22/6
Volo Milano - Madrid - Cancun
I casini iniziano subito. Dopo aver festeggiato gli amici di Upcycle e una notte quasi bianca, arriviamo assonnati e stropicciati a Malpensa. Saluto i miei, incontro Gigi, ci mettiamo in coda al check in con quel mezzo brivido che sempre precede l'imbarco delle bici. Ma questa volta sono certa di aver fatto tutto per bene: due settimane fa ho prenotato il trasporto bici tramite call center, in english, e poi, causa sindrome dell'impostore, ho richiamato il servizio clienti (in italiano) per chiedere conferma che fosse tutto ok. "Tutt'appost!" mi dice il buon uomo, rassicurante, al telefono. Quindi mi beo della mia bravura: sono riuscita ad aggirare i limiti posti alla prenotazione online (perché il biglietto è emesso da Aeromexico ma operato da AirEuropa che si rimbalzano a vicenda). Pecco così di hybris. Quando tocca a noi, al check in, iniziano i visi corrucciati e le mezze parole tra il personale di terra. In breve: la prenotazione delle bici risulta, ma ha un errore di forma che impedisce agli addetti di confermare il servizio e di farcela imbarcare. Ci spiegano che si tratta di un conflitto (assai frequente) tra compagnie, per cui una scarica le responsabilità addosso all'altra e viceversa. Per fortuna la nostra situazione viene presa a cuore da due addetti, che iniziano a fare telefonate in tutte le lingue per sbloccare la situazione. Passano così due ore e mezza. Il check in è già chiuso e noi nemmeno riusciamo a pagare (200€ per ciascuna bici!) se non dopo essere stati rimbalzati e bistrattati. Alla fine il nodo si scioglie, otteniamo i bollini magici che faranno arrivare le bici a destinazione e... Iniziamo a correre! Perché già hanno imbarcato tutti e noi dobbiamo ancora fare i controlli di sicurezza. Sudati, stressati e affannati riusciamo a lanciarci sull'aereo, a prender posto e... Rimanere lì fermi per un'ora. Il volo è stato posticipato. Questo ritardo ci costringe poi a correre come cani maledetti anche a Madrid, dove lo scalo, originariamente di due ore, si è ridotto a meno di una. Anche qui, capicollando, riusciamo a non perdere la coincidenza e, soddisfatti per aver tenuto botta alle varie sfighe, ci prepariamo alle 10 ore di volo per Cancún. Il tempo passa tra film, letture e pisolini da collo torto, e, finalmente, atterriamo in Messico. Che figata!
Affrontiamo le bolge del controllo passaporti e poi ci appostiamo Gigi al nastro dei bagagli, io alla porta dei bulky armati di carrellini. Aspetta e aspetta. Aspetta e aspetta ancora... Niente. I nostri compagni di volo sono ormai andati via tutti con le loro belle valigie, tranne noi, e una manciata di altri sommersi. Inizia una spola disperata tra addetti ai bagagli. Ciascuno sostiene non sia sua competenza. Dopo altre due ore, compare un ragazzino con dei moduli. Di qualcuno il baglio è smarrito. Panico. "Per te ho una buona notizia, le bici non sono perse, sono solo in un altro continente". Ah. E quando arrivano? "Dopodomani! Ve le portiamo direttamente in hotel!". Mh... La fiducia e l'ottimismo non sono ai massimi storici, eh, ma che si può fare d'altro? Allora compilo tutte le scartoffie e via, proseguiamo, alleggeriti, orbi, scempiati dei nostri bagagli, verso gli ultimi controlli. Se non altro ora ci attende un pullmino privato, prenotato qualche giorno fa e già pagato... Certo, ora fa ridere che per due persone e due borsette si muova un autotreno ma almeno non dobbiamo brigare per raggiungere l'hotel.
E invece...
Invece, siccome siamo in ritardo, l'autista se ne è andato, senza manco avvertire, senza un messaggio né un vago tentativo di contatto. Litigo via Whatsapp in spanglish sia con la compagnia di trasporti sia con la reception che ce l'ha consigliata. Intanto Gigi ritira i primi pesos. Morale: ci attacchiamo al ca'! "Prendiamo un taxi" propone Gigi. Ok. Usciamo, evitiamo i primi raccattagente che tutto sono meno che autorizzati, e, quando siamo in zona taxi veri, veniamo abbordati da autisti che provano a farci preventivi da 100 dollari (americani!)... Follia! Il trasporto privato con pullmino ne costava 30. Allora torniamo dentro e ci imbarchiamo nell'impresa di capire come funzioni con il bus. Fortunatamente è tutto molto semplice: in breve facciamo i biglietti e ci portiamo alla fermata. Appena si resta fuori qualche minuto, ci si rende conto di quanto caldo faccia. Sono le 21 ed è già buio pesto. I vestiti si appiccicano sulla pelle, l'umidità è indescrivibile. Si comincia a sudare e a boccheggiare, e i movimenti rallentano. Dovremo farci l'abitudine!
Mentre il bus fa mille soste e manovre incomprensibili, perché qui essere in orario è maleducazione, si squarciano i cieli in un acquazzone devastante. Noi siamo storditi e ci ridiamo su... "Potrebbe andar peggio! Potrebbe piovere!" ci diciamo. Unica consolazione: ci stiamo già tarando con il fuso (qui 7 ore in meno rispetto all'Italia), con queste 24 ore di veglia travagliata. Scendiamo alla stazione centrale dei bus e veniamo investiti da un muro di umidità rovente, densa di odori. Carne alla griglia, immondizia, salsedine, spezie, sudore, profumo dolciastro di fiori di altri mondi. Dalla fermata all'hotel è una passeggiata di venti minuti che ci porta fuori dal centro pettinato e marchiato USA verso la Cancún più autentica, zozza e, dicono malfamata. In realtà, a parte i marciapiedi scassati e i fili della corrente che creano una disordinata matassa a mezz'aria, la sensazione è di tranquillità. Ci sono localacci dove la gente beve e balla nella musica sparata a tutto volume, venditori ambulanti di epatite A e qualche perro addormentato. Insomma, niente di nuovo rispetto a quanto già visto in Perù lo scorso anno. Raggiungiamo l'hotel e, dopo una doccia fresca, rimettendoci i vestiti lerci che ci terranno compagnia per tre giorni, piombiamo nel sonno.
23/6
Cancun
La notte trascorre nella caldazza sudata nonostante l'aria condizionata, che sarà materia di contese tra me e Gigi finché non torniamo in Italia (io la odio e ho sempre paura di ammalarmi, e la considero un borghese capriccio bambinesco... Lui soffre il caldo). Alle 5 siamo già attivi, con ancora un cordone ombelicale che lega la nostra ghiandola pineale all'Italia. Compiliamo gli ulteriori mille moduli per assicurarci che i bagagli perdidos arrivino a destinazione e alle 7 siamo in strada. Il caldo è già devastante. Basta camminare, anzi, basta respirare e ci si infradicia di sudore in ogni millimetro del corpo.
Stamattina abbiamo diverse faccende da sbrigare. Innanzitutto, recuperare due SIM messicane. Poi comprare una maglia, un costume e quattro carabattole per ovviare al disguido dei bagagli. Ancora, prenotare l'escursione per domani: nuoto con gli squali balena e sulla barriera corallina! Riusciamo a far tutto muovendoci senza troppe difficoltà tra negozi e botteghine. Qui a Cancún non manca di certo l'offerta! Conosciamo tanti commercianti ciarlieri: una signora cubana e un ragazzo marocchino che vendono vestiti, un omone russo che si occupa di organizzare tour in collaborazione con il WWF... Tutti si incurioscono del nostro viaggio e la bici diventa innesco di conversazione. A mezzogiorno abbiamo concluso le faccende e possiamo finalmente dedicarci a un po' di turismo puro e semplice. Saltiamo su un bus (costo del biglietto: 0.6€) e ci facciamo portare lungo la sottile striscia di sabbia (un'isola, invero, collegata da due ponti) che abbraccia le lagune e affaccia all'oceano, la cosiddetta "zona hotelera".
La prima cosa che mi affascina è l'intrico di mangrovie che costeggia la strada e fa da muro tra terra e acqua. La seconda: i cartelli che segnalano il pericolo dei coccodrilli. Solo al terzo punto giungono i mega alberghi, i complessi residenziali e gli ecomostri che, a partire dagli anni '70 sono stati costruiti, sempre più grandi, sempre più alti, sempre più ipertrofici. Così se non hai abbastanza dinero da salire lassù nemmeno vedi più il mare. Brutta storia! Me ne parliamo tra un attimo. Scendiamo a El Rey, dove si trova una zona archeologica con resti maya che risalgono al 1200-1500. In effetti siamo qui per visitare il Museo maya e l'adiacente sito di san Miguelito. Questi antichi insediamenti erano dediti a pesca e commercio, e ci hanno lasciato reperti, abitazioni, templi e piattaforme cerimoniali che, uniti al panorama circostante spettacolare, meritano una visita. Il caldo umido rende tutto molto impegnativo, ma ci si muove tra rovine immerse nel verde e spiagge bianchissime di sabbia corallina impalpabile, che contrasta con le sfumature blu, verdi e azzurre dell'oceano. Questo è il Mar dei caraibi, che già solo dal nome evoca storie di pirati e avventurieri, missioni sanguinarie, oro a tonnellate caricato su galeoni grandi come palazzi.
Altra novità che mi cattura sono le iguane. Non le avevo mai viste e passo decisamente troppo tempo ad ammirarle e fotografarle. Loro lasciano fare, con quel piglio da dinosauro in miniatura, quelle crestine punk e quei gargarozzi imponenti. Sono bellissime! Soprattutto quando si mettono in posa sulle rovine... Chissà se le paga l'ente turismo, in dollari US.
Qui alcuni scatti dei reperti più interessanti, dagli incensieri alle statuette votive, dalle coppe alle decorazioni architettoniche... Senza contare i vetri antiuragano, dopo che il precedente museo è stato distrutto dai tifoni. Molti tratti di queste opere d'arte mi ricordano quelli visti lo scorso anno in Perù, sia delle culture preincaiche sia Inca. La cosa che mi colpisce, però, è che i maya avevano sviluppato la scrittura, per quanto non lo ruota. E' incredibile pensare che guardassero molto più al cielo che alla terra.
Dopo aver visitato il museo, che contiene pezzi di ineffabile fascino, ci concediamo un gelato Gigi e della frutta secca piccante io. Poi proseguiamo fino alla spiaggia di San Miguelito, dove scendiamo a piedi nulla nella sabbia finissima e facciamo un primo assaggio d'acqua. È meravigliosamente tiepida, con piccole onde e colori smeraldini prima e blu profondi poi. Il vento spettina le nubi e il cielo cambia di continuo sfumature, in una luce di miele liquido, già un po' obliqua, ma comunque affilata come una lama d'ossidiana. Quante ne ha viste di cose, questa terra. Non riesco a togliermi dalla mente il pensiero di quegli uomini che, nel Cinquecento, si imbarcavano verso l'ignoto e affrontavano la paura più grande di tutte, la più umana: quella del non sapere cosa ci aspetta. E immagino pure lo stupore, il terrore e la curiosità reciproca tra indigeni e conquistadores. Come sia andata a finire questa vicenda, ahimè, lo sappiamo tutti. Mentre lascio correre i pensieri, con lo sguardo che setaccia la battigia in cerca di conchiglie, mi rendo conto di come la storia abbia lasciato solchi profondi anche nella quotidianità delle persone.
Certo, nel XVI secolo ci vollero diversi decenni prima che gli europei riconoscessero come umani gli indios (i quali, invece, avevano capito ben prima, ma sempre troppo tardi, che quei bianchi barbuti giunti a cavallo dal mare non erano dei). Ma ancora oggi c'è una linea molto, molto marcata tra la zona dei privilegiati e quella di chi invece può solo sognare, invidiare o combattere per una società diversa. Qui a Cancún la linea separa quella che definirei una sorta di exclave statunitense dal resto. Qui ci sono resort, campi da golf immensi, cliniche private, strade senza buche, locali raffinati e centri commerciali di lusso. Qui ci sono persino i supermercati degli States, da Walmart al 7/11 al Circle K, i dollari americani sono accettati e le finestre affacciano tutte sulle spiagge più immacolate. Dall'altra parte ci sono negozietti con le inferriate sempre chiuse, dove i commercianti vendono attraverso le sbarre per evitare rapine, strade scassate e caotiche, qualche cane randagio, qualche mendicante, molti ambulanti e persone che si arrangiano vendendo minutaglia agli incroci. Da questa parte il mare non si vede, se non giù al porto, nella caligine mista a polvere, umidità e smog. Da questa parte i bimbi, la sera, schiamazzano correndo in mutande per strada, insieme ai randagi, o vendono braccialetti ai turisti. Dall'altra parte i loro coetanei fanno scuola vela o prendono lezioni di golf nei resort. Da una parte ci sono la ricchezza e i privilegi che derivano dall'essere nati nella parte fortunata del mondo. Dall'altra queste cose non ci sono. Il colonialismo e le discriminazioni qui si toccano con mano, e lo vediamo bene anche solo transitando tra il centro, la zona hotelera e il quartiere dove siamo noi (Puerto Juarez), che non è malfamato ma nemmeno la perla più candida. E vedremo, in periferia, sempre più degrado e abitazioni che son vere e proprie capanne. Pare che il toponimo derivi dalla lingua maya e significhi "covo di serpenti". E ce n'è, ma non sono piumati come Quetzalcoatl. Sono verdi e hanno la faccia di Washington stampata sopra.
Questo non stupisce, in generale e soprattutto nel particolare. Fino al 1970 qui non c'era nulla, se non paludi, mangrovie, selva vergine e spiagge inesplorate. Poi, però, tramite l'AI dell'epoca, quest'area è stata scelta per la costruzione di un progetto turistico pianificato in ogni dettaglio. E chi ha portato il denaro? Chi ha plasmato i desideri, le aspirazioni, il modo di vivere che si ha o si invidia? Chi ha il potere, chi deve subirlo?
Così è, e basta un giorno da queste parti per rendersene conto. Non sorprende poi che alcuni, qui, abbiano imparato a truffare, a mentire, a rubare ai gringos imbecilli e idioti in senso letterale, cioè capaci di pensare solo al proprio ombelico. Loro sono stati, infatti, i primi a illudere, deprivare, appropriarsi.
Il sole inizia a calare e noi lasciamo la spiaggia, dove, nel frattempo, si sono radunate diverse persone per non una, ben due proposte di matrimonio con gazebo, candele e rose piantate nella sabbia.
Camminiamo ancora un po', trascinando i piedi cotti come cotechini (in totale abbiamo sfiorato i 20km), e incappiamo in una sorta di fiera di biciclette di marca, abbigliamento tecnico e amenità. Chiediamo a un addetto e ci spiega che domenica si correrà una tappa del Tour de France amatoriale (ah, esiste?) e loro sono la carovana. Il brav'uomo ci racconta che è stato un professionista, tanti anni fa, e ha corso anche in Italia, sul Lago di Como e a Bergamo. Siccome siamo entrati in confidenza, buttiamo lì una richiesta che da ieri ci divora: "Ha mica gli adattatori per le valvole?". Il busillis è questo: noi abbiamo 3 copertoni su 4 con le valvole Presta, quelle classiche da bici, ma qui tutti montano pezzi con valvola Schrader, identica a quella delle auto. La comodità? Queste ultime si posso gonfiare con il compressore dal benzinaio. Noi bramiamo un adattatore, perché abbiamo dimenticato a casa i nostri. E... basta chiedere! Il brav'uomo ne recupera un paio per 1€ siamo a posto.
la cupola dell'ingresso di un centro commerciale |
Soddisfatti e felici, torniamo verso l'hotel e, per via, ci fermiamo a cena per il nostro primo autentico assaggio di cucina messicana. Dobbiamo ancora imparare molte cose ma la bontà dei tacos e delle insalate con frutta tropicale si spiega da sola. Rientrando, noto che ci sono alcune chiese cattoliche e molte evangeliste; queste sembrano banche, o uffici, e hanno la guardia giurata all'ingresso. Amen.
24/6
Cancun - Isla Mujeres
Oggi è il giorno del mare. Degli squali balena. Dei coralli e della sabbia. Abbiamo prenotato un'escursione, ieri, e ci attendono al porto alle 7.30. Andiamo a piedi per esplorare anche questo quartiere "malfamato". In realtà è solo un po' sporco e caotico, ma tutti hanno ben altri pensieri che badare a noi, unici stranieri in zona. C'è chi vende hamburger, pane, ciambelle o caramelle in baracchini più o meno ambulanti, chi aspetta il bus, chi aspetta un miracolo. Passa persino un risciò tutto coperto di cartelloni che dicono che l'apocalisse è vicina e bisogna pentirsi. C'è molta musica, molto forte, per sovrastare il rumore dei motori e quello della tristezza.
Arriviamo all'imbarcadero, ma tutto è in gran ritardo, come di norma.
Partiremo effettivamente due ore più tardi, dopo un passaggio in auto, una colazione offerta, una dettagliata spiegazione dell'attività. Con noi ci sono altre 8 persone, per lo più canadesi tra i 30 e i 40 anni. Due coppie e un gruppo di amici. Partiamo. Per raggiungere il luogo di pascolo degli squali balena navighiamo verso il largo per un paio d'ore su un motoscafo agile che salta sulle onde oceaniche. Perdiamo di vista la costa, ora siamo soli tra acqua e cielo. Il capitano ci chiama: tartaruga! Ed eccola lì, placida, che nuota in superficie. Che spettacolo! Non ne avevo mai vista una così grande. Qui tutto è meraviglia. Dalla luce che ride sul pelo dell'acqua alle creature che abitano le buie profondità. Inizio a chiedermi se avrò il coraggio di tuffarmi, da sola (Gigi non ha un grande rapporto con l'acqua), da una barca in corsa, per nuotare con i pesci più grandi del mondo, 10 metri per 15 tonnellate di bestia. E quali altri animali potrebbero esserci? Avvistiamo una manta enorme, ed è già una risposta.
Non faccio in tempo a rispondere e la barca rallenta. Eccoli là. Sono due. Si vedono le pinne dorsali e la punta della coda, unite da un'ombra scura che pare troppo grande per essere vera. Adelante! Adelante! Indosso maschera e pinne e in un attimo sono in acqua (che è tiepida anche qui al largo). La guida mi indica verso dove nuotare e quel che accade dopo è magia. Non pare vero. Sembra di stare un documentario. A nemmeno un metro da me nuota una creatura gigantesca, grande come un pullman grande, che pare di gomma. Non fa corrente, è silenzioso. Vedo la pelle scura con i suoi pallini bianchi (infatti viene anche chiamato "domino" qui). Vedo le branche enormi, e i pesci pulitori attaccati al mastodontico corpo. La bocca è un forno, un tubo, una voragine, ma innocua: mangia solo plancton. Gli occhietti, invece, sono minuscoli e mi fissano a lungo, senza alcuna espressione. Chissà che pensa di noi questo gigante, se gli diamo fastidio, se nemmeno si accorge della nostra presenza. Dopo ben due immersioni, entrambe fantastiche, viene il momento di rientrare.
Ma prima facciamo tappa a Isla Mujeres, lembo di terra privo di auto che si trova a breve distanza da Cancún. Qui ci sono alcune rovine maya dedicate alla dea della luna e della fertilità Ixchel, distrutte da uragani e tifoni, una tortugranja, cioè un centro di tutela delle tartarughe marine e, soprattutto, spiagge di sabbia corallina acque turchesi e caldissime. Ci fermiamo a Playa norte e non vorremmo più venir via. Luoghi del genere li ho visti solo in foto. Siamo in una cartolina, in un cartellone pubblicitario da agenzia turistica. Potrei stare qui in ammollo fino a sciogliermi.
Ma il capitano ci richiama: ha preparato un ceviche freschissimo con nachos. Mangiamo questa prelibatezza circondati da lembi di paradiso ma poi tocca tornare, e di corsa! Il cielo si è fatto cupo in pochi attimi e si è alzato il vento. La tempesta incombe, con nuvoloni neri alti da cielo a terra, come colonne ciclopiche. Torniamo al porto, ringraziamo e ci buttiamo sul primo combis (minibus su cui ci stanno, inspiegabilmente, tantissime persone, come i clown nelle Cinquecentesche) che porta al centro, mentre inizia a piovigginare. Scopriamo che Gigi, nei combis, non ci sta fisicamente, è troppo alto! Siccome la pioggia, alla fine, è durata solo qualche minuto, decidiamo di fare un giro al parco Las Palapas, famoso per i suoi churros. Nel frattempo giungono buone notizie dall'aeroporto: bici e bagagli arriveranno stasera intorno alle 23. Possiamo quindi ripartire già domani in tarda mattinata, dopo aver montato tutto, per una mezza tappa sui 50-70km: la Riviera Maya ci attende.
Scherzone. Ma di quelli brutti. Dopo aver cenato con tacos e quesadillas eccellenti, vengo contattata dall'omino dei bagagli, che mi immagino come un folletto peloso fatto di adesivi con codici a barre e sigle identificative. Egli dice che lo siente muchissimo, ma le nostre cose non ci sono, anche se da sistema risultano imbarcate sul volo che sarebbe arrivato oggi. Prima litighiamo in spanglish, perché a me vengono tanti dubbi sulla bontà e l'onestà del folletto dei codicilli. Quindi mi manda a quel paese e mi costringe ad andare in ginocchio a Canossa, scusarmi e farmi spiegare cosa si fa ora. Non sa rispondermi e pare dispiaciuto. Dice che si era fatto anche prestare il furgone da sua mamma per portarci le bici, perché la sua auto è troppo piccola. Ci consiglia di andare domano in aeroporto, forse arriverà tutto con il volo delle 18.30. In quel forse ci sta tutto, dagli scenari più rosei all'immagine delle nostre bici dimenticate in un angolo di un aeroporto siberiano dove transitano due voli all'anno. In hotel inizia una febbrile ricerca di soluzioni, ma ogni nostro tentativo razionale si infrange contro l'ottusità di sistemi così complessi e dis-umani da andare in palla quando qualcosa esce dallo schema. I numeri da chiamare sono solo in giorni e orari che paiono, a noi bloccati qui, lontanissimi. In aeroporto non ci sono uffici della nostra compagnia. Non c'è nemmeno un lost&found dove lagnarsi. Il PIR, cioè la denuncia di mancata consegna bagagli, in due giorni di caldo umido, pur rimanendo esso foglio in hotel, si è decomposta, biodegradata, e in più è stata compilata a cazzo e mancano dei codici necessari a rintracciare i bagagli. Insomma, un disastro. Ci facciamo un piantino isterico e poi ci rivolgiamo ai nostri santi: Gigi ad un amico che ci sta aiutando tantissimo ed io alla mamma. Tutto è comunque rimandato a domani. Inizio a capire perché su ogni palo della luce ci siano cartelli che pubblicizzano maghi, fattucchiere, curanderi per il corpo e per l'anima... E ad ogni vicolo una madonnina vestita come una bambola. Serve tanto aiuto, tanto, e tanta pazienza, tantissima.
Cancun
Dormiamo poco, siamo preoccupati. Due mesi e mezzo di viaggio in bici, senza bici, sono un bel programma! Già dalle 6 sono attaccata al telefono per contattare AirEuropa. Non giungo a nulla. C'è tensione nell'aria. Andiamo in aeroporto. Qui veniamo rimbalzati da un ufficio all'altro, e finiamo persino a rifare dei controlli passaporti, metti mai che siamo immigrati clandestini! In tal caso avrebbero con noi risolto e perderemmo ogni diritto di reclamo, perché ovviamente un timbro ha il potere di decidere della tua sorte. Ma tutti i documenti sono in ordine, quindi i vari impegati ci ascoltano annoiatissimi e poi ci sciacquano ad altri ignari. Così a catena per tutta la mattina. Dovremo tornare alle 17. Stanchi e appiccicosi torniamo in centro, ci consoliamo con una colazione che è anche pranzo e torniamo in albergo, dove abbiamo prenotato una notte in più.
Dopo una lunga sosta in hotel (il caldo è davvero insostenibile e noi siamo tutti gremati dal sole di ieri) torniamo in strada, dove una pigra e rallentata movida anima locali e negozi. L'aria è densa di fumo di carne grigliata, umidità e vapori che esalano dai tombini e dalle foglie grasse degli alberi. Compriamo una crema solare ed è ora di riprendere il bus e tornare in aeroporto. Tra poco si va in scena con quei merdoni di AirEuropa. Sono carica a pallettoni.
Purtroppo questo ennesimo tentativo fallisce ancora, e miseramente, con una dose di bile verde da mandar giù più amara del solito. Tutti fanno muro, nessuno sa niente, gli addetti rimbalzano le responsabilità ai colleghi oltreoceano e non si peritano minimamente di provare ad aiutarci. Fanno così il personale di terra della compagnia, gli addetti del lost&found, l'omino dei bagagli che lamenta che nemmeno a lui rispondono dalla sede di Madrid, lasciandolo solo a smazzarsi i casini. Vero o meno, usciamo dall'aeroporto con la consapevolezza che le bici non arriveranno a breve, e chissà quando ci verranno riconsegnate, sempre che questo accada.
Succede anche un'altra cosa davvero spiacevole.
Noi siamo stanchissimi perchè da 14 ore parliamo con gente, compiliamo reclami, stiliamo denunce, litighiamo con i mulini a vento. Quindi chiediamo allo staff aeroportuale, un po' distrattamente, dove sia la fermata del bus per il centro in quel terminal. Diversi addetti, tutti fin troppo gentili, ci danno informazioni, dicendo sempre che comunque si possono prendere i taxi. Dopo un'ora di attesa ci rendiamo conto della gabola. I bus non passano da dove ci hanno indicato. Non hanno gli orari che ci hanno detto. Non hanno i vincoli sul biglietto elettronico che hanno tentato di raccontarci, insistendo alle mie domande dubbiose. Quegli addetti sono in accordo con i taxisti e le compagnie private e cercano in ogni modo di farti perdere tempo e speranze, così da prenderti per sfinimento e convincerti a pagare dieci volte di più il prezzo della corsa. Noi, che oggi ci siamo trasformati in buddha di pietra, ma di quelli che tengono una mano sul culo e una davanti, non desistiamo. Troviamo la biglietteria, la fermata e persino il bus. Siamo professionisti nelle attese, ormai. Siamo animali dal metabolismo lentissimo. Dobbiamo anche imparare a fidarci meno in luoghi così turistici, perchè abbiamo la pelle troppo chiara e siamo troppo gringos per essere considerati persone e non bancomat rincoglioniti.
Torniamo in centro e, come ormai d'abitudine, cerchiamo consolazione nel cibo. Oggi, oltre ai tacos, proviamo altri piatti meno noti, tra cui alcuni piccanti assai. Gigi regge meglio di me, ma dopo aver fatto la scarpetta di una salsa verde di fuoco, è paonazzo, suda e sgocciola da ogni orifizio, pur negando un certo grado di sofferenza.
Mentre rientriamo, iniziamo a ragionare sul futuro immediato. E' possibile che, se le bici non dovessero arrivare entro breve, o se non sapessimo una data di consegna, si debba iniziare il viaggio con i mezzi pubblici. Non possiamo rimanere giorni, o settimane, qui a Cancun. C'è tanto da vedere e il tempo passa. Domani speriamo di saperne di più.
Aaaah che bella esperienza con la balena
RispondiEliminaChe fantastica stoica è la Rita...
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