lunedì 30 luglio 2018

31-32. Incubo in frontiera. Uzbekistan, la libertà cammina piano, a dorso d'asino. Siamo tornati ad essere esseri umani




28/7/17

“Non è necessario pensare che il mondo finisca nel fuoco o nel ghiaccio; ci sono due altre possibilità: la burocrazia e la nostalgia”.

Oggi è stata una giornata tutta storta, tutta sbagliata fin da subito. Una giornata proprio di merda in ogni senso. Per fortuna con il lieto fine.

Questa mattina ero anche contenta, nonostante le fitte di mal di pancia e il malessere diffuso, nonostante i du’ ovi fritti che ho dovuto mangiare a colazione perché quello o nulla, nonostante la debolezza immensa di un’infezione già galoppante nelle mie budella.
Ero contenta perché di lì a poche ore, credevo, me ingenua, me lassa, melassa, di poter lasciarmi alle spalle il popo’ di lezzo del Turkmenistàn e le sue leggi sbagliate e gli stronzi dei grandi alberghi.

All’inizio, condizioni fisiche a parte, è anche andato tutto bene. Da Turkmenabat, dove eravamo, al confine ci sarebbero dovuti essere circa 20 km, che poi si son rivelati 35.
Appena fuori dall’albergone abbiamo percorso il vialone con i palazzoni e la faccia sorridente di mr president, il più grande di tutti gli –oni. E non è un accrescitivo.








Come sempre le vie semideserte e troppo ampie, la ancanza assoluta di case e negozi e l’eccessivo ordine mi hanno dimostrato come questo non sia un paese per esseri umani.
Tanto più che in un baleno, girato l’angolo e sbagliando strada, ci siamo infognati in alcune vie chiuse della periferia, che si sviluppa praticamente sotto alla ferrovia. Inutile dire che qui ci sono case e negozi, e tutto è distrutto e fatiscente come nei più poveri villaggi rurali della fredda Siberia. Le strade non sono asfaltate e le case crollano, ci sono lamiere e macerie e tanta polvere. E qui sta la gente, di là dalle belle facciate, oltre i muri bianchi altissimi decorati d’oro e ceramiche.
Qui vive la gente normale e vive tra il poco e il nulla. Non fa la fame, perché altrimenti ci sarebbe una rivoluzione, ma sta sull’orlo minimo dell’accettabile. Così mr president dorme sonni tranquilli e può continuare a pigliar per il culo una nazione intera.





Tra l’altro, come dicevo, abbiamo sbagliato strada; si sono accostati due ragazzini biondi e lentigginosi, in bicicletta, che hanno cominciato a dirci che per Farab, città sul confine, la strada era un’altra, di seguirli che ci avrebbero portati al posto giusto. Io ero ancora sul chi vive per le brutte esperienze dei giorni precedenti e quindi ho pensato che volessero condurci in un vicoletto buio e rubarci anche le cornee. Invece, per l’ennesima volta, le persone comuni si sono dimostrate gentili e buone, a differenza degli impiegatucci che hanno una posizione o degli arricchiti; da questi bisogna guardarsi, da questi che pure non hanno la necessità impellente di comprare il pane. La povera gente dei villaggi è ben più onesta e disponibile, sempre pronta ad aiutare. Così è stato in Iran, così è in Turkmenistan, così è in tutto il mondo. Come ha insegnato Primo Levi, è dai Kapò che bisogna guardarsi. Fatto sta che i due ragazzini ci hanno indicato la strada giusta, ci hanno aiutati a spingere le bici su lungo la salita della ferrovia e giù dall’altra parte. E poi se ne sono andati, mentre altri curiosi, per via, ci han chiesto se stessimo andando in Uzbekistan (beati noi, sottinteso).





Dopo aver passato il nuovo ponte sul fiume Amu Darya, grande e ricco d’acqua come non ne vedo da che son partita, 









e dopo i grandi campi verdissimi del cotone, con i contadini già chini al sole o in pausa all'ombra,




è ricominciato il deserto. E il vento, anche. E la sabbia terribile che graffia e frusta e acceca.





Sono stati pochi kilometri, ma difficili; quando il caldo arroventa il respiro e l’aria si riempie di sabbia finissima stare in sella diventa una pena, e a questo si aggiunga la febbre e il malessere, di quelle fitte che salgono dal bassoventre e bloccano il cuore e i polmoni.
Sono stati costruiti qui dei traliccetti di bambù che dovrebbero impedire alla sabbia malefica di invadere la carreggiata, ma non funzionano, come tre quarti delle cose in Turkmenistan. Infatti a volte sulla strada ci sono delle vere e proprie dune pettinate dalle dita del vento e bisogna stare molto attenti a non finirci in mezzo con le ruote.
Finalmente, in lontananza, vediamo prima Farab, poi, dopo altro deserto, alcuni edifici isolati. Sarà la frontiera! C’è, poco prima che inizi la lunga fila di camion fermi a motore spento, una sorta di area di servizio che pare nuovissima: ristorante, bagni, un negozio e un ufficio. Decidiamo di fermarci per cambiare la valanga di manat che ci restano, chè in Turkmenistan, esclusi i due grandi alberghi pagati in dollari (50 e 30 a testa, rispettivamente), per le prime due notti e i pasti e tutto il resto abbiamo speso in due meno di 50 euro. Ci avviciniamo agli edifici, dove si vede per altro un gran viavai di gente, e subito un militare si avvicina e ci intima di andarcene. “Ni rabotet!”, non funziona, fuori servizio! Era la frase must in Russia, dove c’è tutto ma non funziona nulla. Ni rabotet, ottimo. E per cambiare i soldi e pisciare e bere che si fa? L’uomo in divisa ci indica il primo cancello della frontiera. Insomma, per un cesso e dell’acqua si deve andare in un’altra nazione. Be’, allora ciaone, noi si va.
E percorriamo la strada che porta al checkpoint, dove donne con gli abiti colorati che svolazzano al vento si accalcano al cancello. Tra i camion si nasconde il classico brulicare dei confini, con gente che cambia valuta, genteche vende frutta o pane o ammennicoli per spendere gli ultimi spicci. Noi tiriamo dritti: a sto punto facciamo tutto in Uzbekistan e amen.
Un soldatino con gli occhi a mandorla di apre il cancello e ci prende i passaporti. Li controlla e poi li dà un altro, che li controlla e li passa a un terzo. Intanto il capoccia sbraita contro alcune signore e strappa lo zainetto dalle spalle di un bambino che non ha rispettato l’ordine di mostrare immediatamente cosa traffica: un succo di frutta, un asciugamano, un orsetto, una brioches. I passaporti finiscono nelle mani del kapò che ci chiama e ci fa segno di no con la testa. Mi indica il visto uzbeko e dice che c’è un problema. Guardo. Orrore. The horror, the horror. La data di inizio è il 29 luglio. Domani. Panico.
Il mio visto turkmeno scade oggi (28) e quello uzbeko inizia domani. E basterebbe aspettare mezzanotte e fare tutto a cavallo del giorno, ma questi minus habentes chiudono baracca in un orario imprecisato tra le 17 e le 20. E per altro senza visto valido per l’Uzbekistan non mi fanno uscire dal Turkmenistan, perché non vogliono la rogna di un respinto che torna indietro e deve rifare tutto da capo.
Dopo un momento di dolore acuto, e non erano solo le fitte in pancia, chiedo cosa si possa fare. In un mezzo inglese che lascia molti dubbi, il capoccia mi dice di tornare alle 17, quando chiudono, così noi si passa e loro sono a posto perché non mi hanno fatto scadere il visto e non possono riaccettarmi chè alle mie spalle tirano giù la saracinesca. Poi cazzi miei con gli uzbeki, vedran loro che fare.
Faccio un rapido calcolo. Sono le 11 del mattino. Dobbiamo tornare alle 17. Queste belle 6 ore dove le passiamo? Qui! Propone il soldatino che ha assistito alla scena. E indica un blococ di cemento esposto al sole dove le donne che transitano aprono le loro borse in un totale caos di urla e ordini. Non se ne parla. Decidiamo di tornare all’unica ombra che abbiamo visto, quella dell’area di sosta che ni rabotet. Lungo il percorso troviamo una losca tipa dal volto coperto che ci cambia i manat in dollari. Non è molto conveniente ma almeno riusciamo a liberarci di quella valuta buona solo per pulirsi il culo, chè nemmeno nel paese dove è ufficiale la accettano. Poi acquistiamo frutta e pane, sempre al nero tra i camion parcheggiati.
Una volta giunti all’area di sosta si presenta un altro omone in divisa e con il volto coperto per proteggersi dalla sabbia; che mannaggia a lui lo sa che siamo in mezzo al deserto e si sta da cani, anzi da sciacalli. E cerca di allontanarci in tutti i modi. Dice che lì è vietato, che dobbiamo andare via, che stanno lavorando (in effetti il ristorante è in costruzione, all’interno) e soprattutto che è un luogo poi riservato ai militari. Perché ci mancherebbe che i bagni e il bar fossero per i comuni mortali. Io sto male e non ho voglia di discutere, e sono quasi pronta a levar le tende. Raymond invece usa una tattica geniale; dopo aver tentato di spiegare -senza successo- la situazione, mentre il militare continua ad alzare la voce e a fare gesti minacciosi, inizia a mangiare l’uva. La tira fuori dalle borse e, acino ad acino, con gran calma, mastica e deglutisce. Il siparietto va avanti qualche minuto e il bretone non si smuove di un millimetro: è il bacchetto con il grappolo d’uva, una statua di gesso, l’imperturbabile bretoniera del nirvana fruttivoro. La tecnica funziona: il coglione in divisa se ne va e nessuno torna più, nelle ore successive, a dirci alcunchè. Il Puill sbotta allora in una cascata di “stupid man, stupid stupid man”, chè in effetti se non capisci che due persone in bici stanche e una pure malata non possono stare 6 ore in piedi sotto al sole nella sabbia del deserto sei ben più che solo stupid. Che quando la demenza incontra il potere è la fine.
Inizia la prima lunga attesa.





Io mi sdraio a terra sul telo di plastica e dormo almeno tre ore, mentre sento la sabbia ricoprirmi di uno strato sempre meno leggero. La sabbia sulle labbra e tra i capelli. La sabbia nelle orecchie e sulla pelle sudata. Sabbia fina fina e salata che cricchia fra i denti e riempie le scarpe e i calzini e va tra le dita dei piedi. Mi sveglio dopo strani sogni e bevo. Mica sto bene. Ci spostiamo perché il sole ha già percorso un bel tratto e l’ombra gira come le lancette dell’orologio. Raymond mangia le pesche. Poi l’uva. Poi un uovo sodo (ma da dove arriva?). Chiacchieriamo. Dormiamo ancora e lasciamo che la sabbia ci veli d’ocra e vento. Si fanno finalmente le 15.30, presto, ma ci proviamo. Io approfitto di una duna e sarà l’ultima tyalet fino a sera inoltrata. Raymond va a chiedere dell’acqua alla gente che va e viene dal ristorante in costruzione. Gliela danno, ma facendosi pagare bene. Stronzi.
Torniamo al checkpoint e ricomincia il teatrino perché nessun soldato (e son gli stessi di prima!) si ricorda della faccenda. E dire che non credo si vedan tutti giorni due cicloturisti passar di lì. E il visto uzbeko parte domani. E non va bene. E c’è un errore. E però quello turkmeno scade oggi. Eh problem problem.
Per fortuna il kapò si ricorda e dopo aver di nuovo sfogliato all’infinito il mio passaporto ci lascia passare. Dopo un tratto di strada in mezzo alla sabbia, senza alcuna indicazione, raggiungiamo un grande edificio dove si svolgono i controlli effettivi. C’è un montone di gente che compila fogli, che attende, che sbuffa, che suda, che ci guarda. A propos, in questo edificio, che dista –a esagerare- 500 metri dal primo cancello, ci sono sedie, bagni, aria condizionata. Ma ci voleva molto a farci giungere qui per la lunga attesa? Ma era complicato capire che per una persona, un essere umano, un pezzo di carne con il cervello dentro e i 21 grammi d’anima, è un poco più confortevole, e per la burokratia non cambia nulla tanto siamo comunque ancora dentro a sto paese?
Sì, era troppo difficile. Troppo.
Inizia la trafila della carta stampata e timbrata, la trafila dell’apri la borsa chiudi la borsa, la trafila del hai armi hai droga hai sigarette hai materiale radioattivo hai tappeti d’epoca?
Na valanga. Nascosti nel telaio della bici. Allora porta dentro le bici negli uffici e controlla pure quelle.
Fitte alla pancia, intanto.
Finita? No!
Ora ricontrolliamo le impronte digitali e la cornea che magari in 5 schifi giorni hai fatto la plastica per cambiare identità.
E poi finalmente il timbro. E sticazzi.
Primo sospiro di sollievo. Dal Turkmenistan siamo fuori.
Ah no, tutta la strada da lì ad un cancello aperto su un rigagnolo marcio è ancora Turkmenista. Ultimo controllo passpart. Fuori davvero.
Per 4 metri.
Poi c’è il cancello uzbeko.
Ci fermano i soldatini che han cambiato divisa e hanno gli occhi meno a mandorla e la pelle più chiara. Parlano inglese un po’ meglio. Raymond ok. Io… Eh no. Vale da domani. Devi tornare indietro in Turkmenistan.
Momento di panico. Sorrido. Guardo il mitra e il coltello, gli anfibi e i rayban a specchio dell’uomo che ho di fronte. Mi scusi assai, ma indietro NON torno. Mi è scaduto il visto e mi è scaduta la voglia di dittatura.
“Non puoi passare, il tuo visto vale da domani”.
E allora aspetto.
Ok, state qui.
E ci indica la piattaforma di cemento su cui sorge un gabbiotto vuoto che serve a proteggere i militari dal sole. Passate a mezzanotte.
Ci sediamo. Sono le 17. Di bagni nemmeno l’ombra. Il resto lo abbiamo: acqua, un po’ di cibo, qualcosa per stenderci. Fino alle 20 il viavai di gente è tale che è impossibile riposare. Tutti sorridono, qualcuno ci offre da mangiare e si interessa al nostro caso. Un soldatino mi mostra le foto della sua fidanzata seminuda e poi la chiama, chè lei parla inglese. E fa chiedere a lei tutte le curiosità. Poi qualcuno ci dice che dobbiamo aspettare le 7 del mattino dopo perché la frontiera chiude di notte. Altri dicono solo mezzanotte. Un marshrutki, i pullmini vecchi e scassati, fa inans e indrè e deposita gente. Chi arriva dal Turkmenistan canta, e ce credo che son felici di rimpatriare. I militari ascoltano musica russa e occidentale. Io e Raymond studiamo le prossime tappe, poi lui prova ad allontanarsi di qualche metro per fare pipì e subito viene richiamato. “Ma non lo sanno che i vecchi hanno problemi di prostatite?” fa la battuta il bretone. Anch’io avrei gran bisogno, in realtà.
Con il crepuscolo diminuisce il traffico. Arriva un furgone con le nuove guardie, le altre se ne vanno. Questi sono più sospettosi e ci stanno appiccicati tutto il tempo. Quando cala il buio accendono i fari e ci piazzano pure una torcia addosso. Ma ci danno l’autorizzazione ad andare in bagno, che è il classico buco in terra con lamiera intorno (e nido di vespe dentro) a duecento metri di distanza.
Il silenzio aumenta, si sentono solo i camionisti, che passeranno lì la notte, parlottare mentre giocano con le loro scacchiere.



Sale la luna, ed è rossa ed enorme, e si staglia prima contro le canne palustri del rivo e poi contro il filo spinato. “Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati/ a cielo e denaro/ a cielo ed amore/ protetta da un filo spinato…”.



Si sentono i grilli anche. E le zanzare maledette iniziano a divorarci lì come siamo seduti sul cemento. Ci laviamo alla buona e ci ungiamo di Autan, prima di tentare un sonnellino fino a mezzanotte, per vedere che succede. Mi stendo e sento il rumore del motore dei tir che pare il mare. E il venticello sempre più freddo, che porta anche un sapore salato che pare il mare. E la luce che taglia l’ombra come agli scogli della chiesetta di Sant’Ampelio, a Bordighera, che è al mare davvero,così lontana da qui. Il suolo caldo sulla schiena mi dà l’impressione di un abbraccio da dietro e nel dormiveglia penso davvero di essere là, nel luogo delle mie vacanze di bambina, con le onde nere davanti e le palme e la pietra e il campanile illuminato alle spalle. Si apre una bolla nello spazio tempo e rivivo il ricordo di un abbraccio seduti sugli scogli con le gambe a penzoloni nella sera fresca. E sono felice.
Mister! Mister!
Una torcia puntata in faccia.
Go, midnight, go.
Ci svegliano così i soldati e la notizia è buona. Go. Non dobbiamo passare la notte qui. Raymond sembra indispettito: lui stava dormendo bene e sarebbe rimasto volentieri. Di là e oltre non sappiamo cosa ci attenda.
Pedaliamo pianissimo, siamo cotti e io sto pure peggio di prima. Fa anche freddo, o ho la febbre. Indosso l’antivento catarifrangente.
Le formalità dalla parte uzbeka, ora che il maledetto visto è valido, sono veloci. Gli impiegati sono gentili e sorridono molto, uno ha il volto da gatto e ci aiuta a sbrigare tutto rapidamente, compilandoci i moduli. Ci lascia un foglio che non dobbiamo perdere, poiché andrà consegnato all’uscita dal paese. C’è scritto quanti soldi abbiamo. Dovremo dichiarare la stessa cifra o meno, ci dice, altrimenti son guai.
Nemmeno controllano borse e bagagli, e ci dicono pure, in mezzo francese e mezzo italiano, benvenuti in Uzbekistan. Eh veh.

Da lì inizia una parte del viaggio da delirio allucinato. Io pensavo che fuori dalla frontiera ci fossero i classici servizi minimi tra cui un alloggio. Niet. Iniziamo a pedalare su una strada scassatissima di buche sabbia e sassi. Non è illuminata ma il plenilunio enorme risolve molta parte del problema. Io però devo fermarmi ogni dieci metri per la sguaro galoppante. Mettiamo le luci sulle bici e io persino addosso, così se finisco nel fiume che corre accanto alla strada Raymond può recuperarmi.
Ogni tanto qualcuno dal nulla con una torcia fa segni: gente che vuole cambiare o spacciare o trafficare. Non abbiamo sum, la valuta uzbeka, ma non ci fidiamo a fermarci così: sono quasi le due di notte. Continuiamo a pedalare. A 10km, che poi diventano 25, c’è un paese, il primo, Olot, o Alat. Ci fermano due che si spacciano per poliziotti ma chissà. Dopo alcune domande ci dicono che in effetti lì c’è un hotel. Bene. Raymond è stanco e vorrebbe fermarsi a campeggiare, ma io sto troppo male per passare la notte all’aperto e insisto per raggiungere il paese. Lui dice che al buio e i piena notte sarà impossibile trovare l’albergo, e lo temo anch’io. Ma provare non costa nulla. Proseguiamo così sulla strada e non troviamo nulla e nulla se non luci e qualche ubriaco ce canta fuori da una Lada scassata. I grilli e i campi umidi intorno esalano profumo d’estate. Vediamo luci in lontananza e giungiamo a un bivio ma non c’è alcuna indicazione. Con la mappa offline capisco quale sia la strada principale e decido di seguire quella, ma pare si allontani dal paese. Dei cani abbaiano e nelle cascine i galli cantano già, benchè sia piena notte. Raymond è scettico e mi chiede di controllare la mappa mille volte; dice: “Abbiamo perso tempo a pedalare al buio che è pericoloso quando potevamo riposare!”... Bel riposo. Le luci si fanno lontane. Mi rassegno a dargli ragione e iniziamo a guardarci intorno per trovare un posto adatto al campeggio ma ci sono molte abitazioni sparse. A un certo punto compareil cartello con il nome di Olot e, pochi metri oltre, un edificio con le luci accese e un’insegna rossa: HOTEL!
Non ci posso credere! Hotel! Ma sul serio! Hotel!
Stop improvviso, entriamo con le bici nel cortile senza manco chiedere ed io entro di forza nella hall; da una stanza esce un uomo assonnato, gli chiedo se ha due camere e mi dice sì, 20 dollari a testa (bravo, dollari, che sum non ne abbiamo ancora); ci chiede i passaporti e poi ci dà le camere. Ci porta asciugamani e sapone e ci dà la password della wifi. Incredibile. Il paradiso. L’Uzbekistan è il paradiso. Siamo tornati ad essere esseri umani.
E la wifi funziona e vanno Facebook e Whatsapp, senza bisogno di vpn che aggirino gli stupidi blocchi delle teocrazie e delle dittature! Uzbekistan, ti amo già.
Con 60km sulle gambe, molto dolòr, alle 4.30 di notte finisce la giornata lunga del passaggio del confine. E dormiamo nel letto pulito, dopo la doccia, e con il bagno in camera.
Inshallah.

29/7/18

La sveglia suona alle 8.30 e si va a far colazione. Tè, le solite uova e i soliti wursteloni, ma stavolta anche biscotti di vario tipo, che per me sono una benedizione, chè mica sto ancora bene.
Poi si torna in camera. Io pubblico e faccio gran uso dell’internet, finalmente, finalmente! E Raymond invece va a cambiare i soldi nel negozietto di fronte e a far shopping. Torna due ore dopo, con una borsa PIENA di banconote. Gli è stato complicato cambiare e gli han dato tutti tagli piccoli, da 1000 sum. Quando 1 euro sono 8000 sum. E noi abbiam cambiato 400. Te pòi ‘mmaginà.




Con calma e rincoglioniti per il poco sonno ci rimettiamo in sella. Prima, il buon proprietario dell’hotel ci REGALA una bottiglia d’acqua fresca. Mi commuove quasi questo gesto di gratuita umanità. Dopo tanta sete e “tante le grinte, le ghigne, i musi/ vagli a spiegare che è primavera/ e poi lo sanno ma preferiscono/ vederla togliere a chi va in galera./ Tante le grinte, le ghigne, i musi/ poche le facce e, fra loro, lei…”.







Si parte. Le prima impressioni sono quelle di un paese finalmente normale. Olot e Qoraqol, i primi due centri abitati che incrociamo, sono abbastanza scassati e polverosi, ma hanno le case e i negozi, i bazar, il centro, il parco, la stazione di polizia e altri negozi. Ci sono i wc pubblici a ogni stazione di servizio e i ristoranti con appesi fuori dei pescioloni per indicare che lì si cucina il ryba, il pesce. E i minimarket abbondano, così come i venditori di frutta a bordo strada. Sembra tutto così facile! I cartelli sono quasi tutti scritti in russo e con alfabeto cirillico, mentre i nomi dei paesi sono ben strani perché in quest’area si parla un dialetto tajiko. Di russo ci sono anche i cartonati della polizia e dei posti di blocco, ma qui sono sbiaditi al sole e non ci casca nessuno. Sovietici oltremodo pure i tubazzi che portano il gas nelle case e speri sempre non esplodano.
La gente ricomincia a salutarci in modo rumoroso e a sclacsonate, con le braccia alzate e i sorrisi aperti. Tutti quelli che si muovono in bici, e sono tanti perché i paesi son tutti vicini uno all’altro, finalmente, si aggregano e pedalano con noi per un tratto, presentandosi. 













I ragazzini ci mostrano la loro casa e vogliono invitarci a pranzo ma noi dobbiamo andare: siam partiti tardi e abbiamo comunque 75km davanti. Fa caldo, ma non troppo, e c’è vento, ma il Puill mi fa da traino perché sto poco bene. Vogliamo raggiungere la grande città di Bukhara, dove potremo riposare ed io potràò curarmi. Si susseguono campi e orti e frutteti e tutto è verde. Ci sono i fossi a portare l’acqua sacra. I contadini si muovono a dorso d’asino o sui carretti, che qui sono il mezzo di trasporto più diffuso dopo le Lada scassate e i marshrutki. In media si vedono paesini più miseri e più poveri, non ci sono i palazzoni e le grandi facciate, ma è tutto vero, le cose sono come appaiono, non c’è la forma verniciata d’oro e la sostanza marcia. La gente è più rumorosa e allegra e sorride ben di più. E si gode la vita sui divani sotto alle frasche, fumando incenso e vaniglia tra un bicchiere e l’altro di tè.


dormon? magari!








Ci fermiamo a metà strada e, se dio vuole, in un kafè vero. Cioè, è un edificio curioso popolato da curiosi personaggi, ma hanno un frigo con bevande fresche e fanno il caffè. Tutti i presenti, a turno, vengono a farci domande, una curosità a testa, poi tornano dentro e mettono insieme i pezzi del puzzle: chi siamo, quanti anni abbiamo, da dove veniamo, dove andiamo, se siamo sposati. E via così. L’energica proprietaria del locale si siede poi con noi e vuole vedere le mappe sul telefono e ci dice che lei ha 50 anni. Veh! Poi si fa fotografare ma vuole controllare di esser venuta bene. torna infine a fare i conti sulla sua grande calcolatrice, in un angolo della cucina che è casa sua.






Anche il bagno, che pure è na ulitsa, è decisamente più pulito. Ah, l’Uzbekistan, che meravigliosi buchi in terra che ha!
Mangiucchiamo e la nostra tavola è il simbolo del multiculturalismo: ci sono l’acqua turkmena, i datteri iraniani, il latte condensato russo, il pane e i bicchieri uzbeki e la Pepsi. Bene così, come i mercanti che portavano le spezie e la seta e le pellicce e i gioielli dauna parte all’altra del mondo.




Si riparte sulla strada scassata e sono ancora campi di pomodori e asini, carretti, ristoranti e gente che sorride e saluta. Fieno, vento, piccole moschee con il tetto verde e città con il nome tolkeniano tipo Jondor. Le bianche torri di Jondor. E i suoi lunghi tubi di scappamento da cui escono gas non meglio identificati.
Procediamo di paesino in paesino, di orto in orto, di cimitero in collina (la Spoon River centrasiatica) e io ho una febbre che galoppa. Lo sento perché i tendini del collo son bacchettine roventi che mi si conficcano nel cervelletto ad ogni buca. E son tante le buche e troppi i sassi.




























Finalmente un arco ci indica che siamo arrivati alla storica Bukhara, Buxoro per gli uzbeki. Salvezza. La città non è grande, ed è un gioiello d’arte e storia che visiteremo domani. Ora l’obiettivo è raggiungere l’albergo, Helene Oasis, gestito da una pensionata francese, in pieno centro, e spiaggiarci lì e non muoverci per almeno 36 ore.














Senza troppe difficoltà, perché qui gli automobilisti rispettano le normali regole del codice della strada, ci portamo al cuore ocra e azzurro di cupole della città. E finalmente ecco pure il portone di legno della casa storica in cui ci fermeremo. Prendiamo le stanze, ci laviamo, e ceniamo. Io inizio una cura di antibiotici, e sento casa. Bevo un tè nella sera fresca, sotto alle foglie antiche di alberi saggi. Tutto è bello. Uzbekistàn, karashò!





2 commenti:

  1. UZBEKISTAN
    Dove stan tutti sti Stan?
    Son davvero assai lontan!
    ma se prendo la corriera
    ti raggiungo per stasera?
    “In corriera fino a qui?
    Forse arrivi martedì…”
    Porca vacca, tròp luntan,
    te saludi Uzbekistan!
    Meno male c’è il pc
    come e facile oggidì!
    Un messaggio da quaggiù?
    Presto arriva a Malibù.
    La distanza è poca cosa,
    In sta società curiosa.
    Nostalgia, che roba l’è?
    Sentimento demodè...



    RispondiElimina
  2. On s'y croit, on vit l'instant grâce à la plume de rita.dommage que je ne comprenne pas l'Italien et que Je dois imaginer avec le traducteur .a+ bisous

    RispondiElimina