atlantide di giganti scomparsi, un formicaio dove brulicano i millenni. Un profondo, assoluto, inafferrabile abisso in lungo e in largo dove si percepisce la verticalità del tempo, il cadere, l’essere attratti al fondo.







Sempre Wikipedia spiega:
Il Grand Canyon è un lungo taglio, molto profondo - in alcuni punti anche 1.600 metri - nella regione del Colorado Plateauche rende visibili strati del Proterozoico e del Paleozoico. Gli strati sono gradualmente messi in luce da una leggera pendenza che inizia nella località Lee's Ferry presso la città di Page in Arizona e continua fino alle Hance Rapid nel fiume Colorado. Il sollevamento dell'edificio della montagna (l'orogenesi), associato alla tettonica a zolle, causò l'elevazione a centinaia di metri dei sedimenti, creando la zona degli Altipiani del Colorado. L'elevazione della regione provocò anche un aumento delle precipitazioni atmosferiche in tutto il bacino idrografico del fiume Colorado, ma non abbastanza per salvare l'area del Grand Canyon dal diventare semi-arida. Infatti le frane ed altri smottamenti causarono poi uno sprofondamento del letto stesso e la conseguente deviazione del corso del fiume, che aumentarono la profondità e la larghezza dei canyon, nonché l'aridità dell'ambiente.
L'innalzamento dell'Altopiano del Colorado è irregolare: il confine settentrionale del Grand Canyon risulta più alto di circa 300 metri rispetto a quello meridionale. Il fatto che il fiume scorra più vicino al margine meridionale del Canyon è dovuto a quest'innalzamento asimmetrico del terreno. Pressoché tutta l'acqua che cade al di sopra del margine settentrionale dell'Altopiano (che percepisce più precipitazioni piovose e nevose) convoglia all'interno del Grand Canyon; al contrario, al di sotto del margine meridionale, l'acqua defluisce in un'altra direzione, seguendo l'inclinazione generale. Il risultato è un'erosione a nord del fiume molto più marcata, con un Canyon e i suoi Canyon affluenti caratterizzati da larghezze più repentine a nord del fiume.

Le temperature sull'orlo nord (North Rim) sono in genere più basse di quelle dell'orlo sud (South Rim) a causa dell'altitudine (2.438 m sopra il livello del mare). Le nevicate durante l'inverno sono comuni.





































Ma questo non basta a descrivere la meraviglia che provocano i diversi strati di roccia di colori diversi e i giochi di ombre e luci che il sole plasma tra gole e pinnacoli. L’occhio corre da un lato all’altro, tra segni lasciati dal fiume e segni lasciati dai millenni. Regna un silenzio grande, interrotto solo a tratti dalle voci di altri turisti, che però sono pochi e radi, a quest’ora, e dispersi nei molti kilometri di passeggiata. Io trovo anche, tra le rocce, questa medaglietta. E’ un segno fausto.








Seguendo in parte le vibrazioni del cuore, in parte i numerosi volantini disponibili su donazione nel parco, ci muoviamo prima verso oriente, fino al Mather point, tra scoiattolini e scoiattoloni di ogni forma e colore che cercano cibo e acqua. Poi, con uno dei molti shuttle gratuiti che girano il giro del south rim, l’orlo meridionale, ci portiamo nella parte più ad ovest, dove si trovano alcuni edifici storici di chi per primo abitò e studiò questi luoghi. Sono casette di legno di scienziati e intraprendenti albergatori, nulla di più.










Il gran camminare sotto al sole ci ha sfiniti del tutto, aggiungendo un velo di stanchezza d’argento, come polvere fina, sulle dune della stanchezza già accumulata pedalando. E’ tempo di tornare alla tenda, fatta una gran bella spesa per una cena coi fiocchi. Ai bagni incrociamo un venezuelano che fa il custode qui e parla bene italiano. Prima canta diverse canzoni datate con Gigi, poi ci racconta di essersi laureato in ingegneria navale a Genova e aver lavorato a lungo in Italia. Chissà come poi è finito qui a pulire i cessi… Davvero viaggiando di incontrano le molte strade dei tanti nomadi, che si intersecano con la nostra in maniera imprevedibile, come linee della mano.
Al campeggio scopriamo che Shawn è arrivato e ha cenato con Paul. Ci aggiungiamo  alla coppia al tavolone, mentre il crepuscolo cede il passo alla notte e le stelle brillano di una luce magica. Shawn dice che è il suo primo viaggio fuori dal Giappone e che vorrebbe anche venire in Europa; io vorrei andare nella terra del Sol Levante. Ci raccontiamo frammenti delle nostre vite, che prendono forme strane come i chicchi colorati dei caleidoscopi. Sa fare bene il sushi, dice, e pronuncia Milano con la R, MiRano. Poi tocca a Paul. 44 anni, polacco, vive da 18 anni in Australia. Si occupa di pc. Ha percorso in sella 47.000km un po’ in tutto il mondo ed era anche lui in Asia centrale l’anno scorso, proprio come me. E’ un viaggiatore esperto, Shawn lo ha eletto come mentore e maestro e d’ora in poi procederanno insieme. Si comportano come una bella coppietta in stile Hentai. Paul racconta aneddoti di viaggio, come quando aveva incontrato, nel deserto, in Australia, un tizio che viaggiava a piedi, con un cane e per beneficenza. E viaggiava a 50 gradi, con un carretto, da solo, tutto vestito da Stormtrooper. Parliamo dei nostri cicloviaggi, di casa, di cosa faremo. E poi si va in tenda. Loro domani si fermeranno qui, perché Shawn di tutto il popò di roba che c’è qui ha visto solo il supermercato e Paul vuole portarlo a vedere il Canyo. Noi invece ripartiamo. Abbiamo visto bene ciò che c’era da vedere, ci siamo lasciati rapire dalle distanze immense. La strada chiama.




19/7
Grand Canyon village-Tuba City
138km

La notte è stata tormentata da insidie intestinali. Imodium, fermenti lattici, e per oggi si mangia in bianco, o quel che si riesce di leggero. Sarà stata la verdura, sarà stato il caffellatte, sarà stata l’acqua calda… Ma io proprio ho passato una vera e propria notte di merda, in un continuo andirivieni al cesso, nel buio, incimpiando nei sassi, sotto il derisorio sguardo dei cervi.


Non sto mica troppo bene, ma decidiamo di partire comunque, dopo una colazione con oatmeal, zucchero grezzo e fruttina secca.


I primi 40km sono difficili per il saliscendi, ma incantevoli, spettacolari e indescrivibili di meravilgia per il paesaggio. La strada corre infatti lungo lungo il south rim, costeggianfo il precipizio del canyon. A tratti scompare dietro ai rami o alle rocce, a tratti ricompare invece e si spalanca, rubando lo sguardo, che rimane incollato, rapito, magneticamente attratto dagli scorci rossi e verdi delle rocce erose, collassate, crollate e ricadute su loro stesse.








La prima sosta è anche l’ultimo saluto al Canyon. Arriviamo al desert view, dove sta l’altro campeggio del south rim, insieme a negozi e baracchini vari. Qui c’è una torre finto antica, che però dà bene la misura della fuga temporis e del ricrollo della pietra sulla pietra, che da montagna diventa sabbia e riempie le clessidre. Qui c’è anche una targa dedicata al disastro aereo del 1956.
Wikipedia dedica un capitolo ale tragedie occorse tra queste guglie di roccia.
Dal 1870 circa 600 persone hanno perso la vita nel Grand Canyon. Secondo i dati pubblicati nel libro Over the Edge: Death in the Grand Canyon, pubblicato nel 2001, 50 incidenti sono stati causati da cadute; 65 sono attribuiti a cause naturali, come ipotermia, arresto cardiaco e disidratazione; 7 persone morirono per i temporali; 78 annegarono nel fiume Colorado; 242 persone furono coinvolte in incidenti aerei, tra i quali fu particolarmente disastroso quello del 1956, in cui due aerei in linea si scontrarono in quota e precipitarono nel Grand Canyon: tutti i 128 passeggeri morirono; le morti causate da incidenti o fenomeni naturali, come la caduta di rocce, sono 25; infine, 47 persone si suicidarono e 24 furono uccise. Dopo numerose indagini, venne anche alla luce che alcuni presunti suicidi erano in realtà delle cadute provocate dalla vertigine causata dallo strapiombo.

Noi facciamo una sosta contemplativa per augurare l’arrivederci a questo luogo stupendo e disumano a un tempo. Arrivederci e non addio, c’è sempre un buon motivo per tornare, dove si è stati e dove ancora non si è stati. Non resisto alla tentazione di incidere un cent (al costo di mezzo dollaro) con un simbolo hopi. Resisto invece alla tentazione delle caramelle al cactus. Sto già male abbastanza!













Si riparte e per i successivi 54km sarà pressochè tutta discesa: da 2200m a 1200m di caduta libera tra boschi e praterie, lungo una strada così bella e panoramica da valere l’intero viaggio. Al bosco di verde scuro fan spazio le rocce chiare, quasi bianche, come le ossa della terra levigate dal vento. Poi vengono le colline di terra rossa e i canyon, gli strapiombi e l’orizzonte scosceso dei monti, poi pianure aperte, enormi, da indiani a cavallo che corrono e corrono, ombre nel sole.


Siamo entrati a Navajoland, ovvero la riserva indiana dei Navajo.






















La Riserva Navajo o Nazione Navajo (in navajo: Naabeehó Bináhásdzo, in inglese: Navajo Nation) è una riserva indiana che si trova a cavallo degli Stati dell'ArizonaNuovo Messico e Utah, nel sud-ovest degli Stati Uniti.
Secondo quanto indicato dell'ufficio statunitense per il censimento (U.S. Census Bureau), la riserva ha una superficie di 71.000 km² ed al censimento del 2000 aveva una popolazione di 180.462 abitanti.
La riserva venne istituita nel 1868 all'interno del trattato stipulato fra i Navajo e il governo degli Stati Uniti dopo il fallito tentativo di confinamento dei Navajo a Bosque Redondo. Le dimensioni iniziali erano di circa 3,5 milioni di acri (14.100 km²), cioè circa un quarto delle dimensioni attuali.




Il nome Navajo deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da alcune popolazioni del sud ovest, significa Campo coltivato in un piccolo corso d'acqua. In lingua navajo si usa il termine Diné (talvolta citato nella letteratura come Dineh) che significa Il popolo.
Dal punto di vista etnico i Navajo appartengono al ramo athabaska meridionale, originario dell'Alaska e del nord del Canada e in realtà appartengono all'insieme delle nazioni Apache che intorno al 1500, provenienti dal nord, si stanziarono in un vasto territorio che si estende dall'Arizona al Texas occidentale e dal Colorado al nord del Messicoentrando in conflitto con le popolazioni Pueblo che vivevano in quei territori. A differenza delle altre popolazioni amerindie gli Apache non avevano una sola identità di nazione o tribù, ma erano distinti in clan o gruppi familiari estesi, fondati su base matrilineare (gli uomini andavano a vivere presso la famiglia della sposa). Ciascun gruppo si considera una nazione.

Dal punto di vista linguistico la lingua navajo appartiene al gruppo delle lingue athabaska della famiglia Na-dené, la stessa tipologia linguistica degli Athabaska del nord e degli Apache in senso stretto.






I Navajo discesero dalle regioni fredde dell'America settentrionale e si insediarono, poco prima del contatto con gli Europei nel bacino del San Juan, affluente del fiume Colorado, intorno al 1500 in parte dei territori degli attuali ColoradoNew Mexico e Arizona. Da popolo di invasori si trasformarono in una nazione seminomade vivendo principalmente di agricoltura e secondariamente di allevamento. Col passare del tempo questa attività li distinse culturalmente dal resto degli Apache, dal momento che le altre popolazioni indiane e gli spagnoli identificavano i Navajo come una tribù di abili coltivatori.

Una prerogativa condivisa con il resto delle popolazioni Apache era il frequente ricorso alla razzia ai danni di Europei e Pueblo allo scopo di incrementare la proprietà in cavalli e pecore. Contrariamente a quanto si racconta nell'epopea western, gli Apache e i Navajo non avevano il culto della guerra e del coraggio e nella loro struttura sociale mancavano associazioni assimilabili a società di guerrieri come nelle popolazioni delle Grandi Pianure: i fatti di guerra consistevano in realtà in razzie e azioni di guerriglia tese a sfuggire alle rappresaglie. Il valore individuale nella cultura Apache e dei Navajo si misurava non nell'atto di coraggio bensì nell'efficacia della razzia e nell'entità dei beni posseduti (cavalli e bestiame). La guerra pertanto assumeva i caratteri di una tattica di guerriglia in cui si evitava lo scontro fine a sé stesso, ma solo dettato dalla necessità di giungere ad uno scopo economico.





La struttura sociale delle nazioni Apache e dei Navajo, polverizzata in gruppi familiari estesi senza livelli di organizzazione di grado più alto, il rifiuto della guerra aperta, il ricorso alla razzia come attività economica resero queste popolazioni avversari difficili per gli Stati Uniti e in effetti furono tra le ultime nazioni indiane ad arrendersi definitivamente.
In prossimità della Guerra di secessione americana, il governo degli Stati Uniti per garantirsi l'appoggio dell'Arizona e del New Mexico decise di porre fine al problema delle razzie e di confinare le popolazioni più bellicose, in particolare i Mescaleros e i Navaho a Bosque Redondo, una riserva del Nuovo Messico. L'operazione con i Navajo, di cui fu incaricato il colonnello Christopher Carson, si sarebbe dovuta svolgere pacificamente per mezzo di trattative, tuttavia la difficoltà di trattare con un'organizzazione sociale polverizzata e dispersa in un vasto territorio portò allo scoppio di una campagna di guerra durata quasi un anno (1863-1864). Il risultato fu una tragedia: agli oltre 1000 caduti durante la guerra si aggiunse la deportazione a piedi di circa 8000 Navajo verso Bosque Redondo con una marcia forzata di 300 miglia, nel corso della quale persero la vita le persone più deboli.
Il confinamento a Bosque Redondo, durato 5 anni, è segnato come la pagina più nera della storia dei Navajo. La riserva era ubicata in un territorio malsano, quasi privo di vegetazione e poco vocato all'agricoltura. I rifornimenti di vettovaglie da parte dell'esercito erano scarsi e di cattiva qualità ed erano frequenti gli scontri con i Mescaleros, con i quali si condivideva il confinamento.

Nel 1868 venne stipulato un trattato fra i Navajo e il governo degli Stati Uniti che pose fine al confinamento a Bosque Redondo e definì i confini di una nuova riserva posta a cavallo fra gli stati americani di ArizonaNew Mexico e Utah che costituì la base della riserva Navajo definitiva, chiamata anche Navajo Nation.





Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica mutazione nella storia dei Navajo. La popolazione tornò all'attività agricola ma intensificò l'allevamento, l'artigianato (in particolare la tessitura e la lavorazione dell'argento) e cessò con le razzie. Diversi Navajo integravano il reddito, quando non era sufficiente, con il lavoro salariato. Il nuovo corso fu così favorevole che la ricchezza dei Navajo crebbe a livelli tali da spingere il governo degli Stati Uniti a regolamentare l'incremento dei capi di bestiame allevati a causa dell'eccessivo numero.
Il popolo dei Navajo conta oggi oltre 300.000 persone e costituisce il secondo gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani dopo quello dei Cherokee, stanziato in un territorio del nord est dell'Arizona. Il territorio dei Navajo, che supera in estensione ben 10 dei 50 stati degli USA, gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi esempi di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società statunitense. Pur mantenendo vivi i propri valori (lingua, cultura, tradizione), i Navajo si sono adattati al progresso nell'ultimo secolo organizzandosi in una struttura sociale autonoma moderna e integrata come nazione all'interno di una nazione.
Uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini americani fu l'uso della lingua dei Navajo come codice di comunicazione durante la seconda guerra mondiale e il fondamentale apporto dato ai risultati delle battaglie dell'esercito americano contro i giapponesi da parte dei code talker Navajo (letteralmente "coloro che parlano il codice"). La lingua navajo, una lingua complicata e a quel tempo praticamente sconosciuta in tutto il mondo al di fuori degli Stati Uniti, non fu mai decodificata dal controspionaggio giapponese.

L'immaginario metafisico non è rivolto verso l'alto, come per le culture occidentali, ma verso il basso. Verso le originarie forze della profondità terrestre. Particolare importanza hanno anche le montagne. Narrano di più ere del mondo, ciascuna distrutta da un cataclisma. Infine parlano di due Gemelli analoghi agli Eroi gemelli Maya.







Non è certo una terra ricca, questa. Per più di 50km non c’è una città, ma baracche sparse e qualche mercatino fatto da quattro assi legno dove volti intagliati nel cuio attendono qualche turista che compri la carne secca di bisonte, un tappetto o un gioiello di perline.

Ben poco resta, e quel poco è misero, polveroso e muto.






Case di spiriti fatte di albe
fatte di muschio
fatte di cotoni
fatte di pioggia
fatte di soli
fatte di turchesi
fatte di venti
fatte di pelliccia
fatte di pollini
fatte di pietra focaia
fatte di cristalli.
Spiriti di tutte le case
sotto i cieli,
benedite la mia casa
fatta di fango, resina, pino.
Benedite la mia famiglia
fatta di sangue, midollo, osso.













Mentre assaggiamo questa nuova terra, e già l’oriente ci ha rubato un’ora dal polso, mentre penso alla storia di questi popoli, così sbagliata, così violenta, così simile a quella dei volti siberiani cacciati dai russi e confinati nei ghiacci, arriviamo a Cameron. Sono quattro case e due ristoranti che vendono “curous food”, trappole per turistacci americani che hanno l’immagionario dal film western. Noi facciamo tappa alla stazione di benzina, beviamo un tè caldo e riusciamo a connetterci a internet (qui la rete del telefono è del tutto assente).

Nella stazione di servizio, oltre alla chincaglieria varia indian-kitsch, notiamo i molti volti da nativi: la stragrand maggioranza della popolazione, da queste parti, è di origine Hopi o Navajo. Molti sono in cartelli in doppia lingua, inglese e navajo. Molte le foto e i ricordi e il tentativo di fare memoria di una storia che altrimenti volerebbe via come questa sabbia rossa portata dal vento.








Usciamo nel caldo caldissimo che è di nuovo tornato e ci muoviamo nel vento bollente, su una strada scassata e pericolosa, mentre le folate ci buttano fuori carreggiata. E’ il saluto del Deserto dipinto, che ci accoglie nella sua fornace resa più umana dall’ora mite.
Cito Wikipedia, alla voce painted desert: “caratterizzata da calanchi di rocce contenenti ferro e manganese che colorano queste con sfumature di colore rosso e giallo di varie tonalità.

Il deserto si estende dal Grand Canyon in direzione sud-est per circa 240 km fino ad Holbrook, la Foresta Pietrificata e la punta meridionale del Defiance Plateau. Il limite meridionale è rappresentato dai fiumi Little Colorado e il suo affluente Puerco River, mentre il limite settentrionale è formato dalle propaggini meridionali dell'Altopiano del Colorado e dalla Black Mesa. La larghezza varia da 25 a 80 km e la superficie totale è di circa 19.400 km². L'altitudine varia da 1.370 a 1.980 m s.l.m.”




Le dune e gli speroni di roccia che vanno dal bianco al rosso, dal verde al nero giocano con la luce obliqua del sole che cala. Siamo esausti e intorno tutto si mescola e le forme diventano vento e il vento sabbia e roccia, l’ombra sembra acqua ed è solo la notte che arriva come alta marea. Motociclisti devoti, che vengono qui dove son state girate molte scene di Easy rider, ci salutano e ci fanno la V con le dita, il segno di pace. Noi arranchiamo, si sale e si scende e risale.

Al kilometro 138 finalmente raggiungiamo Tuba city, che va pronunciata con un conseguente suono di trombetta fatto con la bocca o col culo. Tuba city tuttturùùù!








Tuba City (in navajo: Tó Naneesdizí) è un census-designated place (CDP) degli Stati Uniti d'America della contea di Coconino nello Stato dell'Arizona. La popolazione era di 8.611 abitanti al censimento del 2010. Si trova sulle terre dei Navajo. È la più grande comunità della Riserva Navajo, leggermente più grande di Shiprock, Nuovo Messico, ed è il quartier generale dell'Agenzia Navajo Occidentale. La città Hopi di Moenkopi si trova direttamente a sud-est.
Il nome della città onora Tuba, un capo Hopi di Oraibi che si convertì al mormonismo. Il nome in navajo di Tuba City, Tó Naneesdizí, si traduce in "acque aggrovigliate", che probabilmente si riferiscono alle numerose sorgenti sotterranee che sono la fonte di numerosi serbatoi.

Tuba City si trova all'interno del Deserto Dipinto vicino al confine occidentale della Riserva Navajo. La città si trova sulla U.S. Route 160, vicino all'incrocio con l'Arizona State Route 264. Tuba City si trova circa 50 miglia (80 km) dall'ingresso orientale del Grand Canyon National Park. La maggior parte degli abitanti di Tuba City sono Navajo, con una piccola minoranza Hopi. Si trova all'interno dell'Arizona's 1st Congressional District, attualmente rappresentato da Tom O'Halleran.






La storia scritta della città risale a più di 200 anni. Quando Padre Francisco Garcés visitò la zona nel 1776, scrisse che gli indiani coltivavano colture. La città prese il nome da Tuuvi, un capo Hopi. Il capo Tuuvi si convertì al mormonismointorno al 1870 e invitò i mormoni a stabilirsi vicino a Moenkopi.

Tuba City fu fondata dai mormoni nel 1872. Tuba City attirò gli abitanti Hopi, Navajo e Paiute nell'area a causa delle sue sorgenti naturali. Nel 1956, Tuba City divenne una boomtown dell'uranio, come ufficio regionale per la Rare Metals Corporation e la Atomic Energy Commission. Il mulino chiuse nel 1966 e il recupero del mulino e dei cumuli di sterili fu completato nel 1990.








Noi arriiviamo sfatti ed optiamo per un motel, gestito da un indiano volto di aquila, volto di cuio, che non sorride mai, pur nella sua gentilezza. Facciamo la spesa e incrociamo solo volti di nativi, più o meno sfatti dall’alcol e dal cibo spazzatura, in questa fetta di America che sembra un altro mondo. E probabilmente lo è.




20/7
Tuba City-Navajo national monument
129km

La tappa di oggi si sarebbe dovuta limitare a un quieto trasferimento verso est lungo la Navajo Trail, la strada che attraversa le riserve di questo popolo e degli Hopi tra Canyon, praterie immense e colline sgretolate di terra rossa. Il programma, scritto a casa, a tavolino, prevedeva di raggiungere Kayenta, città che fa da porta alla Monument Valley e sta a quasi 120km da Tuba city tutturù. Però, controllando bene, mi sono accorta che a Kayenta avremmo trovato solo alloggi di lusso, roba da 180-200$ a notte. Dunque, cercando campeggi, Maps me ne dava uno soltanto, il sunset view, su una montagna a 2200m tra Shonto e Tsegi, paesucoli microscopici di quattro case di cartone e lamiera. Detto campeggio, con valutazioni altissime e commenti super positivi (gratis, vista bellissima, doccia calda, wow), si trova nel sito del Navajo National Monument, proprio davanti alla Navajo Mountain. Sono luoghi simbolici, quasi sacri, pieni pieni di spiriti e voci di un popolo che ha reso questa terra un luogo degli uomini. Dunque, benone. 100km abbastanza salini (di salita) e un bel campeggio aggratis. 
Prima di partire siamo usciti a fare colazione al solito benzinaio e un uomo, indiano evidentemente, ci ha chiesto dei soldi, adducendo la scusa che veniva dall'ospedale, sua madre era morta e doveva tornare a casa ad avvisare i fratelli. Il fatto di non dargli nulla ci è costato, probabilmente, la maledizione che ci ha colpiti qualche ora dopo.








Invero i primi 65km son filati via liscissimi. Vento a favore, saliscendi tagliagambe ma non massacrante per il nostro allenamento. Paesaggi molto vari, dai prati immensi alla roccia nuda (come l'elephant feet, che prelude alla Monument Valley), dalle dune di sabbia rossa al verde dei monti della Black Mesa. Abbiamo fatto una sosta acqua fresca al 35esimo kilometro, e qui ho anche fatto l'acquisto del secolo: crema con mentolo, canfora e sciamanesimo per muscoli e articolazioni a 1.39$. Sono passati personaggi vari vestiti da cowboy e da indiano, tutti assai sciancati, ma tant'è. Se non qui...























Poi, al 66km, seconda e ultima sosta prima del campeggio (in mezzo, nulla). Al benzinaio Shell, che ha anche laundromat e supermercato, vediamo transitare interi paesucoli dei dintorni. La gente delle colline e dei ranch viene qui a fare la spesa e a lavare i vestiti. Magari nemmeno hanno acqua e corrente, nelle case. Noi, belli tranquilli, ci rifocilliamo e, approfittando della wifi, studiamo come raggiungere il campeggio. Ci sono 2 strade possibili. Una segue la via principale, quella su cui già pedaliamo, e piega a gomito dopo 20km dentro ai monti, con una salita di 15km a strappi e con pendenze importanti. L'altra invece va subito, a partire dal benzinaio, nelle colline, e poi corre parallela allo stradone ma più in alto, tagliando per il paesino di Shonto. È più corta e meno ripida.
Controllo anche, per i primi 20km su 35, che sia asfaltata. Lo è. Ovviamente scegliamo questa strada
















Fino a Shonto è una meraviglia. La strada si arrampica pian piano sui monti e taglia per prati di cespugli irti di spine e tavolati di roccia rossa. Qualche ranch e qualche casetta ogni tanto interrompono la natura qui ancora piuttosto incontaminata e libera. A Shonto c'è festa: musica e balli country, rodeo e gente che ride e canta. Ci vedono passare, un pick up si ferma e due donne indiane ci chiedono dove stiamo andando. Al sunset campground! Guardate, rispondono, che da qui è sterrata! Scendete qui nel Canyon, è meglio. Guardiamo giù. Un precipizio che si tuffa nel vuoto di roccia e poi risale con altrettanta violenza. No no, andiamo dritti. Se è sterrata andremo più piano ma mancano solo 15km ed è presto.
Andiamo poco oltre e l'asfalto finisce davvero. E la strada sale e scende a brutte gobbe.







La prima manciata di metri è tosta di ghiaia e sassi ma pedalabile. Si ferma un'altra auto. Stessa scenetta di prima, ma aggiungono: spero arriviate prima del tramonto! Eh la Madonna, mancano 14km e son solo le 16! Ma la maledizione navajo sta già agendo su di noi, a nostra insaputa. Proseguiamo, fiduciosi. Ma il ghiaino diventa sabbia. Sabbia sempre più fina e fonda, Sabbia d'oro e rossa impedalabile, che rende difficilissimo anche trascinare a mano la bici pesante, che affonda, che sbanda, che non sale in salita e scende troppo in discesa. Camminiamo. Si fermano altre auto, ci consigliano strade alternative che passano fra campi e Canyon. Ma è tutta così. Ormai le scarpe sono piene zeppe di sabbia e i piedi si pigiano dolorosamente contro le dune formatesi in punta. Siamo luridi. Le bici, peggio. Proseguiamo. Penso: alla prossima auto che si ferma chiediamo acqua, alla peggio campeggeremo alla bella, dove la notte ci coglie. Passa un'auto cisterna. La fermo. A bordo quattro indiani vestiti da cowboy con il viso da esquimesi. Spieghiamo la situazione. "No no! Avete sbagliato strada! Di qui va a peggiorare, non riuscite con le bici. Dovete tornare tutto tutto indietro fino al benzinaio, allo stradone, e proseguire su quello e poi salire sulla strada che piega in montagna, che è asfaltata". Insomma, avevamo due opzioni e abbiamo scelto quella sbagliata. Solo che ormai si sta facendo tardi e tornare indietro significa rifarsi 4km camminando nella sabbia e una ventina a pedalare, ritornare alla Shell e da lì farsi 20km di montagne russe e 16 di salita secca. Da spararsi. Chiediamo acqua e gli indiani gentili benché bruschi ci riempiono le.borracce con un brodo di acqua torbida e erba e terra della cisterna. Ma si può bere? Sì, loro bevono quella. Se ne vanno e noi giriamo le bici indietro. È l'unica soluzione. Torneremo al benzinaio, faremo scorta d'acqua e poi si vedrà se campeggiare in giro wild (che non è il massimo qui nella riserva), chiedere ospitalità a qualcuno (ma non ci sono città), raggiungere il campeggio comunque a ogni costo e tirar dritto a Kayenta.
Mentre camminiamo e medito sul da farsi, accosta un macchinone e una ragazza indianissima, capelli neri di seta raccolti in treccia e pelle olivastra, si ferma e ci chiede che stiamo facendo. Ci spiega che la gente del posto va in bici tranquillamente fino al campeggio, che forse riusciamo prima del tramonto ma che è meglio comunque tornare sulla strada principale asfaltata. Ci offre acqua. Le chiedo dove stia andando lei. "Al benzinaio Shell a comprare il ghiaccio, non abbiamo elettricità e frigo a casa". Anche noi andiamo lì... Hai spazio in auto per caricarci? "No, ma posso tornare a casa, a due minuti da qui, lasciare l'auto e prendere il camion. Se voi continuate a camminare tra 5' vi raggiungo e vi carico". Oh graziosa fanciulla dolcissima e gentile! Tu sia benedetta! Grazie! Grazie mille in tutte le lingue del mondo! Così accade. La ragazza, di cui ahimè non ho compreso il nome, fa inversione a U, torna a casa, lascia l'auto, prende il mega pick up e ci ritrova qualche centinaio di metri avanti. Carichiamo sul cassone bici e borse (lei tira su dei pesi allucinanti senza nemmeno una goccia di sudore) e ci fa salire davanti, accanto a lei. In auto va un CD di musica indiana di quelle "eoh eoh eoh ehhhhh eoh eoh eoh ehhhhhhh!". Ci spiega che lei fa la guida turistica a Page ma nel weekend torna al ranch dove vivono i suoi ad aiutarli con pecore e cavalli. Ci chiede di noi, le spiego. Ride pensando al fatto che o nostri grandi progetti si erano incagliati nella sabbia tra le colline, e io calco la mano sulla nostra ingenuità. Lei spiega che va a prendere il ghiaccio perché a casa dei suoi non ci sono né corrente né acqua e non hanno modo di conservare il cibo. Lei è cresciuta lì senza nulla, né luce né tv né computer. E dire che avrà 20 anni. Mi fa vedere che sulla strada, oltre un certo punto, ci sono i pali della luce. "Se nasci qui sei fortunato, il telefono comunque non va ma almeno la sera puoi leggere senza bisogno di candele e fiamme". Ecco l'America, signori miei. Il paese della Silicon Valley. E dei villaggi dove gente più giovane di me è cresciuta come cent'anni fa e più. 
Mi ricorda molto la ragazza che mi fece da guida nel deserto del Gobi, in Mongolia. 20 anni di cui 16 passati in tenda, senza acqua, senza elettricità, fuori da un mondo in corsa. Però in Mongolia te lo aspetti. Qui no. E queste generazioni giovani cercano il riscatto, per non vivere come i loro genitori, nonni e bisnonni. Allora vanno in città e studiano. E spesso riescono nella piccola grande impresa di vivere una vita diversa.
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In un attimo siamo al benzinaio. Scarichiamo tutto e non so come ringraziarla. Lei è molto timida e schiva e, mentre rimontiamo le bici, sparisce al supermercato. Torna più tardi, non vuole nulla, neanche un thank you detto bene. Sorride, dice che è a posto così, e se ne va. Grazie fanciulla indiana, ci hai evitato una bella menata!
Ora bisogna però sbrigarsi. Non c'è tempo per i sentimentalismi. Compriamo acqua, un gallone lo carico io e Gigi una bottiglia da 1.5 litri. Il cibo già lo abbiamo. Il tramonto si avvicina, abbiamo ancora un'ora e mezza di luce, più mezz'ora di crepuscolo. Io sono stanchissima per altro. Non ho mangiato abbastanza, ieri abbiamo pedalato 138km e adesso, alla meglio, ce ne sono ancora 36 di cui 15 in salita secca. Con tutta l'acqua, che pesa come un maiale morto trascinato nel fango. Partiamo. L'idea è fare almeno 20km e arrivare ad un piccolo agglomerato di case intorno a una miniera, dove parte la strada per salire al campeggio. Lì, in base all'ora, decideremo se 1. Salire al campeggio 2. Chiedere ad eventuali locals di piantare la tenda nel loro giardino 3. Buttare la tenda in un anfratto nascosto e levarci di culo alle prime luci 4. Tirar dritto a Kayenta. L'opzione 3 sfuma rapidamente quando vediamo i resti di due serpenti a sonagli e un coyote spiaccicati a bordo strada. L'opzione 2 sfuma fatti i 20km: non ci sono case, solo terreni recintati con filo spinato e alcuni edifici, tra cui una stazione di servizio, abbandonati e pieni di rifiuti. Arriva il buio. Kayenta è troppo lontana. Dobbiamo salire al campeggio. Imbocchiamo la strada che si arrampica sul monte e un cartello indica a 9 miglia sia il Navajo National Monument sia una minuscola tendina, simbolo di campeggio. Inizia l'agonia. Sta per fare buio e la strada sale e sale. L'acqua pesa troppo e si aggiunge a una bici già elefantiaca. 





Porto su un peso pari circa al mio, 45x45. Sforzo immane. Gigi mi vede bianca cencio e rallentiamo, ma non c'è tempo. Pedalare col buio qui significa finire in un burrone alla peggio, in un cactus se va bene. Le foglie degli alberi frusciano intorno e le salite son rampe che non mollano. La luce del tramonto infiamma l'orizzonte e i monti piatti e i boschi risaltano con il loro profilo nero sull'ultimo chiarore prima della notte. Non ce la faccio più, ho tutte le giunture in fiamme. E i kilometri non passano. A tratti delle discese improvvise fanno pensare che abbiamo sbagliato strada, eppure no, eppure è questa. Dovrebbe, almeno. Dopo 15km di salita estenuante vediamo i fari di un'auto. Sventolando le nostre lucette la fermiamo e chiediamo se davvero c'è un campeggio lassù. Sì dice l'indiano. A mezzo miglio. Oh dei. Allora è vero. Allora ci siamo. Stavamo per tornare indietro a buttare la tenda nel bosco! Ultimo sforzo. Un cartello, poi un altro, ed eccoci. Sfiancati, sfiatati, vuoti. Ma arrivati. Il posto in sé è fantastico.







 È una terrazza in cima a tutto, tra gli alberi, con vista sul tramonto. Peccato esserci arrivati così tardi! Nel buio piantiamo la tenda e ci prepariamo una lauta cena a base di pasta al formaggio e stufato con le verdure (in scatola). Frutta e mezzo kg di biscotti di consolazione. La doccia non c'è, ci si lava nel lavandino (tanto gli avventori di questo campeggio sono pochissimi) facendo attenzione agli scorpioni attaccati ai muri. Mi cade l'occhio anche su un cartello informativo che spiega che fare se si incontra un leone di montagna. Ma bene! Però si vedono le stelle come nel deserto. Uno spettacolo di luci che fa commuovere, anche se son luci fredde e lontane. Ma fanno l'occhiolino a noi formichine che ci affatichiamo sulla crosta del mondo, ed è bello così. Il sonno arriva rapido e nemmeno ci passa per la testa l'idea di visitare il Navajo National Monument, che di fatto è un sito archeologico sparso tra i monti con insediamenti pueblo, hopi e navajo che risalgono al XII secolo. Siamo TROPPO stanchi. Domani finalmente raggiungeremo la Monument Valley, e lì, come Forrest Gump, potrò dire: "Sono un po' stanchina..."


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