domenica 29 luglio 2018

27-30 TURKMENISTAN KARASHO' (ma minga tropp). La dittatura assurda. Cammelli, gerbilli e squaraus







24/7/18







E niente, ci siamo riusciti davvero. Davvero abbiamo attraversato il confine. Ora siamo in Turkmenistan! Una delle nazioni più chiuse e meno turistiche, che più complicano la vita a forza di burocrazia e leggi assurde. Un’ex repubblica dell’unione sovietica, terra di nomadi fino a mezzo secolo fa, terra di deserto e vento e occhi a mandorla. Terra dell’Asia centrale, ora sì, dopo la Persia di fine cultura. Qui corrono i cavalli e si mangia il pane con la carne a pezzi tagliati a fil di lama, non più il riso con lo zafferano. Qui c’è una dittatura di fatto, e il presidente è una sorta di entità suprema e ineffabile, la cui immagine non può essere catturata se non in foto ufficiali, che vive isolato in un quartiere della capitale e si mostra al popolo tramite gigantografie di fotomontaggi dove cavalca coi cosacchi, porta in braccio cagnolini (tipo quelli che ha regalato a Putin), legge radiografie in camice e si fa porgere fiori dai bambini.

Ma andiamo piano e con ordine, chè oggi è stata una giornata davvero densa. Questa mattina abbiamo fatto colazione nella polvere del ristorante abbandonato ed abbiamo chiuso l’hotel, lasciando la chiave sotto alla pietra in giardino indicataci dal proprietario. Intorno una fresca mattina di sole buono. Ciao Iran, è bello salutarsi così, nella prima luce.





Alle 7.30 eravamo davanti al cancello, ieri chiuso, che collega la cittadina di Bajgiran alla frontiera vera e propria. C’erano già alcuni funzionari e militari assonnati, ma ci è stato semplicemente detto di proseguire oltre. Ovvero: 3km di salita ripida. Credevamo che i controlli iraniani in uscita fossero soltanto questi,praticamente inesistenti, e ci immaginavamo già con una ruota in Turkmenistan.





Grave errore.
Dopo l’ultima moschea, nel caso si voglia levare una prece a che gli sbirri non siano troppo stronzi, c’è il vero confine, con i controlli. Arriviamo e alcuni giardinieri intenti a far finta di lavorare ci dicono che è presto, che bisogna aspettare. Ma come? Non apre alle 7.30? Son già le 8!
Ci raggiunge un omino brizzolato e ci chiede se vogliamo cambiare. A che prezzo? 15 manat per 1 euro. Ottimo. Concludiamo la trattativa e vien finalmente l’ora di portarci ai controlli. Con le bici dentro negli uffici, perché da qui, da Bajgiran, non si può transitare in auto o con i mezzi: solo a piedi. Per fortuna non c’è ancora nessuno. Diamo i passaporti allo zelante, idiota, demente pezzo di merda in divisa che sta dietro al vetro. E ci dice di sederci ed aspettare. L’attesa si prolungherà per un’ora e mezza. Il problema sono i due timbri israeliani sul mio passaporto. Che risalgono, come si legge bene dalla data apposta, al 2012. I 90 minuti scorrono lentissimi. Ci sono sbirri che vanno e vengono, sfogliano e risfogliano il mio passaporto, fanno no con la testa,mi guardano di sottecchi. A volte mi fanno qualche domanda, tipo perché sono andata in Israele 6 anni fa. Per fare la spia nel tuo paese di merda, coglione. Perché hai due timbri? Perché sono entrata in Giordania, un paese del cazzo come il tuo, aricoglione. E niente. Ho un visto valido e un timbro d’ingresso, ho passato qui un mese e non vogliono farmi uscire. E’ proprio vero che la divisa spesso calza solo su cervelli taglia XXS. I militari continuano ad andare, venire, sfogliare il passaporto e guardarmi. Noi aspettiamo, mentre altre persone iniziano a passare il confine. Un ingegnere turkmeno, una famiglia turkmena, poi una pullmanata di donne velate che ha visitato Mashad. E da lì in poi un continuo, inesauribile, fiume di signore e pochi uomini turkmeni, tutte in abito tradizionale (veste lunga colorata con una spilla per chiudere la scollatura e un foulard intorno ai capelli, ma ben diverso dall’hijab); transitano con quintali di borse e borsine e borsone, sacchetti e pacchi, scatoloni, valigie, carretti stracolmi. Le merci che portano sono per lo più sapone, detersivi, assorbenti, pannolini e bottiglioni di Coca Cola. E’ facile intuire che in Iran questi prodotti costano meno, e le belle signore vanno a fare shopping oltreconfine. Ma sono tantissime, e allucinante è il numero di bagagli che si portano dietro. Tanto che l’Iran offre un servizio di trasporto con carretti di legno tutti storti spinti da un vecchio con i pantaloni alla zuava e il cappellino di lana e un ragazzino brufoloso e occhialuto. Dopo lunghissima attesa e madonne tirate qua e là, perché stiamo perdendo tempo e la giornata è lunga, finalmente ci ridanno i passaporti con il magico timbro sopra. Possiamo uscire dalla Repubblica islamica. Finalmente! Tiro un sospiro di sollievo, mando a fanculo tutti con un sorriso che taglia come un rasoio e via, verso il confine turkmeno, presidiato da poliziotti in mimetica e cappello cowboy-pescatore e dal sorrisone di una foto del presidente che osserva tutto dall’alto. Che qui si lascia un Khomeini per un altro consimile, ma senza barba e senza dio.

Il primo contatto con la guardia turkmena mi spiazza: osserva il passaporto e dice “No visa? No entry”. Ottimo. Perché il visto per sto paese della fava centrasiatica è tutto un programma da avere. Ne’ io né Raymond lo abbiamo sul passaporto, perché i consolati di Roma e Parigi non hanno avuto il bene di concederci tale onore. Abbiamo scoperto da pochi giorni che la nostra richiesta è stata accettata e che i nostri nomi DOVREBBERO essere nella lista verde di chi entra con un visto di transito. Ma chissà. Non abbiamo in mano nulla di ufficiale, nemmeno un pezzo di carta da culo. Solo promesse e parole dette così, per email, alla cazzo di cane. Un altro militare, un ragazzino, ci dice di entrare nel salone dove si fanno i controlli. Un terzo ufficiale, in divisa, anche lui occhi a mandorla, da dietro il vetro ci chiede ancora perché non abbiamo il visto. Iniziamo a sudare e a spiegare. All’inizio sembra che tutto stia andando nel peggiore dei modi, nel peggiore dei mondi possibili: è già tardi, nessuno parla bene inglese, continuano ad arrivare donne colorate con quintali di sapone ed ettolitri di detersivo. Si crea ressa, c’è casino e nessuno capisce. Aspettiamo. Magicamente, dopo circa un’ora, ci chiamano e compare un primo foglio intestato a Puill: c’è da pagare, 130 dollari. Solo dollari, non manat né euro. Il Puill esita perché temiamo che il mio visto non ci sia e ci siamo detti o entrambi o nessuno. Allora la donna che attende firme e denaro si spazientisce e sbotta “Moment moment second visa, minutku!”. Cioè: n’attimo che arriva pure l’altro foglio. Ed è così. Pago pure io e si torna ad attendere, con le ricevute in mano, in un fiume di donne e di detergenti. Ma che è, se lo bevono il detersivo? O è droga nascosta in innocue scatole? 










Alla fine ci richiamano e stavolta gli occhi a mandorla dietro al vetro sorridono. Ci fanno depositare le impronte digitali (tutte e 10) su un lettore ottico e ci scansionano la retina e ci fanno una foto. Fanno anche varie domande, dove dormiremo, in quali città andremo, perché. Cacciamo balle da campionato e va bene così. Stampano il visto a Raymond, poi tocca a me. Il poliziotto mi dice: italianska! Ciao! How do you say bonita in italian? Rita bonita. Rispondo: si dice bella. Ah! Bella Rita, bella Rita, yu beautiful. Married, husband? No! Ah, bad bad, you beautiful, bella Rita, marry! Seeeee ciaone! Mi rende il passaporto con su il visto e dopo questo siparietto tiriamo un bel respiro di sollievo. Ce l’abbiamo fatta! Acchittiamo così armi, bagagli e bici e andiamo verso la porta che viene aperta e chiusa secondo una logica non chiara, ma da cui sappiamo dobbiamo passare. Un soldato ci chiede i passaporti e ci lascia entrare. Qui ci attendono molti uomini in divisa, ma tutti rilassati e sorridenti. Ci fanno mettere i bagagli sul nastro per i raggi x e ne aprono uno a caso senza nemmeno guardar dentro. Sono molto più interessati al mio contakm (che per altro non funziona). E anche al fatto che la borsa dell’acqua di Raymond ancora si è rotta e si è creato un torrente in tutto l’ufficio. Poi guardano le bici, ci chiedono di dove siamo e se parliamo russo. Poco poco! Ridono e via, la porta per la libertà è ormai vicina. Stiamo per uscire, dove vogliamo sistemare i bagagli e rimetter via denaro e documenti, quando un poliziotto di raggiunge, ci apre la porta e indica un autobus lì parcheggiato. Dice cose di cui capisco poco: la strada è presidio militare e ci sono i controlli e non si può percorrere, dobbiamo prendere il bus. Ah. E le bici? Niet problema, le si carica così come sono sul pullman, in mezzo a saponi e pannolini e foulard colorati che lasciano in vista i capelli e il volto. E sorrisi di denti d’oro. Insomma, strada chiusa. 





















Appena caricati le bici e i  nostri culi faccio ciò che da un mese bramo: mi levo il velo e la maglia a manica lunga. Ah! Che bello l’ateismo portato dai russi. Mi vien voglia di dire viva Lenin, ma mi trattengo.Il volto del dittatore presidente ci osserva anche da questo lato della frontiera. Però che frescura. Che goduria. L’aria addosso. Ah! Sì sì, questo è il paese della libertà. L’altra libertà, dai, non quella. L’altra ancora. Insomma di una libertà. E della mancanza di tante altre, come ovunque. Aspettiamo che il mezzo si riempia di donnne che annusano saponette e fanno i conti con grandi calcolatrici che tengono in borsa. Poi sale un uomo tutto baffi che dimostra che siamo in Asia centrale, e si parte. Peccato non farla in bici! Sarebbe stata tutta discesa! Una tortuosa gola di monti alti, simillimi a quelli di ieri ma più brulli, presidiati ogni pochi metri da una torretta di guardia.

Dal finestrino entra l’aria forte e me la godo tutta sulla testa e sul collo. L’ho già detto che è una goduria? Dopo circa 15km giungiamo ad un altro cancello e le donne ci fanno segno che si deve scendere. Ci aiutano anche a tirar giù le bici, mentre noi, rincoglioniti dalla burocrazia assurda, ci rendiamo conto che si deve fare un altro controllo passaporti. L’ultimo, forse. Ah, e si paga anche la corsa, 0.5 euro a testa.

Passato quest’ultimo check point si apre il cancello. Un uomo mi chiede di provare la bici, mentre le signore e i saponi si caricano sulle molte auto che attendono lì in un parcheggio. Bye bye tutti, noi si monta in sella! E si scende rapidi per altri 15km circa, ai lati la roccia e davanti una pozza candida che è Ashgabat, la città bianca, la perla nel deserto. Ho letto alcune cose strane a riguardo di questa città: è vietato fare fotografie. E’ vietato tenere aperte le finestre delle abitazioni. C’è il coprifuoco dopo le 23. E’ vietato avvicinarsi al quartiere dove risiede il presidente. Ci sono grandi palazzoni amministrativi, segni della megalomania folle di questo e del precedente dittatore, non è facile trovare qualcosa che renda questa città una città normale.














Confermo ogni cosa. Si scende per un vialone semideserto che porta fino in centro. Ci sono militari ogni 10 metri, che se fai foto di dicono no foto. Ci sono enormi palazzoni bianchi per kilometri, come se ci fosse molto da governare su un pugno di sabbia. E’ bianco quasi tutto. Non c’è quasi nessuno per strada. La città sembra una disneyland folle costruita da un pazzo megalomane per autocelebrarsi. Ci sono statue d’oro del presidente e alri edifici bianchi e giganteschi. Uno stadio per le corse dei cavalli spropositato, e un palazzo che pure a scendere e in bici non finisce mai, sarà lungo almeno 3km. Ed è bianco con i dettagli in oro. C’è pure la statua del Runahawa.



















Un poco di storia, brevemente, per capire.
La prima menzione scritta della città di Aşgabat risale ad una tavoletta dell'epoca della popolazione dei Parti nella quale si elogiava la bontà del vino della zona. La città era un piccolo centro dell'impero dei parti la cui capitale era Nisa (le rovine si trovano ad una decina di km). Nel I secolo un terremoto la rase al suolo ma grazie al traffico dei commercianti che percorrevano la Via della Seta fu progressivamente ricostruita e divenne un centro prospero dal nome di Konjiakala.
Nell'XI secolo passò sotto il dominio dei selgiuchidi ma venne espugnata e rasa al suolo dai mongoli nel XIII secolo. La regione venne poi occupata da tribù nomadi turkmene e la città perse di importanza.
Quando, dopo la vittoria di Geok Tepe nel 1881 la zona fu invasa dai russi, la città principale della zona era Merv e Aşgabat era solo un modesto villaggio. I russi decisero però di farne la loro capitale regionale e verso la fine del XIX secolo la città venne arricchita da edifici e alberghi in stile europeo e, dopo il collegamento alla ferrovia transcaspiana, una stazione ferroviaria. La popolazione era in prevalenza russa con minoranze armene ed ebree, la città ha peraltro mantenuto questo carattere, ancora oggi la maggioranza della popolazione non è di origine turkmena.
Il 5 ottobre 1948 la città venne completamente distrutta da un devastante terremoto. Vi furono oltre 110.000 morti pari a due terzi della popolazione anche se le cifre ufficiali erano di gran lunga inferiori. Per cinque anni l'accesso alla zona fu interdetto per permettere il recupero dei resti delle vittime, di rimuovere le macerie e di ricostruire la città che fu riprogettata su un reticolato di vie perpendicolari, con la Prospettiva Machtumkuli (Prospekt Machtumkuli) che divide la città da est a ovest.

Il fatto, ora, è che questo delirio architettonico che pare un incubo fantascientifico non è costruito per la gente che ci vive. Non ci sono negozi, locali, attività. Solo palazzoni amministrativi e vialoni semideserti. Rinuncio ben presto a trovare una Sim. Per caso ci imbattiamo in un bar, e siccome son le 13 decidiamo di fermarci. Gelato, croissant al formggio, succo di frutta, Pepsi, due cappuccini e due fette di torta di pasticceria vengono via a 3.80 all inclusive. E siamo in un locale fighetto nella capitale! I 300 euro in manat che abbiamo avanzeranno di certo. Penso intanto a ciò che ho letto: il cibo è buono e vario, ma la diarrea per noi occidentali è inevitabile, anche se si mangia tutto cotto e si beve solo acqua in bottiglia. E’ inevitabile e bisogna farsene una ragione. L’ho letto e lo confermo, ahimè. Per fortuna in dogana non mi hanno fermato i kiloni di medicine con cui viaggio.



Insomma, dopo un’oretta di sosta ripartiamo. Sino già la 14 e abbiamo pedalato poco, mentre dobbiamo fare più strada possibile per non far scadere il visto.
Fa caldissimo. Di nuovo. Sul termometro vedo 49 gradi, aggravati dai fumi delle auto e dei camion che in periferia aumentano di numero.
Vediamo anche alcuni quartieri residenziali, con case simil-sovietiche che mi ricordano molto Minsk. Fatiscenti e brutte uguali.
La strada è enorme,  3 corsie per parte più quella di emergenza; però con il cavallo si può attraversare. L’asfalto è di qualità pessima e con il caldo è tutto sciolto. Sento la Signora appiccicarsi al catrame e incollarsi a terra e fare un rumore semiliquido. Il traffico resta comunque minimo, come la presenza di paesi, tutti distanti dalla strada e difficilmente raggiungibili (ma come diavolo si entra che ci sono guardrail insormontabili?E manco un cartello con il nome di questi luoghi!). Si corre verso sud, seguendo la forma dei monti altissimi che sono un muro, un’onda di pietra nera, e segnano il confine con l’Iran. Il sole è feroce. Sarà che ho dormito poco, ma sento le tempie esplodere e gli occhi scoppiare come i pop corn. Sento le gambe sciogliersi e il respiro salire a fatica, ma per fortuna la strada è pressochè pianeggiante: solo alcuni saliscendi lievi. Accanto sempre corre la ferrovia. In lontananza, paesi irraggiungibili che paiono quelli della Transiberiana, con la stazione grande e bianca e le casette sparse intorno, in un verde che a tratti sparisce e diventa deserto.












Ci sono pastori a cavallo e “vedo gendarmi pascolare/ donne chine sulla rugiada”. Si appiccica la Signora all’asfalto e mi sciolgo anch’io. Non si trova un filo d’ombra a portata di pedale nèuno straccio di negozio con qualcosa di fresco. Siamo dal lato della strada che costeggia il confine e più che la terra, i sassi e le cacchine di capra non c’è nulla. A 80km fuori dalla capitale Raymond è cotto e praticamente si butta sotto al primo cespuglio che vede. Ha l’aria distrutta. Riposiamo un poco e si riprende. Io decido che giunto il momento di liberarmi anche dei pantaloni lunghi e resto in divisa estiva di ciclista. Ah! Che goduria somma! Sul tatuaggio della volpe spalmo la crema marrone che ci ha regalato Sassanid e penso sia ottima anche come stucco per tappare i buchi nei muri. Si riparte. 






















Abbiamo poca acqua. Campeggiare lì, in zona frontaliera, è impossibile. Propongo di raggiungere la città che so più vicina, Artyk, che è il secondo confine con l’Iran. Ma dista 40km e intuisco la stanchezza del Puill. Così dopo un’oretta di pedalata dove io mi muovo agile ma lui resta sempre indietro, intravedo, dall’altro lato della strada, un grosso edificio bianco, su cui campeggia la scritta KAFE, e, sopra ancora, KEMPING. Che sia uno di quei motel con ristorante come se ne trovano tanti in Russia? Ebbene, sì! Lo scopriamo presto, appena andiamo a controllare, perché il proprietario è ben disponibile e ci accoglie con larghi sorrisi e una comprensione che va di là della lingua. Che un poco di russo e un poco di turco, un po’ col cirillico e un po’ con l’alfabeto latino, ma soprattutto con lo sguardo e i gesti, ci si intende. Così decidiamo di fermarci, in pieno stile Transiberiana. Evviva i russi, che oltre all’ateismo di cui sopra, han portato pure i motel. Prendiamo le camere e il tè freddo e poi la cena, carne di agnello con verdure (condite con olio, rarissimo in Iran sull’insalata) e pane. Pane alto, non basso come quello persiano. Pane e non riso. E poi il tè verde, gek, bevanda nazionale oltre alla vodka.








Abbiamo fatto 100km in sella e una manciata in bus. Domani troveremo più città e vedremo fino dove riusciamo a spingerci, per giungere dopodomani a Mary, a due terzi del percorso, antica capitale di mercanti e cammelli sulla via della seta.
Insomma, a parte le leggi assurde e la sanguisuga trovata da Raymond nel letto, questo Turkmenistan non è mica male!




25/7/18

Che giornatona! 150km e un’infinità di cose nuove viste e aprrese. Chè questo è il bello del viaggiare lenti, ma non troppo. E questo accade quando ci si inizia ad ambientare in un nuovo stato; all’inizio è un turbinio di colori e voci e parole che suonano incomprensibili, volti diversi  e luci troppo più chiare o più basse. Poi piano piano le pietre del caleidoscopio acquistano una forma di cui riconosci un senso e  si dispongono in ordine. Qui comprendi come funziona la strada e là quali siano le abitudini della gente, ora capisci gli orari che scandiscono la giornata e ora i modi e qualche parola.

Iniziamo dalle parole, appunto. Dicevo che qui tutti parlano russo. Chi è nato prima dell’indipendenza dall’Urss perché è stato costretto a studiarlo a scuola. Chi è nato dopo, perché comunque resta la lingua della cultura e della moda e dei ricchi, per il centr’Asia; insomma, fa figo. Per esempio, grande parte dei programmi tv e radio sono in russo, e i film stranieri sono doppiati (con audio originale sovrapposto) in russo. Ieri ho visto Conan il barbaro così, na delizia.
Però la lingua ufficiale è il turkmeno, che assomiglia molto molto al turco. E pressochè tutti i cartelli e le insegne e le eitchette sono in turkmeno, ovvero scritte in alfabeto latino, e non cirillico. Dunque, per parlare si usa il russo, per scrivere il turkmeno. Un po’ un casino, ma ce la si cava con le conoscenze basic della lingua della Grande Madre accumulate negli anni passati. E la gente è felice di poterci parlicchiare, perché son tutti curiosi.
Però è una curiosità più riservata, più fredda, più russa. Non è come in Iran, dove la gente ti pressa e ti incalza e non ti molla. Qui tutti guardano, mormorano, sorridono e a volte salutano o chiedono, ma con discrezione. Non vogliono isturbare né troppo esser disturbati, proprio come i russi. E dire che i turkmeni sono considerati da chi vive nella Federazione come i peggio terroni, come bifolchi venuti giù con la piena, anzi, con la tempesta di sabbia.
Anche le sclacsonate si sono ridotte molto, mentre pedaliamo. Non che manchino, ma non è più il suono di bordone delle nostre giornate. Per fortuna, chè quando partono le bitonali o i concerti assurdi di sirene musicanti persiane ti piglia un colpo da rischiare il coccolone immediato.
Insomma, non fosse per il clima e per gli abiti delle donne, nonché per i volti turchici e dagli occhi a mandorla di quasi tutti, parrebbe proprio di esser tornati in Russia.
Altra cosa che ho appreso: qui stringono la mano anche a me, ovviamente, ma non si fa come da noi. Tu tendi la mano e loro la stringono piano con entrambi i palmi.

Veniamo a noi. Ci siamo alzati con calma e con calma s’è fatta colazione, doppio caffè trivadnà (3 in 1 in ruski) e du’ ovetti, khleb (pane) e pedalare. A propos, stanze per due, cena per due e colazione per due, oltre a tot bibite fredde, ci costano 6 euro a testa. Ci avanzeranno dei soldi anche qui, mi sa.




Al mattino fa quasi fresco, maladetto clima desertico dai grandi sbalzi. Si esce nella luce ancora morbida e intorno è già tendente al deserto. In effetti siamo al bordo del deserto del Karakum, che occupa pressochè tutto il paese. Anche se la striscia in cui pedaliamo è a tratti ben verde: si corre infatti tra i monti che segnano il confine con l’Iran e il canale Karakum, opera immensa che porta l’acqua in un paese secco secchissimo fin dai lontani monti del Pamir, a sud. E così ci sono le mele e il grano e il fieno per tutti.

Poco dopo la partenza ci ferma un camionista che vuole una foto, ed è subito accontentato. E’ il primo da che siamo entrati in Turkmenistan a volerci immortalare.



Si pedala bene perché non fa ancora caldo, non c’è gran vento ed è pressochè tutta pianura. Così entriamo nella regione di Kaka, città mediogrande a 60km da dove siamo partiti. Certo non è un nome di buon auspicio considerando i miei trascorsi notturni sguaroni. Ma vabe’. Prima di portarci a questa città dal nomen omen, entriamo nella piccola Artyk. E’ il secondo confine, a partire da nord, dei tre  che uniscono Iran e Turkmenistan. Spero qui di trovare una sim ma ciccia, i camionisti a cui chiedo ridono e mi fanno capire che devo andare ad Ashgabat. Annamo bene!











In compenso troviamo, nella polvere, alcuni cammelli che pascolano. E soprattutto un minimarket. Qui Raymond, in preda ad un delirio mistico o ad una crisi di zuccheri, fa fuori, nell’ordine: due sneakers, due torte al cioccolato e due litri di Coca cola (zero, per non ingrassare e perché qui questo bene raro è diffuso). Poi acquista due pani enormi e una boccia di vetro di marmellata alle fragole, nonché una tolla di latte condensato, di quelle bastarde che una volta aperte non puoi più richiudere. Maronn’ r carmine, che è? La terza guerra mondialeè giunta e bisogna far scorte? Vero è che la meta, Tejen, è a 150km, e non sappiamo se riusciremo a raggiungerla, ma così mi par un pelino esagerato.
Approfitto intanto per messaggiare un poco con la Sim iraniana, che qui, sul confine, funziona da dio con il 4G e invade il territorio turkmeno che è un piacere. Salutiamo i cammellini e pedaliamo.
Intorno non c’è nulla d vedere, se non una distesa piatta fino all’orizzonte, a est, e gli azzurri Elburz, a ovest. Tratti desertici o sabbiosi si alternano a campi verdissimi o biondi di spighe, prati e cespugli. Ora la terra è spaccata in zolle profonde, ora è umida e grassa d’acqua. La strada è quasi deserta, a pare qualche vecchia Lada scassata, alcuni suv bianchi e camion fermi a bordo strada.
Quando l’asfalto ricomincia a sciogliersi sappiamo che è ora di fermarci. Uno specchio d’acqua preannuncia la vicina Kaka (e daje co sto nome che mena merda, nel senso stretto).














Vediamo un kafè motel ma, una volta vicini, capiamo che è abbandonato e chiuso da anni. Poco oltre, dopo un gruppo di edifici (bianchi of course e non ad uso civile) scorgiamo un’area di sosta con molte auto e camion fermi: segno universale che lì si mangia. Ci fermiamo dunque ad una sorta di ristorante-negozietto che offre carne grigliata e bibite fresche, cianfrusaglie da mangiare e divanetti all’ombra.









Raymond, sempre preda del delirio da fame, ordina per sé due piatti, uno con la salsicciona di agnello e l’altro con tre kili di pollo, tutti accompagnati da pane e verdura e salsine piccanti. E una teiera pr due, che fucila in solitaria. Fiocina tutto, mentre io mi “limito” a bere un litro e mezzo di tè verde ma freddo, e a masticare del pane scuro (tutto ciò vien via a 2 euro scarsi). Ahimè tre quarti di tutto ciò resteranno sulla strada, perché si riparte subito dopo mangiato, sotto il sole delle 2, dopo una doccia sotto la canna dell’acqua e una sosta nel gabinetto (un buco a terra con della lamiera intorno a mo’ di pareti, più lurido del Turkmenistan. Quello di Trainspotting non è nulla in confronto.
Si riparte ma mi fermo subito.
In un edificio abbandonato e pieno di immondizia e rottami c’è un ufficio della TM Cell, l’unica compagnia telefonica che vende servizi internet e cell in tutto lo stato. Ovviamente è proprietà del governo, che ha il monopolio. L’ufficio è incredibilmente pulito e ben tenuto,con aria condizionata e foto del presidente che sorride beato. Accanto al megaschermo dove corrono le offerte dei piani tariffari, due ragazze in abito tradizione ma con stemma TM cell mi sorridono; chiedo se sia possibile acquistare una Sim, e fanno sì con la testa. Ma che culo! Mi chiedono il passaporto e la mia gioia si spegne subito: ah mannaggia non sei russa né turkmena, attaccati a questo grandissimo caz*o! Non comprendo e loro, poverette, fanno il possibile per spiegarmi; chiamano perfino una loro amica che parla inglese, la quale mi traduce tutto: agli stranieri le Sim vengono rilasciate solo negli uffici delle grandi città, come Ashgabat, e non in quelli piccoli. E’ vietato. Chiedo se a Mary si può. Sì! E va be’, si aspetta. Senza internet si può pur sopravvivere, no?

Ripartiamo ancora.
Su un asfalto scioltissimo come non sto a dirvi nemmeno cos’altro ci lasciamo Kaka (!) alle spalle.








Inizia qui la via dei Camilli. Ne incrociamo tantissimi, e alcunipure vicinissimi. Non scappano e brucano pacifici a bordo strada. Non sono selvatici, questi che invero son dromedari, e non temono l’uomo. Anzi. Non solo si lasciano avvicinare ma ti guardano con gli occhioni dolci dalle ciglia lunghissime, sempre masticando, con l’aria serena da “and that day not a single fuck was given”.










Non pensavo se ne potessero vedere così tanti in giro! E’ davvero incredibile: ogni pochi km gruppi sparsi di 2, 3 o 5 milli rendono viva l’altrimenti immobile pianura. Ma pure loro si muovono piano piano. Che fa caldo, oh!









Il top si raggiunge con due cammelli più menefreghisti del secolo, destinati a diventare kebab in breve, che sostano sull’autostrada e mugghiano (?) ai camion che passano larghi. Come faranno ad attraversare con il guard rail? Certo “son delle bele beshtie”. E’ uno spettacolo. Sono troppo contenta! I Camilli della via della seta!


















Tra zone aride e campi rigogliosi passiamo anche oltre alla via crucis dei memelli, e al centesimo km ci attende la città di Dushak per una sosta acqua. Ci accoglie una famigliola di nonna, figlia e nipotini, in una spiazzo polveroso dove si affacciano alcuni negozietti, di cui uno solo aperto. Ci fanno entrare e troviamo tappeti su cui stenderci e frigo stracolmi. Il Puill fiocina mezzo kg di yogurt, io un Bounty, raro bene, e poi ci diamo di tè freddo che è un piacere, tanto più le spese più grosse a fatica raggiungono i due euro. Ci fanno molte domande, ma in modo cortese. E la nonna, mentre dà una pappetta inquietante ad uno dei bimbi, ci chiede: Turkmenistan karashò (bello, bene, in russo)? Da!









E anche da queste donne che capiscono molto e sorridono larghi di denti d’oro ci separiamo. Sono già le 17.30 e abbiamo ancora 50km da fare. Il Raymond è cotto e ammete di aver mangiato e bevuto un po’ troppo. Io invece mi sento ben in forma: le pianure, anche se ventose (cioè con il vento e appiccicose di asfalto sciolto) sono la mia specialità. Vengo dalla Padana, pedalo il 99% dell’anno in rettilinei piatti. Non mi si batte sulle lunghe distanze così. Sicchè metto una marcia media, prendo il posto di comando e inizio a tirare la carovana, con il pilota automatico impostato sui 25km/h e poi sui 20, che altrimenti perdo il bretone. La strada, dopo Dushak, non corre più a sud, ma est-nordest, e il vento è poco più forte. Tuttavia il sole è più docile e le ombre si allungano. Mi sento una biglia di vetro che rotola su uno scivolo di ghiaccio, senza attriti e senza pensieri. Più di una volta mi estraneo a me stessa e mi alieno e mi guardo da fuori pedalare. Mi sento la coscienza di qualche centimetro discosta dal corpo, come se sopra alla pelle aleggiasse un fumo lattiginoso e quel fumo fossi io-cogitans. Penso la mia vita come un granello di sabbia in cui sono condensati infiniti universi, esistiti, esistenti, possibili. Ci sono i volti di tutti e in particolare alcuni, l’uomo che amo, i miei genitori, i miei due unici veri amici storici. E i colleghi, gli studenti, coloro che conosco e miliardi di “belle passanti”. Sono io che tengo insieme tutti questi volti? Davvero la mia vita è un filo rosso che passa er tante perle, così preziose? E ritorno in me e rispondo che sì, sono io, è la mia vita, e sono più ricca dei re di Persia e dei Khan delle steppe.












Pedalo e pedalo, la volpe-biglia rotola sul piano e va ad est.
Passiamo il canale Karakum e vediamo qualcuno sulla riva a fare il bagno. Ride il deserto per il solletico che gli fa l’acuqa. Ride e ogni risata è una foglia o una radice che spunta.
La ferrovia va parallela alla strada. Io rotolo senza attriti.
Si abbassa il sole.
arriveremo prima che faccia buio? Non mi piace l’idea di campeggiare wild in un paese di leggi così assurde. La polizia non ci ha mai fermati e non vorrei aver contatti con le divise e i berretti buffi dei militari. Pedalo, rotolo, le ruote corrono.
Finalmente ecco Tejen.






Come tutte le città turkmene, è assurda e priva di senso. C’è un posto di blocco, come al solito prima e dopo i centri abitati. Poi nulla se non sabbia, rotaie e qualche lamiera, oltre a un cartello molto sovietico. Poi grossi complessi industriali arrugginiti e all’apparenza chiusi da secoli. Poi edifici grandi e bianchi, che non sono per le persone e la loro vita. Infine, e solo in periferie, seminascoste, le case povere e cadenti e zozze, qualche impolverato negozio e la gente, per strada. Chiediamo ai passanti di una gostiniza e tutti ci fanno segni e ci danno indicazioni poco chiare.
Alla fine un uomo si offre di accompagnarci in bicicletta, e mentre lo seguiamo nelle vie piene di buche, sassi e sabbia interne al paese, lui dice a tutti quelli che incontra che siamo turisti e ci sta portando alla gostinitsa. E’ molto orgoglioso di farci da guida.
Giunti alla famigerata gastiniza, ci accolgono due donne che ci fan portare dentro le bici e ci danno le stanze. L’uomo in bicicletta, intanto, chiede a Raymond se abbiamo una pompa e il buon Puill così, sulla strada, dopo una giornata in sella, gli gonfia le gomme. 






L’albergo è in realtà un ostello marcio ma va bene così. Mi ricorda assai lo standard bielorusso. Stanzoni vuoti, corridoioni muffi, stanze minimal. Cesso na ulitsa, un buco a terra che in troppi non centrano e intorno assi di legno, ditate maroni e mosche e vermi. La doccia è, diciamo, spartana. L’acqua che esce dal rubinettone arrugginito è tiepida perché i tubi restano esposti al sole tutto il giorno, e si conserva in grossi secchi. Non so per cosa la usino. So che quei secchi son l’acqua di scolo della doccia, come quella che resta nel piatto quando lo scarico è intasato. Anche la cucina è notevole per lerciume: il fuoco è sempre acceso perché non ci sono manopole per spegnere il gas. Sul fuoco, crotto teribile, c’è pure un nido di vespe mezzo cotto. Ci cuciniamo la cena (noodles, tonno, pane e tè con halva) usando rigorosamente solo le nostre stovigli e facendo bollire per diversi minuti l’acqua. Ahimè queste precauzioni non bastano, per me, con tutto che il cesso sta a dieci minuti di cammino dalla camera, in giardino, passate due porte e fatte le scale, e manco è illuminato quindi oltre alla carta bisogna ricordarsi pure la torcia, sperando sempre non cada a terra. Muy peligroso.









A sera ci viene a trovare una gattina nera magrissima che si pappa il tonno e il gestore dell’albergo, insieme ad un poliziotto in borghese. Passaporti e domande, ma va tutto bene e ci guardano con tanto d’occhi quando diciamo loro che oggi abbiamo fatto 150km. Altri figuri si aggirano per la gostinitsa, ma è ormai ora per noi di dormire. Domani ci aspettano altri 150km per raggiungere Mary. Ah, la sistemazione di stanotte costa il cifrone di 10 manat a testa, quando 15 manat sono 1 euro. Un affare! E la salmonella e i pidocchi sono inclusi nel prezzo!



26/7/18

A scherzar con il fuoco e con la salmonella poi ci si fa male… Davvero mi sono cuccata una bella infezione potente, che mi ha fatto passare una notte e un paio di giorni complicati. Per fortuna le medicine che ho con me son quelle giuste e furbe in questi casi.
Dopo la cena di ieri ho iniziato a non stare bene, e il malessere è aumentato ed aumentato fino a diventare un fuoco ardente nelle budella. Ho il diavolo nell’intestino pensavo. E poi è iniziato lo sguarone power, che, sommato al fatto che il cesso stava in fondo al corridoio, dopo il giardino, di là da due porte, ha portato a corse misere qua e là, con la torcia in mano e la carta igienica nell’altra. Chè il cesso era il solito buco in terra riparato da quattro lamiere intorno, senza null’altro se non la propria disperazione, il dolore e la puzza allucinante che può, da sola, far star male gli stomaci deboli. Perché queste “tyalet” vengono usate finchè non sono proprio piene piene rase fino all’orlo. La nottata di misteri dolorosi è stata resa ancor più inquietante da due immagini (vi avviso, splatter). Una: i vermi e le mosche sotto di me, così pericolosamente vicini e brulicanti nei liquami altrui accumulati; che ti accucci e tenti di pensarci. Due: i numerosi personaggi che popolano la gastinitsa, svegli a tutte le ore del giorno e della notte; un uomo in canottiera e berretto di lana ha percorso avantie indietro all’infinito il corridoio, sempre con una piccola teiera di peltro in mano; una donna magrissima ha passato l’intera notte a parlare da sola in mezzo al cortile; un’altra, vestita bene come stesse andando ad una festa, mi salutava ogni volta e poi si metteva a piangere. Ho pensato che quando il gentile ometto ci ha accompagnati alla “gastinitsa” ci abbia invero condotti ad un ospedale psichiatrico, avendoci visti giungere dal deserto in bicicletta. “Sì sì vi porto io all’ostello, poi dite sempre di sì agli uomini gentili vestiti di bianco!”.
Insomma, nottata di merda in senso stretto. E la giornata non è stata semplice, anche perché, oltre ai 150km di ieri, ne abbiamo fatti altri 153 oggi.
Con zero sonno e molto mal di pancia siamo partiti presto ma non subito in direzion Mary: ho fatto un ultimo, disperato, determinato tentativo di trovare una Sim per collegarmi ad internet. In breve ho girato TUTTI i negozietti che portavano l’insegna TM Cell o MTC (compagnia russa) e tutti, pressochè gestiti unicamente da bambini sotto ai 14 anni, mi hanno detto che loro non potevano vendermi nulla, e dovevo andare nel tal posto. Che non è a fanculo ma all’ufficio poste e telegrafi; me lo ha spiegato con un disegnetto l’ultimo negoziante a cui mi sono rivolta. Giunta al grande edificio bianco, mi son trovata difronte la classica fila di pensionati alle poste, che è una roba proprio internazionale. Probabilmente loro sono lì dal 1978 e non sanno che l’Urss è crollata.



Dopo lunga attesa, giunto il mio turno, mi son trovata difronte l’ennesima gentile e sorridente impiegata che per l’ennesima volta mi ha detto che agli stranieri col cazzo che vendiamo le Sim, solo ad Ashgabat nei giorni pari degli anni bisestili quando si allineano i pianeti. E allora vaffanculo.
Per tornare sulla strada principale abbiamo percorso le vie interne del paese, e mi è parso di essere tornata in un villaggio bielorusso o della Russia rurale: identico asfalto distrutto e sabbia ovunque, pali della luce in cemento e storti, vecchie Lada scorreggianti e case cadenti in cui si intravedono molti tappeti. Pochi negozi. E’ un classico qui in Turkmenistan. Non ci sono negozi, né attività. Palazzoni, nelle città grandi. Case e casine in periferia e nei villaggi, ma poche e nascoste. Dukan (negozio, ma anche du can e quater gat tanto che son vuoti e deserti) nada. La gente non mangia, non beve, non si lava, non si veste, evidentemente. O meglio, a procurare il necessario ci pensano le caciarone signore che smerciano fiumi di sapone ed ettolitri di Coca cola dall’Iran, come s’è visto in frontiera. Strano paese, comunque.







Strana anche la moschea color ocra che vediamo da lontano, assai diversa da quelle persiane di maioliche azzurre e cupole d’oro e fiori. Questa sembra un castello di sabbia, e domina il cimitero, che però fiorisce qui di mezzelune, qui di croci. A breve distanza c’è infatti una chiesa ortodossa, la prima che vedo da che son partita; sarà lascito dei russi, ovviamente.



Abbiamo visto farsi piccola alle spalle Tejen, i suoi nuovi quartieri di case tutte uguali (mi immagino il temino delle elementari: descrivi la tua abitazione, e la noia della maestra che ne legge 50 identici) e i cammelli nei giardini dei palazzi. E i cammelli anche in strada, condotti però, stavolta, dal cammelliere che chiude la fila dopo i cuccioli dal pelo lungo e riccio.















Poi di nuovo deserto erboso e campi e frutteti, chè il Turkmenistan non offre gran varietà di paesaggi; interrompono la monotonia le “melonere” (mi fa molto ridere questa parola per indicare la testa) gestite da curiosi individui e alcune stazioni di servizio, diciamo così, dove si trovano bimbi e cani e strani merli dalle zampe lunghe, divani, teiere e molto crotto. Perché qui è tutto più crotto dell’Iran, è russian style, na ulitsa. Infatti puoi scegliere tra la tyalet senza porte e presidiata da cane rognoso, o quella dove stai in bilico sulla buca colma di liquami grazie a traballanti assi che possono spezzarsi da un minuti all’altro e farti cadere nel mucchio maleodorante che Boccaccio levati.
In una di queste stazioni di posta Raymond decide di non bere il solito litrone di Coca cola ma una birra. Solo che qui non è l’Iran e la birra è vera birra, anzi, è russeggiante. Sicchè la bretoniera macina mezzo litro di bira con il 12% di alcool, e poi ride ride e ride come di solito non fa, chè è un uomo terribilimente serio.









Si riparte e il paesaggio diventa più verde, e ci sono pure molte fattorie con il fieno steso al sole ad asciugare. Si vende “bal” per la strada. Sappiamo che in pochi kilometri dovremmo trovare un lago artificiale, che raccoglie acqua per i vari canali che si diramano in tutta la regione; appena giunti in prossimità ci fermiamo per il pranzo (anche perché io sto parecchio male e mi sento come quel generale dei Bianchi che, sul Bajkal, in fuga dalle armate bolscviche, malato da morire, guidò truppe e famiglie per giorni con la febbre altissima facendosi legare al cavallo, poiché non riusciva a star su altrimenti). Ci fermiamo in una grossa area di sorta fornita di vari edifici e un ristorante, dove Raymond magna al solito e ci godiamo il fresco. Ci sono anche alcune tende tradizionali, ovviamente qui ricostruite ad uso turistico, ma se ne vedono alcune fuori, vicino ai campi eal bordo delle dune; sono come ger o yurte mongole, ma di legno. Ci raggiunge poi un signore ciarliero con i denti tutti d’oro (qui va molto di moda) che parla bene inglese e attacca bottone. Poi ci congediamo e ci riraggiunge e attacca bottone di nuovo. Dice che sua madre insegna tedesco e a lui piace prèctish inlglish con gli stranieri ma spesso gli stranieri lo allontanano. Eh, chissà perché. Poi ci dice che gli piacerebbe visitare altri stati ma ha problemi economici e ci chiede cosa significhi l’espressione gergale “I’m brown”, che ha sentito in molti telefilm indiani. In effetti qui la produzione di Bollywood va alla grandona, seconda solo a quella russa (più per clip musicali, documentari e tg).











Riusciamo a scollarci e ripartiamo.
Io sto tra il male e il molto male e per di più si alza un vento contrario che rende difficile persino guardare avanti, e non nel senso metaforico del termine, perché il vento alza la sabbia che scartavetra gli occhi. Ora capisco come mai qui tutti, dai motociclisti ai lavoratori, indossano fazzolletti tutt’intorno al viso, lasciando scoperto sulo un filo di sguardo! La sabbia corre a terra e si muove sinuosa come un serpente, e invade l’aria.
Passiamo il canale e ci inoltriamo in una zona di dune coperte di cespugli. E’ la foresta dei gerbilli! Si vedono infatti correre, dal bordo della carreggiata alle tane nascoste nella sabbia, decine di questi animalini simpaticissimi,spaventati dalle nostre ombre. Sono a metà tra lo scoiattolo e il suricate, soprattutto quando stanno ritti sulle zampe posteriori a scrutare intorno. I suricattoli.
Li si vede solo quando corrono perché sono color sabbia, con qualche striscia più scura sulla schiena. La codina è corta ma pelosa come quella degli squirelli. Sono TROPPO carini! E son cugini dell’animale più bello del mondo, il furpe.











Io fatico a proseguire. Facciamo una breve sosta in una zona d’ombra, dotata anche di cane e asino curiosi, dove mangiamo dei datteri per consolarci. Penso di non riuscire ad arrivare a Mary: non sto bene, c’è vento, fa troppo caldo e sono un totale di 150km.




Ripartiamo con l’idea di campeggiare appena tramonta il sole. Passiamo una tomba musulmana di chissà chi, lasciata lì così nel deserto, e ci superano molti trattori con i rimorchi colmi di fieno. Qui è già pronto. Poi passa anche un furgoncino dei gelati e Raymond fa la battuta: “Fermatevi! Dateci un gelato!”. La cosa assurda è che, qualche centinaio di metri più avanti, davvero il furgone si ferma e i due uomini che ne scendono si presentano e ci cacciano in mano dei gelati. Dopo poco, senza troppe domande, se ne vanno e noi ci gustiamo la seconda merenda piovuta all’improvviso. E diventiamo il nuovo paradosso di Zenone: come è possibile che due ciclisti, in mezzo al deserto, a 50km da qualunque cosa umana, mangino del gelato non sciolto? Per altro è di marca Merw, il nome dell’antica città-oasi, ricchissima sosta di mercanti e carovane, che sorge a pochi km da Mary. E’ un segno.










Dopo il gelato mi sento molto meglio. Riesco a pedalare e non solo a stare in equilibrio più o meno sulla sella. Ci muoviamo spediti e mentre il sole cala anche il vento e il caldo mollano la presa; iniziamo a vedere più campi e più fattorie, una stazione e curiosi edifici. La città si avvicina. Ci sono cammelli e yurte dei pastori. Forse non serve campeggiare! Mentre la luna sale raggiungiamo la periferia della città, dove ci sono i grandi mercati agricoli e le casette viola e ocra; poi il nome tanto atteso: Mary! Finalmente! Ci siamo arrivati davvero!



























Cerchiamo un motel fuori città ma non ce ne sono. Intanto si fa buio. Ci avviciniamo al centro e chiediamo spesso indicazioni per un hotel: tutti ci indicano la stessa direzione. Alla fine, sono ormai le 21 passate, ed è buio del tutto, fermo due signore che mi dicono che da lì abbiamo due opzioni, una gastinitsa cheap o un hotel balshoi molto costoso. Decido io: hotel costoso. Che se devo farmi una notte sul cesso ancora che sia almeno un cesso come si deve. In effetti, tra palazzoni illuminati a giorni e statue d’oro del presidente, giungiamo al Mary Hotel, il più lussuoso albergo della città, dove si paga solo in dollari (possono farlo, sti stronzi: non accettano i manat perché se riescono a spillarti i verdoni pagano meno tasse e la legge li copre). C’è la wifi ma tutti i siti sono oscurati e pure le vpn non funzionano. Però c’è il bollitore in camera, dei letti comodi e un bagno a modino.





Sono distrutta. Ho alcune fette di gambe così ustionate dal sole da essere gonfie e piene di bolle, oltrechè rosse. Le piante dei piedi e delle mani completamente infiammate. La febbre. Dopo la doccia va un poco meglio ma siamo così cotti che preferiamo non andare al ristorante ma farci la pasta in camera, con il fornello sul tavolino e il rischio di dar fuoco a tutto. Faccio fatica persino a masticare ma dopocena va un poco meglio. Mando due email perché il silenzio è troppo pesante, in questi giorni faticosi, e casa mi manca. Mi manca una persona. Capita, quando si sta lontani per molto o per poco. Mi manca e mi addormento pensandoci, nel letto pulito e morbido, dopo tanta fatica, finalmente a sognare le stelline e i cieli color occhi belli.


27/7/18

Oggi, se dio vuole, inshallah, non si è pedalato.








In 3 giorni abbiamo percorso 400km in bici, 20 in bus, e al confine ne mancano 220. Abbiamo però un giorno solo, perché dopodomani, il 5 giorno di permanenza in Turkmenistan, dobbiamo lasciare il paese entro la mattina. Le formalità di confine sono troppo complesse e le lungaggini impreviste possono seriamente esporci a rischi con la polizia. Gli uffici chiudono sempre presto. Preferiamo non giocarcela. Decidiamo così di prendere un mezzo per portarci in giornata a Turkmenabat, a 200km da Mary, che è l’ultima città grande prima del confine meridionale con l’Uzbekistan, quello di Farab-Olot. Io, tra l’altro, mi sveglio storta e dopo la colazione inizio a star male di nuovo. Non riuscirei comunque a passare in sella la giornata. Decidiamo così di chiedere in hotel quali siano le migliori soluzioni per andare a Turkmenabat e, scartato il bus che è solo prestissimo e scartato il treno che ci mette troppo, optiamo per il taxi. Ci dicono costi 200 manat (13 euro), che poi diventano 350 e poi 400 perché mannaggia le bici ehhhhh serve un van e costa di più. Chiediamo la corsa per 12.30 e approfittiamo del tempo libero per visitare il centro di Mary. Come sempre ci sono solo grandi viali deserti e palazzoni governativi immensi e bianchissimi, chiusi, vuoti. Qui si aggiunge anche una grande moschea dove provo l’ebbrezza del vestirmi come un sant’uomo turkmeno. Uomo, sì, chè da fuori l’Iran me ne batto grandemente le palle e fingo di essere un maschio, alla bisogna. Tanto qui capelli corti = uomo.
L'attuale città fu fondata nel 1884, nell'allora territorio dell'Emirato dell'Afghanistan, dopo l'occupazione dell'antica Merv da parte dell'Esercito imperiale russo, prefazione dell'incidente di Panjdeh.
La contesa si concluse con l'annessione del territorio all'Impero russo e la città, a 30 km da Merv, divenne un centro amministrativo e militare. La città è oggi un centro industriale la cui economia è basata sull'estrazione di gas naturale e sulla trasformazione del cotone.












































Sono proprio città assurde. Non sono costruite per farci vivere al meglio la gente e per offrire servizi. Se vuoi un gelato o una bottiglia d’acqua devi spararti 10km a piedi. Sono città costruite per sfoggiare ricchezza (inesistente) e potere (ridicolo) da parte del presidente-divinità e della sua cricca. Le foto dell’ineffabile sono, come al solito, ovunque, e come al solito c’è il divieto di fotografare.





Rientriamo in hotel e io a questo punto sto proprio male di nausea e febbre. Arriva il taxi, che è una macchina grande, mica un van. Carichiamo tutto a fatica, me stessa compresa, e chiediamo mille volte il prezzo. Mille volte ci viene risposto, anche per iscritto, 400 manat. Poco. Bene, partiamo.


Della corsa ricordo poco perché ho dormito tutto il tempo, cotta e rincoglionita dal malessere. Ogni volta che aprivo gli occhi il paesaggio era sempre identico, così.
Ci ha fermati la polizia per un controllo al veicolo. Abbiamo visto un cicloturista arrancare nella sabbia e nel vento e ci siamo rivisti nella pena, come dice Ungaretti.
Poi la strada è diventata un colabrodo di buche e l’autista si è dovuto più volte per fermare per controllare di non aver sfasciato l’auto.




Si arriva, finalmente, a Turkmenabat. Veniamo parcheggianti difronte ad un altro hotel lussuoso.







Tiriamo giù tutto e paghiamo i 400 manat. Il taxista dice no no, 800! Inizia così una lunga diatriba, di un’ora e mezza, UN’ORA E MEZZA di discussione, per lo più al telefono con i tizi dell’hotel, in cui tutti tentano di percularci e dirci che siamo noi ad aver capito male. Una stronza, la stessa a cui abbiamo chiesto al mattino, ci dice che 400 era la macchina piccola e 800 il van, quando in due abbiamo sentito prezzi dimezzati poche ore prima. Un tizio, sempre al telefono, osa persino dire che non sono 400 manat ma dollari. E che è, New York? Qui un ostello, sgrauso ok, ma è quel che c’è, costa 10 manat. Meno di un euro. Mangiare al ristornte due portate e bevande incluse non porta a superare i 2 euro. 400 dollari? E così tutti quelli con cui parlo, mentre il taxista se la ghigna con la receptionist del nuovo hotel. Alla fine mi incazzo, sbrotto nel peggio inglese da camionista di Belfast e ottengo di pagare solo 400 manat. Dopo un’ora e mezza di sudata e litigio. Ma vaffanculo va’. Al telefono coninuavo a dire che se vogliono rubare almeno lo facciano bene e senza farsi notare, o che dicano che vogliono inculare gli stranieri, ma che non pensino di tirarci scemi, perché siamo molte cose ma scemi proprio no. Ho dato loro dei disonesti e dei ladri. Penso di aver un pochetto rischiato, ma amen. Alla fine ero nella ragione! Così l’auista se ne è andato, scornato. Mi spiace per lui, magari aveva pure ragione a chieder quella cifra, ma se la prenda con l’hotel.
Viene poi il “problema” di prendere la nuova stanza. Anche qui vogliono esser pagati solo in dollari e noi abbiamo troppi manat, chè a parte i due hotel, in due, in quattro giorni, s’è speso l’equivalante di 50 euro. Ci proviamo e parte un altro teatrino, che si conclude con Raymond che tira fuori i dollars e io che intanti dico ad una delle receptionist che hanno delle belle leggi di merda per pelare gli stranieri, ma sappiano che così facendo la gente la ciuli una volta e basta. E chi ci torna qui? La donna sorride sorniona e ringrazia, troione da battaglia di un paese del cazzo, ma s’è mai visto che la valuta ufficiale vien rifiutata e la legge lo consente? Avremo un bel daffare domani a cambiare i 250 euro di manat che abbiamo in giro. Per altro l’hotel, che costa 30 dollari a testa a notte (cifrone per qui) e ha 4 stelle, non ha: asciugamani, sapone, wifi, bar-caffè. Il minifrigo in stanza è staccato e se vuoi dell’acqua che non sia infestata dei peggio batteri devi scendere nella halle pagare ulteriormente ogni bottiglia che prendi. Se hai fame ti attacchi a questa grandissima ciolla. Chiediamo che alla sera è possibile cenare e continuano a dirci che la colazione è alle 7. Grazie, graziella e grazie al cazzo, come dice Raymond, cui ho insegnato le cose importanti della lingua del sì. Ci dicono poi che c’è il ristorante e che si può pagare in manat.
Quel che resta del pomeriggio trascorre per me in un lungo sonno da sfebbro post tachipirina. Mi sveglio e sto meglio, ho quasi fame!
Ale 20 scopriamo che invero il ristorante dell’albergo è chiuso e non servono la cena. Eh be’, ovvio. Che discorsi. Ci dicono che ne possiamo trovare uno subito fuori. Che significa a 2km, ma lo scopriamo andando. Percorriamo così l’unico vialone, deserto e silenzioso come sempre, di Turkmenabat. Anche qui grandi palazzi bianchi del governo, grandi bandiere e grandi foto del mr president che d*o se l’inculi. Sono un pelino irritata da questa nazione, si vede?




Troviamo finalmente il ristornte che in realtà è un kebab take away; scopriamo che i piatti sono all’80% quelli turchi classici (dal kebab al riso alla pide al lamachun alla ciorba, la zuppa), poi ci sono la pizza e i russissimi pelmeni, oltre ad altre cose che non cosco e saran turkmene veraci. Ordiniamo X e ci portano Y ma siamo ormai abituati e non stiamo nemmeno a questionare. Il cibo è buono e tanto basta. Rientriamo in hotel e al coprifuoco manca ormai poco. Alle 23 le porte degli alberghi vengono chiuse e chi è dentro, bene, chi è fuori ciaone. E si spengono le luci e insomma, devi dormire. O percorrere corridoio parlando da solo con la berretta di lana e la teierina in mano.
Se dio vuole, inshallah, domani usciamo di qui e arriviamo in Uzbekistan. Ho aspettative non alte, altissime. Dopo la repubblica islamica e la dittatura, forse ce la facciamo a vedere un paese NORMALE. Fatto per le persone, e non per un dio, né per un uomo che si crede tale. Né per gioco.
In due giorni arriveremo a Bukhara, antica e splendida capitale, dove faremo sosta. Dovrei tornare ad avere internet. Ad avere dei cessi normali. A non avere lo sguaro anche solo a guardare acqua e cibo. Speriamo. Intanto mr shitty president vi saluta. Ciaone!




Concludo con una parentesi storico politica. Se in quel che ho scrittosopra qualcosa non è chiaro, qui ci sono tutte le spieghe wikipedanti

STORIA


Il territorio corrispondente all'odierno Turkmenistan è stato abitato fin dall'antichità dalle tribù dei Turkmeni, probabilmente provenienti dai Monti Altai. I primi insediamenti umani nell'area sono databili tra il 7000 e il 5000 a.C.
Il territorio fu in seguito conquistato da numerose diverse civilizzazioni. I persiani achemenidi conquistarono il territorio nel VI secolo a.C., Alessandro Magno occupò il Turkmenistan nel IV secolo a.C. Dopo circa 150 anni il controllo macedone finì e nella regione nacque nel 247 a.C. l'Impero partico, la cui capitale fu stabilita a Nisa, a 25 km dalla moderna capitale Aşgabat.
Durante questo periodo il Turkmenistan assunse importanza come tappa della via della seta, la principale via per gli scambi commerciali tra Asia ed Europa.
L'Impero partico cadde tra il 224 e il 228, seguito dalla dominazione dei Sasanidi (III secolo) e successivamente degli Eftaliti (V secolo) quando il cristianesimo divenne la religione predominante.
La regione passò poi agli Arabi e fu islamizzata nel VII secolo. La dominazione araba durò fino al IX secolo, seguita da diverse dinastie locali (Tahiridi, Samanidi, Ghaznavidi) fino all'XI secolo, in cui l'area diventò parte dello sterminato impero dei sultani turchi selgiuchidi. Nel XII secolo nacque nell'area il regno del Khwārizm (antica Corasmia), che entrò in guerra con i mongoli di Gengis Khan nel XIII secolo. I mongoli dominarono l'area per circa 150 anni. In seguito il conquistatore Tamerlano prese il controllo dell'area verso la fine del XIV secolo. Nel corso del XV secolo tribù turcomanne appartenenti ai clan dei Qara Qoyunlu ("Montone nero") e degli Aq Qoyunlu ("Montone bianco") si disputarono il controllo dei territori della Persia stabilendovi un durevole dominio che avrà termine solo con l'avvento della dinastia dei Safavidi.
Dal XVI secolo in poi il territorio turcomanno fu prevalentemente controllato dal Khanato di Khiva, che fu spesso in dispute territoriali con il vicino Khanato di Bukhara a prevalenza uzbeka. Dopo varie vicende, nel XIX secolo la Russia pose sotto il proprio controllo i due khanati che divennero in un primo tempo stati vassalli dello Zar. In seguito, nel 1865, la Russia assunse il pieno controllo di questi territori creando una amministrazione speciale per il Turkestan, ovvero i territori centro-asiatici dell'impero popolati da etnie turche. Le tribù nomadi turkmene del deserto opposero una fiera resistenza all'occupazione russa ma nel 1885 dovettero soccombere come già avevano fatto i khanati locali. Dopo la Rivoluzione russa del 1917, il Turkmenistan divenne una delle repubbliche dell'Unione Sovietica (RSS Turkmena) nel 1924. Nel 1929 fu adottato l'alfabeto latino per la lingua turkmena sotto influenza della Turchia di Ataturk, ma Stalin re-impose il cirillico nel 1938. Il crollo dell'Unione Sovietica del 1991 diede la possibilità al Turkmenistan di ottenere l'indipendenza e tra le prime modifiche simboliche vi fu il ritorno all'uso dell'alfabeto latino usato dai popoli turchi. 

POLITICA
Il Turkmenistan è una repubblica presidenziale. Dopo il crollo dell'URSS e la conseguente indipendenza del paese, il potere fu preso dall'ex capo locale del sistema sovietico Saparmyrat Nyýazow, che ha detenuto la carica vitalizia di Presidente assoluto (Turkmenbashi, Padre dei Turkmeni) fino alla sua morte, avvenuta per infarto il 21 dicembre 2006.
La dittatura di Niyazow è stata caratterizzata da un'impronta peculiarmente filosofica, basata sul Ruhnama, il Libro d'Oro, ove Niyazow scrisse le proprie teorie filosofiche e politiche, il cui studio è obbligatorio per accedere a qualsivoglia carica pubblica. In base a detti precetti, il popolo turcomanno deve preservare al massimo i propri costumi da eventuali corruzioni esterne. Da ciò derivano le leggi che vietano le acconciature di capelli e barbe non tipiche del Turkmenistan, le norme che vietano la diffusione di musiche e libri non turkmeni (tra cui l'opera lirica) e tante altre prescrizioni specifiche.
Il culto della personalità del Presidente è stato coltivato in modo massiccio, attraverso varie iniziative pubbliche. Tra queste: la costruzione in ogni città del Paese di statue d'oro raffiguranti il capo che indica il sole (attraverso congegni ad orologeria le statue sono in grado di seguire i movimenti solari); la modifica del calendario utilizzando nuovi nomi per giorni e mesi, tratti dai nomi della famiglia e della corte del Presidente; la diffusione capillare e iperbolica di immagini raffiguranti il Capo; l'esaltazione dei concetti di famiglia e clan del Presidente, anche attraverso l'inaugurazione di una politica matrimoniale (matrimoni d'alleanza) tra famiglie di alto rango dell'area.
Il 26 dicembre 2006 il Consiglio del Popolo del Turkmenistan annunciò in un primo tempo che a Nyýazow sarebbe succeduto Durdy Durdyýew, allora vice ministro dello sport e del turismo, ma successivamente la nomina andò a Muhammetnazar Gurbanow, che l'11 febbraio 2007 fu sostituito da Gurbanguly Berdimuhammedow, che da allora è il nuovo Presidente.
Berdimuhammedow fissò nuove elezioni invitando gli oppositori politici in esilio a rientrare in patria. Le elezioni presidenziali si tennero il 12 febbraio 2012.
A dicembre del 2013 si tennero le prime elezioni parlamentari multi-partitiche, facendo terminare così i circa 21 anni di monopartitismo da quando il Turkmenistan è indipendente.

LINGUE E DIALETTI

La lingua ufficiale è il turkmeno (lingua altaica "turco meridionale"), parlato come unica lingua dal 72% degli abitanti, mentre il russo è riconosciuto nella costituzione come lingua per la comunicazione tra diversi gruppi etnici. Quindi la lingua russa è molto conosciuta all'interno del paese, ed è da considerarsi la seconda, anche se non ufficiale, dopo il turkmeno. L'uzbeko è parlato abbastanza correntemente dalla comunità locale proveniente dall'Uzbekistan, ma anche presso altre popolazioni che abitano il paese. Altri idiomi sono correntemente parlati dal 7% degli abitanti.

RELIGIONE

Attualmente nel Turkmenistan restano pochi cristiani, che erano la maggioranza ai tempi dell'Impero sasanide quando l'antica capitale Merv era centro del manicheismo e del cristianesimo nestoriano. Infatti la minoranza religiosa più consistente è quella cristiana ortodossa, della quale fa parte soprattutto la componente russa del Turkmenistan.
L'Islam è la religione più praticata dai turkmeni, in maggioranza sunniti. Non mancano consistenti comunità sciite, ma questo non ha creato tensioni sociali fra le due diverse dottrine islamiche.
Avdy Kuliyev, primo Ministro degli esteri del paese, ha detto che il Turkmenbashi Saparmyrat Nyyazow avrebbe permesso ai musulmani di praticare la loro religione solo se questo avesse compreso il suo culto della personalità. Kuliyev ha aggiunto che i turkmeni non sono molto religiosi, ma che lo sarebbero diventati grazie alle politiche di Nyyazow stesso. In effetti, l'Islam non viene sempre praticato nella sua forma originale: ciò è dovuto alla repressione durante l'era sovietica. Difficilmente tra i turkmeni si trova chi abbia letto interamente il Corano, o adotti le pratiche islamiche nella sua vita di tutti i giorni in maniera ossequiosa. Infatti sul substrato islamico si è aggiunta, dopo la lunga stagione sovietica, la nuova filosofia di vita, basata sul culto della personalità del presidente, creata da Nyiazow. pertanto, più che il Corano è il Ruhnama il libro spirituale dei turkmeni. Forse anche per questo il Turkmenistan appare meno esposto, rispetto ad altri paesi vicini come il Kazakistan, al rischio della diffusione del fondamentalismo islamico.
Segue la composizione religiosa del paese:
Altro 2%

LETTERATURA

Storicamente le letteratura turkmena si inserisce nel più vasto alveo delle letterature in lingue turche del ceppo oghuz, di cui la più famosa fu senza dubbio la letteratura in turco ottomana, ampiamente influenzate da generi e stili della letteratura persiana. Perciò scrittori e poeti di etnia turkmena sin dal Medioevo si espressero prevalentemente in una di queste due lingue dalla grande tradizione letteraria, ossia il persiano e il turco ottomano. Al XV secolo risale probabilmente la prima redazione scritta di una grande saga epica in prosa: il Dede Korkut, che circolava oralmente da almeno due secoli, rivendicata peraltro come epos nazionale anche dagli attuali azeri e dai turchi della repubblica turca. Il XVIII secolo è dominato dalla figura del poeta-filosofo Magtymguly Pyragy, leader spirituale turkmeno. Comunque solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, con l'aumento dell'influenza europea (russa e francese soprattutto), si avrà gradualmente un processo di acquisizione-formazione identitaria che porterà alla creazione della moderna letteratura nazionale turkmena, processo che si consoliderà e giungerà a piena maturazione nel successivo periodo sovietico.
Con la costituzione della Repubblica Socialista Sovietica del Turkmenistan si avrà il passaggio dall'alfabeto arabo all'alfabeto cirillico, e non pochi scrittori adotteranno il russo o saranno bilingui. Nel 1929 fu adottato ufficialmente l'alfabeto latino, ma dal 1938 fino al 1991 fu reinserito il cirillico.
A livello estetico e tematico, la letteratura turkmena di epoca sovietica si troverà ampiamente sintonizzata con i dettami del "realismo socialista". Con la recentemente riacquistata indipendenza, dopo la caduta dell'URSS, si sono messe in moto altre complesse dinamiche di distanziamento dalla cultura russa e di contemporaneo rinsaldamento del legame con la tradizione letteraria turco-ottomana persiana e islamica da un lato, e con il patrimonio folklorico-culturale panturco dall'altro. Il passaggio all'indipendenza non ha invece significato maggior libertà di espressione per gli scrittori come prova emblematicamente il caso del noto romanziere Rahim Esenov (n. 1927), arrestato e ancora alle prese con gli strali della censura per un suo romanzo storico (The crowned Wanderer, scritto nel 1994, ambientato nel XVI secolo) sgradito alle autorità. Dal 1991 viene usato solo l'alfabeto latino, con alcune modificazioni.

CULTO DELLA PERSONALITA' DI NYYAZOW E RUHNAMA

Nel 2001, nel contesto del culto della personalità del presidente turkmeno Saparmyrat Nyýazow si afferma un libro, scritto dallo stesso presidente Nyýazow, dal titolo Ruhnama (il libro dell'anima): in due volumi, si caratterizza per una visione della vita e della storia, anche turkmena, vista dallo stesso Nyýazow : per lungo tempo il libro sacro dei turkmeni, lo è stato in un certo senso anche dopo la morte di Nyýazow.


1 commento:

  1. TURKMENISTAN
    Ecco qua il Turkmenistan,
    ma che nome proprio stran!:
    “Il confine adesso passo
    ma vuoi mettere con Chiasso?”
    Cinque giorni duri assai
    e speriamo senza guai,
    “Documenti ce li avete?”
    “Certo!” in coro rispondete,
    “perlomeno in Consolato
    così ci hanno assicurato…”
    Forza allora, circolare,
    tanta strada c’è da fare,
    “Cento al giorno? No, di più!”
    Porca vacca, un bel menù...


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