Santiago de Querétaro-Salamanca
97km
E' sera. Davanti alla scrivania da cui sto scrivendo c'è una finestra grande quanto tutta la parete, che affaccia alla piazza centrale di Salamanca, nello stato di Guanajuato. E' una delle città più pericolose del Messico, che conta oltre 500 omicidi volontari all'anno, senza considerare i rapimenti, i furti a mano armata, gli assalti ai veicoli e gli incendi a scopo di ritorsione. Qui si contendono la piazza alcuni tra i cartelli più violenti, tra cui il Santa Rosa de Lima e il CJNG (Cartel de Jalisco Nueva Generacion). I membri non si fanno scrupoli e se per dare un messaggio ai rivali devono ammazzare 15 persone in un club, di cui 14 innocenti lì per caso, lo fanno. Se devono sparare su un gruppo di adolescenti davanti a una scuola, o far saltare in aria un autobus, lo fanno. Non c'è atrocità troppo grande, non c'è vittima troppo giovane o anziana, e per rendersene conto basta leggere gli articoli di nera dei giornali locali e nazionali. A ciò si aggiunge la quantità di "desaparecidos", persone rapite e sparite nel nulla, spesso davanti a testimoni o a telecamere. La Farnesina sconsiglia viaggi in queste zone, e il dipartimento affari esteri degli USA chiede fermamente ai suoi cittadini di non percorrere la statale 45 e l'autopista 45D, che collegano le tre città maggiormente interessate dalla criminalità organizzata: Ceylan, Salamanca, Irapuato. Indovina indovinello, che strada abbiamo percorso noi oggi? Esatto! Quella che nemmeno i local si fidano più a calcare. Va detto che qui non è solo il traffico di droga a richiamare l'attenzione dei cartelli, ma anche la presenza di raffinerie e centri di stoccaggio e smistamento di carburante, benzina, gas.
La cosa interessante è che da oltre mezz'ora un nutrito gruppo di soldati armati fino ai denti marcia, accompagnato dalla banda, in piazza, dove si è svolta la cerimonia dell'ammainabandiera. Devono dimostrare alla popolazione di essere presenti sul territorio? Non è che ci facciano, loro malgrado, gran bella figura, con queste marcette e queste parate.
Ma torniamo a stamattina, quando il sole ci ha svegliati in quel di Queretaro, in una città ancora privva di corrente dalla tempesta di ieri sera. Questa zona di altopiani centrali, fino alla conquista spagnola, era abitata da violente tribù seminomadi ben note agli aztechi, note con il nome di chichimechi. Furono sottomessi dai conquistadores dopo aspra resistenza solo alla fine del XVI secolo, quando furono in massa ridotti in schiavitù e costretti a lavorare nelle miniere. Questa zona storicamente inquieta fu anche culla della rivolta dei criollos per l'indipendenza dalla Spagna. La guerra fu pianificata a Querétaro e a San Miguel Allende, e scoppiò nel 1810 a Dolores Hidalgo. Un secolo più tardi Madero elaborava il suo rivoluzionario Plan de San Luis Potosì, mentre nel 1917 a Querétaro fu firmata la Costituzione. In tempi recenti la regione ha conosciuto la prosperità economica grazie al boom delle industrie automobilistiche, aerospaziali, manifatturiere e agricole. Qui vengono creativi statunitensi e residenti di Città del Messico in cerca di tranquillità (come mi hanno confermato gli host del Regina, che onorano la tradizione).
Querétaro fu fondata dagli otomì nel XV secolo, per essere presto sottomessi agli aztechi e, nel 1531, agli spagnoli, I francescani ne fecero una base per il loro apostolato non solo in Messico ma anche nel sud degli States. Come anticipato prima, qui si pianificò l'indipendenza, grazie a Hidalgo e i suoi colleghi, e alla "corregidora", Josefa Ortiz, che, pur scoperta e rinchiusa nell'odierno palazzo del governo, riuscì ad avvisare i suoi e a innescare la chiamata alle armi. Dopo la firma della Costituzione del '17, qui si formò il PNR, futuro PRI, che dal '29 e per buona parte del XX secolo ha dominato la scena politica messicana.
Noi di Querétaro decidiamo di non visitare il centro, che sicuramente merita una piacevole passeggiata tra vie pedonali, piazze, chiese e il Museo del calendario. Ci limitiamo a uscirne, così come siamo entrati, attraversando le periferie in espansione (è una delle città in più rapida crescita dell'emisfero settentrionale), dove traffico, ottimismo, caos e dinamismo avanzano di pari passo.
La tappa, di quasi 100km, è quasi del tutto pianeggiante, fatte salve alcune morbide colline. Percorriamo la famigerata 45, la strada da cui i turisti dovrebbero tenersi lontani, stando agli avvisi statunitensi e della Farnesina. In realtà, grazie alle larghe corsie dedicate ai bus e ai mezzi pesanti, e agli snodi che separano la percorrenza veloce da quella lenta o lentissima, come la nostra, ci sentiamo discretamente al sicuro. Dopo Città del Messico tutto sembra più pedalabile! Quanto alla gente, riceviamo sorrisoni, saluti con la mano sia dai passanti sia dai policia, dei gran "suerte!" e varie manifestazioni di incoraggiamento. Insomma, pare tutto in ordine.
Quindi si va, e ben spediti, nonostante il vento contrario che alza polvere e particole di fieno che ci fanno lacrimare gli occhi. In un soffio siamo al confine tra stato di Querétaro e Guanajuato, nei cui altopiani rocciosi si nascondevano immense ricchezze non ignorate dagli spagnoli. Dalle miniere di questo luogo si estrasse il 40% della produzione mondiale di argento, permettendo lusso e sfarzi ai magnati e schiavitù o stipendi da fame ai nativi costretti a lavorare nelle miniere. Non è un caso che qui scoppiò poi la rivolta dei criollos, quando il re Carlo III, nel 1765, decurtò le loro quote di partecipazione ai profitti. Porelli loro!
A noi si presenta un paesaggio piano e verdissimo, fertile, coltivato ad agave e mais e altri cereali, qui in modo meccanizzato ed intensivo. Il clima è perfetto: caldo, ma non troppo, e nemmeno umido. Si pedala in condizioni ottimali, anche perchè il fondo è ottimo e il traffico molto ridotto. Canticchio tra me e me Gaber, la strada. Davanti a noi ne corre una davvero piacevole, che dà l'idea di portare lontano, verso orizzonti nuovi. "C'è solo la strada su cui puoi contare/ La strada è l'unica salvezza/ C'è solo la voglia e il bisogno di uscire/ Di esporsi nella strada e nella piazza/ Perché il giudizio universale/ Non passa per le case/ Le case dove noi ci nascondiamo/ Bisogna ritornare nella strada/ Nella strada per conoscere chi siamo".
Prima di mezzogiorno siamo già a metà della tappa, a Celaya, altro grande buco nero di criminalità, impunità, corruzione e connivenza. Ma anche cultura, economia e servizi, trattandosi della terza città dello stato per numero di abitanti. Qui è passato il fiume travolgente della storia, in modo non dissimile da Querétaro e si sono combattute sanguinose battaglie tra villisti e obregonisti.
Usciti da Celaya decidiamo di fare una sosta gelato e caffè presso un tranquillo benzinaio. Qui leggo tutte quelle rassicuranti notizie sulla criminalità di queste zone, e, poco per volta, metto Gigi al corrente del vaso di Pandora che ho appena scoperchiato. Sapevo dei cartelli e degli avvisi della Farnesina, ma non avevo letto i singoli episodi di nera. Agghiaccianti! Meglio arrivare presto, far spesa e stare al sicuro in hotel la sera. Appena usciti dal bar veniamo approcciati da un omone barbuto che parcheggia a pochi metri da noi e ci chiama. "Ellamadonna, già ci siamo?!" penso. E invece, dopo qualche domanda sul nostro viaggio (cui rispondo in modo molto vago) e una risata sul "No soy gringa", chiede se ci piace il piccante. "Sì! Ma ora dobbiamo andare..." ribatto un po' sulla difensiva, pensando volesse proporci un pranzo insieme. "Allora vi piacerà questo piatto locale, è fatto con carne grigliata di manzo e una salsa di peperoncino nero della zona! Sono gorditas, ancora calde" dice sorridendo, e cacciandoci in mano un sacchetto tiepido da cui esce un profumo da acquolina. Nemmeno il tempo di ringraziarlo ed è già andato via sgommando.
Carico i due kg di gorditas unte e fragranti nel borsino, con gran cura, e ripartiamo. Dopo le news sull'attività dei cartelli, Gigi mette il turbo e percorriamo i restanti kilometri a velocità sostenuta, tra raffinerie e impianti di lavorazione dei cereali. Incontriamo diverse famiglie, alcune con bambini, altre solo coppie di anziani, intente a raccogliere rifiuti di plastica e metallo a bordo strada, per rivenderle in città. Ci viene incontro anche un pellegrino che cammina sull'asfalto, quasi contro alle auto, con una statua ben grande di Gesù, credo in legno, legata sulla schiena a mo' di zaino. Il famoso zaino de Cristo!
Più ci avviciniamo a Salamanca, più aumentano i cartelli che invitano a denunciare i crimini di cui si è vittime o testimoni, anche in forma anonima. Per fortuna non è il nostro caso. Raggiungiamo quasi trattenendo il fiato il centro, che appare molto più vivace e tranquillo di quanto immaginassi. D'altronde la maggioranza di chi vive qui non ha nulla a che fare con la criminalità e porta avanti la sua esistenza come ovunque altrove. L'albergo che ho prenotato, il Santa Maria, affaccia proprio sulla piazza principale. E' un tre stelle, o lo era, ed è arredato con oggetti così antichi che nemmeno riesco a riconoscere, non so come si chiamino o a cosa servano. Alla reception ci controllano i documenti, cosa ben rara. Mentre aspetto leggo un biglietto che recita: "Vieni in albergo perchè sei vittima di minacce, anche telefoniche? Noi possiamo aiutarti, questo è luogo sicuro". Meno male.
Prendiamo possesso della stanza, laviamo noi stessi e i vestiti (non è dato sapere quando faremo la prossima lavatrice, forse direttamente a casa, a settembre) e ammiriamo il panorama dal finestrone. Sembra tutto tranquillissimo! "Ma son le quattro del pomeriggio" commenta laconico Gigi. Ha anche ragione.
Usciamo quasi subito, sia per visitare un minimo la città, sia per procacciarci cibo e acqua ed evitare di uscire stasera con il buio. Davanti a noi si trova il Museo Hidalgo, proprio accanto alla piazza centrale, con il busto di Hidalgo, la bandiera issata e la chiesa di San Agustin.
Visto il clima sereno, passeggiamo fino al Santuario Senor del Hospital e alla piazza del Jardin Constitucion, con i suoi portici e gli ambulantes, oltre ai baracchini del cibo e dei lustrascarpe.
Per la spesa, ovviamente, ci rechiamo al mercato, che è vivvace, incasinato e colorato come quello di tutti gli altri paesi visti finora, e non dà l'idea di essere nè pericoloso nè poco sicuro. Ci muoviamo sicuri, in mezzo ai local, unici stranieri nell'arco, probabilmente, di decine di km. Ma non siamo additati come gringos! Insomma, è tutto meglio di quanto mi aspettassi.
In ogni caso non vogliamo tentar la sorte e, nel tardo pomeriggio, saliamo in camera e qui rimarremo fino a domattina. Dalla finestra vediamo scorrere la vita del paese nella piazza, vediamo le famiglie, le coppie, chi torna dal lavoro e chi fa shopping. Tutta gente normale, che fa cose normali. Come possono tollerare di vivere in un luogo dove la criminalità è così diffusa?
Certo, parlo io da italiana...
Dopo cena Gigi contatta un po' di ciclisti a La Paz, chiedendo loro se hanno scatoloni per imballare le bici per l'aereo. Qualcuno risponde già in modo affermativo. Io, invece, mi occupo di capire come si prenota il biglietto del traghetto che ci porterà da Mazatlan, sul continente, a La Paz, in Baja California. Tutti i tasselli del mosaico trovano la loro collocazione giorno dopo giorno, e il viaggio continua.
10/8
Salamanca-Penjamo
73km
Allo scoccare del cinquantesimo giorno di viaggio, registro con mestizia un infausto evento: Montezuma ha colpito anche me, con la sua maledizione. Colpa delle nefaste gorditas? Colpa della frutta del mercato? Colpa della colazione, che tanto mi è piaciuta, ed era bella oltrechè buona? Non lo sapremo mai. Quel che sappiamo è che oggi ho passato la mattinata con dei crampi allo stomaco devastanti, da non riuscire a respirare, e, dopo 50km in sella in queste condizioni, ruttando e scoreggiando come un cinghiale ferito, ho iniziato a vomitare, prima copiosamente in una stazione di servizio piena di giovani famiglie dirette a Tijuana e poi oltreconfine, poi direttamente dalla bici, fino all'arrivo (scusate i francesismi, ma la carne non è pane, come vogliono certe religioni, e il corpo, quando è malato, non fa schifo ma compassione). Si può vomitare mentre si pedala? Altrochè, e io sono una professionista, soprattutto durante i viaggi, quando, per una via o per l'altra, cado malata. E' operazione che poi richiede un accurato lavaggio delle gambe e dei pantaloncini, ma tant'è. Gli ultimi 4km sono stati un inferno, anche perchè mi è salita la febbre e pedalavo con i brividi sotto al sole cocente degli altipiani centrali del Messico, sbandando e vomitando, ansando e annegando nei miei fluidi. A un km e mezzo dalla meta (anticipata) ho pensato fosse necessario chiamare il 911, numero di emergenza messicano. Poi no, sono riuscita ad arrivare all'hotel sulle mie tremolanti e doloranti gambette, spinta più dal desiderio di riposare tranquilla che non dalla forza di procedere.
la colazione. Colpa sua? |
Stamattina sembrava andasse tutto bene, a parte la disperazione di Gigi di aver forato anche la gomma posteriore (con cinema di cambio camera d'aria e borse a giro nella hall). Arriverà a tre forature entro sera, in meno di 24 ore. Forse è il momento di cambiare copertoni? Ci accompagnano da tre anni e hanno attraversato Islanda, Perù e ora Messico. Hanno fatto il loro lavoro.
Usciamo in una Salamanca ancora un po' addormentata, baciata dai primi raggi di un sole tiepido. Non mancano persino le piste ciclabili! Con una sosta benzinaio per gonfiar bene le gomme di Gigi, siamo pronti per partire davvero. Pedaliamo spediti verso Irapuato, seconda città del Guanajuato con i suoi 450.000 abitanti.
La sera è travagliata, e nulla porta a pensare che domani io sia in grado di pedalare. Ci lasciamo aperte tutte le opzioni: stare qui, pedalare poco, pedalare una tappa intera e recuperare un po' dei km persi. Il vento agita le palme e pare voglia piovere. Mi addormento di nuovo, appesantita da antibiotico e tachipirina, e dormo un sonno nero senza sogni.
Anche qui le periferie sono piuttosto agevoli da attraversare, grazie ai grandi viali semideserti e alle piste ciclabili, un po' strette a onor del vero, ma chi siamo noi per lamentarci. In fondo siamo gli unici ad utilizzarle.
Irapuato, nota per fiori, frutta, soprattutto fragole, allevamento di suini e bovini, ha, negli ultimi anni, sviluppato una fiorente industria anche in altri settori, dalla chimica alla manifattura. Il luogo era abitato dai fieri Chichimeca, seminomadi, e poi da Purépecha, che si stanziarono come agricoltori e artigiano e diedero il nome alla città (Xiriquitzio, luogo dove ci sono case). L'impero Purépecha, però, cadde in fretta, lasciando di nuovo terre ai Chichimeca. Poi vennero gli spagnoli, e in massa, quando si scoprì quanto argento custodiva nelle sue viscere questa regione. La città in sè fu fondata su decreto di Carlo V in persona, uno dei miei personaggi storici preferiti, grandioso e tragico. Sul suo regno non tramontava mai il sole, diceva, perchè possedeva la Spagna con tutte le colonie, sia nelle Americhe sia in Asia (ma pure il sud Italia, eh), i Paesi Bassi con relative colonie, i territori dell'Impero asburgico... A lui si inchinavano i conquistadores più celebri, da Pizarro a Cortés. Ma durante il suo regno, in Europa, scoppiò la Riforma luterana, con guerre e rivolte annesse, e fu lui a gestirla. E sempre lui affrontò i turchi di Solimano il Magnifico, in espansione verso occidente, senza contare la guerra con la Francia, storica nemica. Questa fu la sua vita, fin da adolescente e fino a cinquant'anni. Poi si ritirò in convento, dopo aver abdicato e diviso i possedimenti tra figlio e fratello. E ci credo!
Il suo nome, comunque, compare ancora sullo stemma di Irapuato.
Altri fatti sulla città? Il 18 agosto 1973 la parete di una diga cedette, e Irapuato fu investita da un muro d'acqua di oltre 2 metri che la inondò. 300 morti, distruzione, persone lasciate sui tetti o sugli alberi per giorni prima di essere soccorse. Ancora, nell'estate del 2020 ci sono state diverse stragi con armi da fuoco in due centri di riabilitazione per tossicodipendenti. Insomma, la cronaca qui è tutta una festa. Quando passiamo noi c'è più polizia che gente per strada. Gli agenti, armati e con elmetto, passamontagna e giubbotto antiproiettile, pattugliano le strade a bordo di jeep con il cassone aperto, dotato di mitragliatrice.
Usciamo dalla città senza grandi difficoltà e ci troviamo di nuovo su uno stradone che buca la campagna. Oltre al mais e all'agave, coltivati in campi enormi e verdissimi, si vedono distese di campi di fragole, con annessi baracchini che le vendono "con crema" e serre di pomodori verdi e peperoncini. A bordo strada transitano anche piccole mandrie o greggi, accompagnate dal pastore (spesso ben armato di machete)
Superiamo Abasolo, il cui nome è quello di un patriota, ma in Purépecha si chiamava "luogo delle puzzole" (che sono, in spagnolo, zorrillos, volpine) e facciamo sosta in un paradero con ristorante, minisuper e bagno. Oltre a noi arrivano pullman carichi di famiglie un po' straccionente dirette a Tijuana e poi negli States, con questi viaggi mortali di decine di ore attraverso il paese. Sono per lo più giovani madri e padri con bimbi piccoli al seguito. Arrivano, vanno in bagno, mangiano qualcosa. I bambini più grandicello giocano con me macchinine, a terra, facendole correre sulle linee delle piastrelle. Non hanno idea di quale impresa stiano affrontando.
Qui ha inizio il mio tracollo. Sto male, poi peggio. Vado in bagno a più riprese, ed ogni volta vomito copiosamente, anche quando poi tolgono l'acqua dai lavandini e tocca pulirsi solo con qualche tovagliolino. Mi fa male ogni cosa, mi sento svenire, la pancia è in fiamme, non respiro. Dopo aver vomitato l'anima a più riprese, e aver fatto quattro chiacchiere con il proprietario del posto, che sta chiudendo ed è in imbarazzo a cacciarci via, viene il momento di ripartire. Sperando di potermi rifocillare un pochino, più tardi, compro una cocada, un dolce buonissimo fatto con pasta di cocco e cannella. Purtroppo rimarrà intatto a lungo.
I 20km che pedaliamo dopo la sosta sono abbastanza infernali. Oltre ai crampi alla pancia, sento che mi è salita la febbre. Mi fanno male muscoli, tendini, articolazioni. Il collo è completamente bloccato e persino le reni bruciano. In più non smetto di vomitare, anche l'acqua. Mi disidrato, con i brividi, mentre cerco di proseguire sotto al sole cocente.
Arriviamo alla prima città, Penjamo. Ci fermiamo in periferia perchè io non riesco a proseguire. Al primo negozietto mi butto sul marciapiede, raggomitolata come un pangolino dolente. Chiedo a Gigi di comprarmi dell'acqua, ne bevo un litro alla goccia. Nel frattempo cerco di capire se ci siano alberghi in zona e sì, ce ne è uno a 4km. Mentre penso a quanto immensa possa risultare questa minima distanza, ora, due ragazzi che avevano parcheggiato lì vicino per far spesa ci offrono due dolcetti di pasta di arachidi. "Proteins, just in case". Li ringrazio con un filo di voce. Ora tocca rimettersi in moto e cercare di raggiungere l'hotel.
Quei 4km sono un'agonia. Un po' pedalo, un po' cammino, un po' mi fermo a vomitare, in preda ai crampi. A tratti penso di dovermi stendere e chiamare l'ambulanza. Gigi intanto è nel panico e farnetica cose tipo: appena arriviamo vai dal medico/ in ospedale (ma quale medico? Quale ospedale?) e già fa pronostici su quanti giorni di viaggio perderemo, mettendomi addosso ulteriore ansia. Ricordo poco di quei momenti, se non la fatica e il malessere, ma son certa di aver detto, qualcosa come: "Voglio andare, arrivare, non parlare inutile", con l'aggettivo usato come avverbio che è segno di quasi morte. Alla fine anche quei 4km passano sotto alle ruote, e all'hotel, che è pure molto bello, arriviamo senza sirene nè relativo canto. Io vomito dell'altro, poi mi addormento di sasso sul letto, ancora vestita da bici, coperta con l'asciugamano. Inutile dire che il pomeriggio e la sera li trascorro in bagno, in un continuo, estenuante, pellegrinaggio dal letto al cesso. Provo a cenare con dei crackers, ma nulla rimane dove deve. Accompagno Gigi a far spesa, apprezzando la golden hour della periferia di Penjamo, e gli do una mano a cambiare la terza camera d'aria in meno di 24 ore. Ormai sono un'esperta riparatrice, metto toppe con precisione chirurgica.
11/8
Penjamo-La Barca
104km
La nottata porta riposo, e stamattina mi sveglio abbastanza in forma. Mi sento debolissima, e ho la sensazione che potrei dormire altri diecimila anni. Ma non ho dolori di sorta, nè nausea o crampi allo stomaco, e il termometro conferma che di febbre non c'è più traccia. Allora si va! Non so se sarrò in grado di pedalare una tappa intera, ma ci sono abbastanza paesi lungo il percorso da permettere il lusso della scelta.
Gigi è incredulo, come me del resto, per la ripresa così rapida. Bevo un tè molto zuccherato per colazione, e pian piano mi preparo. Devo fare tutto lentamente e da seduta, ma questa stanchezza titanica non mi è nuova: nei viaggi, soprattutto verso la fine, capita, e spesso.
Salutiamo Penjamo dopo una visita al benzinaio, per gonfiare la gomma di Gigi (ormai è prassi quotidiana), salutiamo i suoi monumenti a Hidalgo, nato qui in zona nel 1753, e salutiamo i morti che ingrassano la terra e portavano i nomi di Otomì, Guamares, Purépecha e Chichimeca, ma anche indipendentisti e truppe fedeli al re, e cittadini arsi vivi nel grande incendio del 1815.
L'aria è fresca e il sole velato. La luce pare azzurrognola come le foglie grasse dell'agave, qui coltivata per ettari ed ettari. Non a caso ci sono alcune grandi aziende che producono tequila.
Io pedalo piano piano, e sono molle e gelatinosa come un budino. Dopo un po' torna qualche crampo, qualche bruciore da togliere il fiato, ma niente di più. Certo, procedere così è complicato, ma ho deciso di voler proseguire il più possibile, e il corpo deve obbedire, che piaccia o meno. Per fortuna la strada è liscia, dritta e quasi sempre in piano, circondata dalle morbide alture della sierra di Penjamo
Raggiungiamo lo svincolo per il sito archeologico Plazuelas; qui alcune strutture piramidali circondano una piazza dove si svolgevano danze rituali. Dagli scavi è emersa l'influenza di numerose culture che si sono succedute nell'utilizzo e ampliamento di questi edifici, tra 600 e 900 d.C.. L'ingresso al sito è segnalato da una macelleria di maiali, con annesso odore e coro di urla disperate.
Lo stradone che stiamo percorrendo è sede di lavori in corso, e numerosi tratti presentano viabilità modificata, restringimenti di corsia e sterrato polveroso. Nemmeno a dirlo, con questo tipo di fondo Gigi fora di nuovo. Viene dunque il momento di estrarre l'asso dalla manica, il mio copertone d'emergenza, pieghevole, verde, brutto come il peccato e probabilmente di pessima qualità, che porto con me per scaramanzia da quando, in Russia, mi sono trovata con il copertone squarciato nelle foreste a ovest di Mosca. Lo Schwalbe ormai consunto e aperto in più punti, viene caricato sulle borse, così che ora Gigi pare proprio un "rutamat", un robivecchi, con la bici con le scarpe spaiate e l'immondizia appresso.
Così, un po' malconci nel corpo e nelle bici e nello spirito, arriviamo a La Piedad de Cabadas, dove, in teoria, avremmo dovuto far tappa ieri sera. Questa città dalla storia fumosa e non registrata, se non per gli ultimi secoli, è tutta un gran mercato. E infatti succedono le due cose tipiche dei mercati: 1. ci perdiamo per un attimo, sbagliando strada 2. troviamo ciò di cui abbiamo bisogno. Infatti, girovagando per riprendere la traccia, ci imbattiamo in due negozi di bici. Il primo non ha nulla, il secondo, invece, ha un copertone della misura giusta, discreto per qualità, e anche camere d'aria con la valvola francese. Gigi compra tutto, e il paron, entusiasta e incredulo riguardo alla sua età, gli regala pure un set di toppe e colla. Il tutto per 10 ricchi euro!
Uscendo da La Piedad, oltretutto, ci lasciamo alle spalle lo stato di Guanajuato, per entrare in Michoacan. Questo nome mi frulla in testa da che son qui in Messico per due ragioni: la prima è la sua fama per i dolci, i gelati, la pasticceria in generale. La seconda è la sua pericolosità, almeno stando alle parole dei local con cui abbiamo parlato. "Occhio al Michoacan, è un posto pericoloso!". Anche la Farnesina allerta, in merito. Noi ci staremo solo oggi, per qualche decina di km.
Ritrovata la retta via dopo la perdizione nel mercato, affrontiamo qualche lieve saliscendi delle colline che portano a ovest, verso Guadalajara. Riceviamo tante sclacsonate di incoraggiamento e saluti festosi. Addirittura un automobilista accosta e ci fa un video, filmandoci mentre pedaliamo e mentre lo salutiamo. E io che pensavo volesse rapinarci! Vola anche qualche "gringo!", qualche strillo non proprio amichevole... E qualche manciata di quella spero sia erba, e non sterco. Un pastore con le vacche, mentre passiamo, ci saluta gioiosamente e poi, senza alcun preavviso emotivo, ci lancia una manciata di roba umida, verde e marrone. La famosa benedizione della merda.
I piccoli centri abitati che passiamo danno la misura di un benessere che qui latita. Le case sono diroccate e fatiscenti, la strada malconcia le auto e i furgoni vecchissimi e arrugginiti. Le catene di negozi diffuse negli altri stati sono qui sostituite da imitazioni. Ad esempio, l'Oxxo (una specie di Autogrill) qui è sostituito da Xoxo, negozietti a gestione familiare che nulla hanno a che spartire con l'originale. Oltretutto, automobilisti e camonisti guidano in maniera molto più spericolata, con manovre inquietanti e incidenti sfiorati ogni attimo.
Raggiungiamo, dopo salitella e piacevole discesa, Yerecuaro, città a 70km dalla partenza che poteva essere punto d'approdo in caso di malesseri. Gigi è convinto che io mi voglia fermare qui, e già imbocca lo svincolo che porta in paese. Gli faccio segno con la mano di andare. Lui è incredulo e quasi contrariato. "Vai, vai! Andale!" gli dico proseguendo la discesa in picchiata. Ho il sospetto che pagherò tutto, a tempo debito, ma ora mi sento così, di spingere sull'acceleratore e tirar dritto ai 104km di La Barca. Facciamo comunque una sosta in un piccolo paradero infestato dalle mosche. Prendo una Tachipirina, perchè è evidente che io abbia la febbre (non riesco più a muovere collo e schiena di un millimetro), mangio un alfajores di arachidi /cacahuate e siamo pronti a ripartire. Non devo nemmeno far pipì mai perchè sono così disidratata che ormai i reni posso anche darli al gatto. Ai gatti. In tutto ciò, mentre penso all'impero tarasco e al sangue che è stato sparso qui nelle guerre tra gruppi indigeni, prima ancora della conquista, un temporale inizia ad addensarsi sopra alle nostre teste.
Da qui in poi pedaliamo in pianura, tra campi di agave e pomodori, mentre i tuoni fanno rimbombare la volta celeste. Si alza anche un vento contrario che nessuno ha chiesto, e ci rallenta. Superiamo Vista Hermosa de Negrete, ultimo pueblo michoacano che andiamo ad attraversare. Pur essendo nato dall'ampliarsi di una hacienda, ha un centro storico molto piacevole, tra parchi e chiese.
Siamo al gran finale, letteralmente con il botto. Tuona e lunghissimi fulmini squarciano le nubi come cicatrici elettriche. Lasciamo lo stradone asfaltato per buttarci in una scorciatoia, che è sterrata, impestata di fango e di perri mali. Gigi perde il copertone nuovo a più riprese, più c'è fretta più qualcosa deve succedere per rallentare il passo. Ma poi, tutto a un tratto, la sterrata si anima: giostre, musica, baracchini del cibo, gente a passeggio. Gente in costume da Tarasco a passeggio! Ci sono bambini e ragazzi con copricapi di piume e sonagliere alle caviglie, che danzano o si apprestano a farlo, mentre la banda accompagna strombazzando. Mentre passiamo iniziano a scoppiare botti e fuochi d'artificio, in un viavai di uccellini terrorizzati, gente che ride e sbevazza, bimbi eccitati dal paese dei balocchi.
Così, attraversando il fiume Lerma, completamente ricoperto da un tappetto di ninfee , lasciamo il Michoacan ed entriamo in Jalisco.
Il primo albergo cui volevamo puntare, scelto per la tamarraggine della facciata, è pieno. Allora ci dirigiamo a un altro, molto più sobrio, che dista solo qualche manciata di metri. Incredibilmente in queste città ci sono anche 6, 7 strutture ricettive, spesso grandi e con tante camere. Si vede che è frequente che nei lunghi viaggi in auto sia necessario far sosta quando cala la notte.
La Posada San Josè ci ospita, dopo lunga attesa, perchè il paron è duro d'orecchi e in più sta guardando la tv a un volume da denuncia all'ultimo piano. Comunque, per 17 euro, ci dà una doppia con bagno in camera e acqua calda, e decorazioni interessanti alle pareti.
Usciamo a far spesa e anche oggi mi limito a qualche cracker di mais e un po' di miele. Soprattutto, ho sete. Ma non sto malaccio. A parte i pellegrinaggi in bagno, si intende. Ritiriamo contante, che non ci siamo fidati, probabilmente per eccesso di scrupolo, a prelevare nel trittico delle delizie dei cartelli i giorni scorsi, riducendoci a viaggiare con due monetine bucate. Faccio anche la ricarica del telefono con sim mexicana, e online, perchè ormai sono una pro e soprattutto ho bisogno di internet. Ma, nonostante le buone intenzioni (scrivere, pubblicare, star dietro ai social, prenotare l'albergo per domani e dopo, a Guadalajara), il sonno e la stanchezza prendono il sopravvento, e a mezzanotte già ronfiamo entrambi.
12/8
La Barca-Guadalajara
118km
Di nuovo è sera, parto dal fondo della tappa. Piove fortissimo, prima grandinava a chicchi grossi come noci. Ad ogni tuono i vetri delle finestre e le sottili pareti interne di questa vecchia casa tremano, come ci fosse il terremoto. La tettoria che copre il cortile interno, dove si trova cucina comune, sembrava dovesse crollare da un minuto all'altro. Piove copiosamente in camera, sul letto di Gigi, perchè i serramenti sono a dir poco vetusti e il vento getta secchiate di acqua contro il palazzo. Siamo in cento a Guadalajara, a cinque minuti da piedi dalla cattedrale. Domani avremo modo di visitare quanto più possibile, sempre che io mi riprenda. Fino a un'ora fa stavo MALISSIMO di nuovo, ma peggio dei giorni scorsi, e mi sentivo ormai chiamata al mondo dei più. Ora va meglio, dopo aver vomitato e avuto scariche di diarrea terrificanti e dolorosissime, da fuego nelle budella. Sopravviverò? E' possibile. Sto pagando lo sforzo di ieri e soprattutto oggi, che non andrebbe affrontato da ammalati? Seguro. Ne valeva la pena? Assolutamente.
Ora, torniamo indietro a stamattina, quando stavo abbastanza bene e mi sentivo in forma al punto da immaginarmi pedalare quasi 120km di colline, con ingresso, sul finale, nella seconda città più popolosa del Messico, dopo la capitale, con annesso traffico delirante.
Siamo pronti a patire presto, ma alla fine usciamo tardi: io ho una minuscola scheggia metallica nella ruota posteriore, e, durante la notte, la gomma è andata a terra. Poi il cambio dà problemi, la catena cade, la bici pure, addosso a me, facendomi gran danno a un prosciuttino... Insomma, va così.
I primi 80km, dopo questa partenza difficoltosa, filano piuttosto lisci, tra campi di agave azzurrognola, che ormai sono lo sfondo imperante da giorni, mais, e paesini che assomigliano più a mercati a cielo aperto (tianguis) che a centri abitati. Una volta a Jamay ci portiamo in vista dell'immenso lago Chapala, il più grande del Messico, noto fin dai tempi antichi alle popolazioni preispaniche come bacino di acqua potabile. In verità se ne vedono solo scorci, tra case, villette e strutture turistiche che ricordano un po' quelle pensioni polverose e rose dal tempo sui nostri laghi alpini minori.
Senza nemmeno aver visto nella sua interezza il lago, che era uno dei focus della giornata (meh!), entriamo in Ocotlan, città turistica e sede dei servizi della zona. Da qui inizia un'area di collinette malefiche, che affrontiamo di gran lena perchè l'idea di avere ancora tanti km davanti a noi ci mette fretta, a la consapevolezza di dover entrare in una città enorme un po' d'ansia. Spingiamo e spingiamo, nel sole che ora è alto e scotta la pelle. Incrociamo un paio di biker in MTB, che vanno a pedalare sul lungolago, e qualche campesino che torna da lavoro, pedalando storto con il sombrero lago.
Andiamo, dritti, spediti, rotolando tra le alture, sempre più stravoltini, ma inarrestabili.
A Santa Rosa veniamo fermati da un gruppo di operai e contadini in protesta. Sembra una manifestazione, uno sciopero, con cartelloni e lenzuola stese colme di scritte. Ma poi chiedono il soldino, agitando un bicchiere davanti ai finestrini delle auto che rallentano a causa dei dossi. Anzi, spesso fanno fare questo sporco lavoro ai bambini. Mah.
Quando mancano solo 30km facciamo una sosta benzinaio-autogrill. Fatale. Io inizio a star male di nuovo, Gigi scopre l'ennesima foratura. Uno degli addetti, un omone corpulento in tuta grigia da metalmeccanico, ci approccia e con una vocina in falsetto degna di una fatina arcobaleno, ci augura buena suerte, mostrando la dentatura tutta modificata con inserti in metallo a forma di cuore. Un disastro annunciato. Ripartiamo un'ora dopo, senza nemmeno aver la certezza della prenotazione dell'hotel all'arrivo. Il primo che abbiamo scelto ci ha già paccati via whatsapp, pur avendo confermato la reserva su Booking (li ho mandati a fare cose in tutte le direzioni e con tutti gli orifizi che hanno, ma poi ho cancellato i messaggi, temendo ritorsioni e denunce. Che pavida volpe). Il secondo tace. La sfiga ci insegue.
Gli ultimi 30km sono il delirio. Le strade diventano arterie a 4+4 corsie, con svincoli trafficatissimi e pullman e mezzi pesanti che fanno manovre indicibili, passandoci a tutta velocità a pochi centimetri. Il resto del brivido è dato da dossi, buche, motorini casual che vanno tranquillamente contromano e botti e sclacsonate randomici. Rischiamo grosso in un paio di occasioni, quando un tir con due rimorchi non ci vede (spero) e quasi ci tira sotto. Idem accade poi con un autobus scassone che perde bulloni a ogni dissuasore. In compenso tanti ci salutano con la manina dal finestrino o ci incitano "Dale dale italianos!".
Quando siamo quasi in centro, e già pregusto la tranquillità della stanza e la privacy di un bagno pulito, accade l'imprevisto numero X (ho perso il conto, ormai). Fermi a un semaforo, veniamo approcciati da Angel, cicloamatore che, a dir suo, fa tutto in bici: lavoro, spesa, vacanze, commissioni, tutto! E una volta è anche andato sulla costa pedalando quasi 300km in un solo giorno. Che forte! Si offre (ci impone) di accompagnarci in centro. Gigi ha la pessima idea di chiedergli anche se conosca dei meccanici dove acquistare camere d'aria (noi ne consumiamo e rattoppiamo come fossero pane). Certo che ne conosce, ci accompagna! Fulmino Gigi, io ho bisogno di riposare, non di fare il tour della città. Pace. Seguiamo Angel, che si lamenta di quanto poco gli automobilisti rispettino i ciclisti, e gli confermo che tutto il mondo è paese e in Italia e a Milano si può dir lo stesso. Lui è molto attento a pedalare in corsie sicure, ciclabili o ciclopedonali, e ci aspetta quando restiamo indietro. Intanto parla, parla, parla... E solo io rispondo, visto che Gigi si è sfilato dai giochi con il suo solito no hablo espanol.
Il primo negozio non ha camere d'aria della nostra misura, allora andiamo in un altro, ancora più lontano. E' una casa privata, un cortile, dove ciacolano quattro signore anzianotte. Hanno un box pieno di bici usate, smontate, arrugginite, e un discreto deposito di materiale nuovo. Mentre io ammiro i loro gatitos e ascolto come una sciura avesse il nonno italiano, Gigi si fa bellamente truffare sia con i prezzi sia con il resto mal dato, ma compra quattro camere con valvola francese ed è contento così.
Si riparte, finalmente, alla volta dell'albergo. Angel ci accompagna fino alla porta, facendosi spiegare ogni tre curve la strada, che ho io sul navigatore. Anche meno, Angel. Ma grazie. Poi ci saluta e noi siamo pronti a fare check in... Non fosse che la receptionist, con aria beffarda, dice: "Prenotazione su Booking? Neanche le guardiamo! Siamo pieni, arrivederci". Anche a lei rispondo in modo poco gentile, e mi prende lo sconforto. Due strutture su due ci hanno paccati. Ora siamo in centro e restano gli ostelli e i luxury. Iniziamo a girare via per via, affacciandoci ad ogni albergo nel nostro range. Tutti stracolmi. Ellamadonna! Mi sento veramente come la famosa coppia che non trova alloggia in quel di Betlemme. Intanto maledico ogni decisione storta, dal perdere tempo con Angel a non aver prenotato i giorni scorsi, dall'aver mangiato le gorditas maledette all'aver indugiato nelle soste. Alla fine, dopo aver passato in rassegna una decina di hotel, veniamo accolti nel più marcio degli ostelli, dove albergano solo studenti squattrinati e lavoratori stagionali. Però è economico, in pieno centro, e ha posto. ahimè il bagno è in comune, e nelle mie condizioni mi spiace per gli altri ospiti. L'omino della reception, che non molla il mocio nemmeno un istante, ci racconta di aver vissuto in Italia dieci anni, precisamente a Milano, e ha visitato Firenze, che confonde con Venezia. Poi ha salutato il Bel Paese e se ne è tornato qui, con il suo mocio.
Quando finalmente prendiamo possesso della camera, io collasso sul divano, con la pancia in fiamme. Mi addormento di sasso, per svegliarmi ancora più storta e dolorante. Inizia una via crucis tra bagno, letto, bagno e divano. Fatico a respirare tanto soffro, con tachicardia e sensazione di svenimento frequente. Nonostante ciò, mi faccio forza e vado con Gigi a comprare qualcosa da mangiare. Se sto così male è anche perchè ho pedalato con ben poco cibo in corpo. I 400m andata e ritorno al super sono una pena, perchè io crollo ad ogni passo, Gigi si perde, devo tornare indietro a cercarlo, poi non trova le chiavi... E' impanicato a vedermi così. Mi faccio un padellino di riso bollito e mi sforzo di mangiarlo. Mezz'ora dopo finisce nel wc, passando in buona parte per il naso. Ma dopo questo show, mi riprendo. E ora sono quasi in forma!
Domani, come da tabella di marcia, stiamo fermi qui a Guadalajara. Visita turistica e riposo sono i propositi. Abbiamo già abbozzato le tappe da qui a Mazatlan, 6 giorni per poco meno di 600km, con le ultime montagnette e poi il ritorno alla costa pacifica. Domani prenoterò il biglietto per il traghetto che ci porterà in Baja California, ultima meta del nostro grandioso viaggio messicano! E lì saranno mare e deserto, una combinazione spettacolare!
Siete proprio spettacolari. . Forza Rita,hai vomitato su mezzo mondo . Dove vai lasci il segno
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