martedì 10 luglio 2018

12-13. Il deserto e il vento. ABARQUH e TAFT





9/7/18

La prima cosa è il vento, che latra e sferza, che abbatte, che frusta, che acceca di sabbia e che urla nel buio




La seconda cosa è il deserto, orizzonte bruciato, silenzio aperto di zolle, morte a perdita d’occhio, una tomba immensa/ in cui seppellire/ ogni sogno d’onnipotenza. Di qui non si passa, se non a miglior (?) vita.



La terza cosa è la notte, che arriva veloce; cade il sole nella clessidra, la sabbia svanisce insieme ai colori. Poi ecco le stelle, infinite, perline di zucchero, sotto cui infuria il vento di fuoco e minuscoli passi rapidi d’infinite creature infestano il sonno.





Sopravvivere.
Alla sete e alle paure. Agli uomini della sabbia e al deserto. Alla fatica.
Una prova di forza che ti forgia lo spirito.

Oggi è stata una giornata lunghissima e faticosissima. La sveglia è stata presto: dovevamo muoverci in tempo per acchiappare l’autobus delle 9.30, alla stazione centrale, per rifare all’indietro i 200km percorsi a scendere verso Shiraz, e rggiungere il bivio dove si diparte la strada per Yazd, la sposa del deserto.

Purtroppo qui in Iran, “presto” e “puntuale” sono parole ignote (e lo dico io che, mea culpa mea culpa mea culpa, sono ritardataria cronica). Sicchè abbiamo fatto colazione e salutatao la casa tradizionale che ci ha ospitati, poi abbiamo atteso fremendo l’arrivo del gestore, un ragazzo affabilissimo che ci ha comprato i biglietti online e ci ha lasciato il suo numero per ogni evenienza, oltre a scriverci dei biglietti in farsi da consegnare alla stazione dei pullman per far capire bene dove dovessimo andare e come.



Giunti lì, però, è iniziato un delirio di uffici e occhi sgranati: i nostri biglietti non risultavano, poi il caricare le bici: che problema! Risolto tutto con una ricca mancia agli addetti a scaricare e caricare i bagagli sul bus e alcuni larghi sorrisi. Fatto è che, al pelo, siamo riusciti a imbarcarci sul modernissimo pullman, dove ci hanno anche fornito viveri e succhino di frutta, metti mai che nelle 3 ore di viaggio seduto al fresco ti prenda un calo di zuccheri!





Nutriti e idratati arriviamo così alla nostra fermata, il villaggio di Surmaq, che sorge al bivio per Yazd. Rimettiamo insieme armi a pedali e bagagli davanti ai venditori di cose e via. Ah no, prima un selfie con la famigliola curiosa, mentre facciamo rifornimento d’acqua.







Via davvero, adesso, verso la prima parte di montagnole e deserto dei 200km che ci separano dalla città di sabbia degli zoroastriani. Il caldo si fa sentire subito, ma non eccessivo.
















Forse è l’abitudine, forse è il vento, contrario, teso e arrabbiato, che ci smeriglia la faccia. Fatto sta che per arrivare alla prima e unica città grandina di oggi ci mettiamo del bel tempo. Giunti finalmente ad Abarquh, ci accoglie questo cartello.



Alla faccia, modesti! E dire che la periferia di questa antica città, oggi per lo più abbandonata ma prosperosa tra XI e XV secolo come centro carovaniero (si trova all’incrocio tra Esfahan, Yazd, Shiraz) è a dir poco malandata. Spelacchiata come un cane randagio. C’è pure la caserma con carrararmato e foto doppia di Khomeini e Khamenei.






Poi però, proseguendo, iniziamo vedere queste strutture, grandi e piccole, sparse un po’ ovunque. Altro non sono che ghiacciaie, in fango e paglia, che venivano usate per conservare le merci deperibili in questo caldo che fa appassire e fermentare ogni cosa in un attimo.







Segue poi doverosa visita al cipresso di Zoroastro. Si tratta di una pianta enorme e cicciona che dicono abbia più di 4000 anni. 4000! Ne ha visti di cieli e di volti, senza nemmeno mai potersi spostare… Penso che sia un luogo strano, il deserto, per trovare un albero così longevo. Ma Raymond commenta: “Qui a nessuno serve legna per scaldarsi”. Giusto.






Ancora, attraversando la città e facendo una piccola sosta acqua, vediamo case storiche in fango e con piccole torri del vento e due moschee, entrambe risalenti al 1300. 







Poi un’ultima sosta, all’ombra dell’unico albero fuori città: da lì in poi sappiamo che c’è solo sabbia e poco altro, per 55km, fino ad un piccolo villaggio dove vogliamo arriavare prima della notte, per fare rifornimento d’acqua e campeggiare poi.







Ma il vento si leva sempre più forte e dobbiamo alternarci a vicenda a tirare la carovana, ad una velocità che non supera mai i 15km/h pur essendo tutto in piano. Intorno deserto, prima con qualche pianta, poi cespuglio, poi nulla. Sporadiche costruzioni abbandonate e semidistrutte sono il laconico segno di quanto il tempo non risparmi e quanto difficile sia vivere qui. Quasi impossibile, quasi.










Il sole si abbassa e le ombre son sempre più lunghe. Un anonimo automobilista si ferma per darci dell’acqua; riempiamo le borracce ma poi, al primo sorso, mi accorgo che ha un sapore strano. Allora sosta per bollirla e fare la pipì. Mi sento un gatto in un’immensa lettiera.










Via di nuovo. Il sole scende sempre più alla linea dell’orizzonte e il vento ci frena. Non riusciremo mai ad arrivare al villaggio prima del buio, che come ombra liquida avanza inesorabile. Approfittiamo della gentilezza di una famiglia e di un camionista, che ci offrono il tè, per chiedere acqua per il campeggio e la notte. La mattina successiva non sarà un problema raggiungere la cittadina, che ormai dista solo 15km. La gioia del ricevere acqua si tramuta in disperazione quando ci accorgiamo che la sacca da 10l di Raymond perde, ed ha fatto cadere il prezioso liquido a terra. Evaporato.






Ormai è buio. Facciamo due conti: se non cuciniamo, l’acqua delle borracce basta. abbiamo del pane e del formaggio, del tonno, della pasta che non faremo. Marmellata, miele, tè, caffè e biscotti. Frutta. Non manca nulla. Cerchaimo invano un luogo riparato, ma intorno c’è solo sabbia, sabbia ormai grigia per il crepuscolo. Con il favore del buio prendiamo una strada laterale e ci allontaniamo da quella più trafficata. Il vento infuria. Montiamo la tenda, pieni di sabbia fino alle mutande, con le dune nelle scarpe e le chiappe e le guance smerigliate. Non c’è acqua per lavarsi, né per rinfrescarsi. Si cena nella furia di Eolo. Poi, nel buio, mentre scrivo, animali ignoti (fennec? Ratti del deserto come dice il Puill? Cani randagi?) vanno e vengono furtivi, molto più spaventati di me che pure ho il cuore a mille. Poi salgono il caldo terribile e il sonno, infestato di granelli di sabbia che volano, sferzare del vento, scalpiccii, luci lontane e moltissime stelle che danno pace. Dormo poco. Quando mi sveglio il materassino è bucato e i sassi mi crociffigono, ma è fresco, fresco da metter la felpa. E già albeggia.









10/7/18







La stanchezza del giorno prima, l’arsura dovuta al non voler sprecare acqua di notte se non a gocce, il vento che ha prosgiugato gli occhi e il poco sonno, la magra cena e la ancor più magra e secca colazione, ci portano a pedalare i primi kilometri in assoluto silenzio. 




Già ulula il vento, contrario e terribile. Appena arrivati al villaggio che avremmo dovuto raggiungere ieri, ci fiondiamo in un negozio di alimentari e lo svaligiamo. Per dire, la bretonieri si fa un intero formaggino e 1.5 litri di Pepsi. Io mi limito a latte e cacao confezionati, succhi di frutta e simil brioches.




 Presa l’acqua, tanta e completamente ghiacciata (qui tengono alcune bottiglie in frigor, altre in freezer) ci mettiamo in cammino davvero. Subito il vento ci frena. Le salite, non ripide ma lunghe, continue, estenuanti, fanno il resto. Pedaliamo tra roccioni mangiati da Eolo, con raffiche frontali e laterali terribili. Non fa caldo, per fortuna, ma le gambe tremano e le ginocchia scricchiolano.
















Per alcuni tratti siamo costretti a spingere a mano le bici. Il sole e l’aria calda ci fanno evaporare ogni forza, restiamo come ombre di luce che arrancano su su per i fianchi asciutti di questa pietra smangiata. Il vento fa quasi cadere il Puill. Io bestemmio diverse divinità e giugno alla conclusione che Aura Mazdha ce l’abbia con noi e con la nostra hybris, noi che vogliamo passare in bici per il cuore del suo regno. E ci tatua la pelle col fuoco dei suoi raggi. E ci sospinge indietro. A tratti si levano nuvole di polvere rossa, rossa come il colore delle rocce piene di ferro, che pare sangue, che pare di stare all’inferno.








 Finalmente si scollina. abbiamo superato i 2000 metri di altezza e la temperatura è ottimale. Stanchissimi, decidiamo di fermarci alll’ombra per mettere insieme un pranzo. Sarebbe tutto anche molto bello, quasi un paesaggio alpino, non ci fosse il vento feroce. Raymond, che ha visto il mondo, dice che è come salire al Mont Ventoux ma con il vento della Patagonia e il caldo del Sahara. Bingo proprio! Capiamo anche che i 110km fino a Yazd sono troppi: si fa troppa fatica, siamo troppo stanchi. Abbiamo due giorni di margine sul nostro tempo in Iran: useremo il primo adesso. 







Ripartiamo, nell’idea, consolante e bella, di fermarci a Taft, grossa città a 20km daYazd. Ci arriveremo domani, più freschi. Non stiamo correndo una gara. Le ultime ore in sella sono dure per il vento, sempre contrario o laterale e letale per i miei gomiti bionici, soprattutto quando i camion passano vicini. Insegno al Puill a dire “Ha rotto ¾ di minchia” riferito ad Eolo. Sosta nel divanaio dove dorme la gente e sotto al cartellone, mangiamo un po’ di frutta secca. Io ormai assomiglio a queste prugne e ho la stessa loro tempra morale. 

















Si scende nel vallone tra monti che paiono scolpiti come teste di re dai copricapi enormi. E finalmente ecco Taft, la città giardino. Entriamo in paese, chiediamo di un hotel e padre e figlia sul motorino ci scortano fino a questa casa tradizionale dove restiamo stasera. Davvero si può dire: che oasi di pace!  Yazd ormai è vicina. Ci arriveremo domattina, vento o non vento. Poi faremo un giorno di sosta, anche per prepararci ai giorni successivi, dove sarà di nuovo, ancora, solo deserto.













2 commenti:

  1. Come uno spiritello curioso, assetato di bellezza, riporta a casa un po’ della luce che vedi, ne abbiamo tutti un grande bisogno. Che il vento dispettoso del deserto ti accarezzi sempre le spalle.

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