18/7/18 (palindroma!)
Globalizzazione è avere il 3G nel
deserto, mentre mangio pasta tonno e sabbia, perché il vento ancora ulula e
azzanna e solleva la polvere dell’universo.
Da tutto il giorno è così, Eolo
maledetto che non vuole si lasci l’Iran e ci soffia contro con tutta la forza
che ha.
Questa notte sbattevano porte e
finestre e si sentivano gli alberi gemere ad Eshq Abad, dove abbiamo dormito
nella Madrasa; e temevo una giornata di vento contrario e temibile, come in
effetti è stato. Lo dimostrano le mie gambe, stanche e sfibrate, più dure del
legno per lo sforzo continuo, e i miei occhi, completamente riarsi,
asciuttissimi. Come si suol dire, non ho più lacrime per piangere.
Tuttavia è stata anche una
giornata bellissima e piena di incontri indimenticabili, che son valsi la pena
di arrancare per 97km trascinandoci dietro il peso dei bagagli e dei ricordi.
Questa mattina Reza, il custode
della scuola che ci ha ospitati, si è presentato alle 8 come concordato. Oltre
alle solite foto di rito, ha pure dato a ciascuno un fogliettino coni suoi
contatti, scritto in un tremolante e insicuro alfabeto latino. E pane, grande,
e un sacchetto di uova. Il Puill, pure essendo francese, non conosceva gli
ovetti di quaglia e pensava fossero di cioccolato. Poi ha creduto che fossero
tutti bolliti e si è aperto un ovone facendo un casino importante, risolto poi
con una slurpata di uovo crudo.
S’è naturalemnte deciso di
mollare le uova lì, nascoste nello straccio del pane. Siamo dunque ripartiti e
subito controvento. Prima sosta per fare scorta d’acqua, di nuovo alla stazione
di servizio di ieri sera, dove Reza era venuto a prenderci. Non facciamo in
tempo a ripartire che il buon Reza ci raggiunge in auto: avete dimenticato le
uova! E ce le porge dal finestrino. Mannaggia! Una borsa colma di uova crude da
trasportare nel deserto… Già immagino la frittata terribile. Ma Raymond prende
i suoi ovetti e li imbosca in una borsa.
Ripartiamo, ma di lì a poco si
sosta di nuovo. Il Puill vuole riempire la sua sacca d’acqua e approfittiamo di
una moschea, dove anche altri riposano con una nuova concezione di camper.
Poi via davvero, a rilento, nel
vento orribile. Folate continue, in faccia e di lato, cattive, tese come
frustate, impediscono di superare i 10km/h; e per fortuna, in due, ci si può
dare il cambio a tirare il carretto, mentre l’altro nella scia riposa un poco
le gambe e la schiena. Ma si fatica da beste comunque e mi partono bestemmie
sincretiche che non escludon nessun dio, tanto più che qui c’è l’imbarazzo
della scelta. Diventerò come l’anonimo che nelle stazioni di Milano e provincia
ha scritto sui muri blasfemie fini come “Baal culo”.
Nella fatica atroce, che sfuma la
vista e rende opaco lo sguardo, ad un tratto alzo gli occhi e… Cammelli! Ma per
davvero! Non disegnati né morti! In effetti a poca distanza si eran viste delle
impronte nella sabbia, come acutamente notato dal nostro esperto dott. Puill.
Cammelli per davvero, o dromedari, visto che hanno una gobba sola. Prima
lontani, sagomine dalle lunghe zampe, e poi da vicino, con i loro occhioni
cigliuti e buoni, si lasciano fotografare. Sono 8 e pare siano un branco,
poiché quando ci avviciamo troppo si riuniscono tutti, abbandonando i radi
cespugli che stavano brucando, e lentamente si allontanano. Che bello però.
Finalmente li ho visti, i cammelli persiani che vivono liberi nel deserto! Ed è
stato un incontro ben fortunato così, in pieno giorno, e a distanza
ravvicinata.
Ripartiamo, ed ho trovo una forza
nuova nel pedalare; che bello viaggiare così, a contatto con la terra e con il
cielo, con la natura e gli animali e gli uomini, a passo lento, senza
disturbare, vicini sempre alle cose. Si a fatica, certo, ma la ricompensa è
enorme.
Così il vento mi sembra meno
furioso, ma è solo un’impressione: lo leggo nel volto di Raymond, che è sfinito
e ha bisogno di fare alcune brevi soste per riprendere fiato. Vediamo un
cartello che indica a circa 45km dalla partenza una stazione di prono soccorso:
puntiamo a quella, tanto ci vorrà l’intera mattina per arrivare e sarà un buon
punto d’appoggio per trovare acqua e magari pure un giaciglio e del cibo.
L’altra volta è stato così e noi siamo animali che apprendono in fretta e
s’adattano presto all’ambiente.
Così, con sforzi immani e sempre
meno energie, proseguiamo. Per fortuna almeno non fa troppo caldo: il vento ha
almeno un aspetto positivo. In lontananza vediamo le bandierine bianche del
pronto soccorso, finalmente! E man mano avvicinandoci vediamo che non solo c’è
il centro medico, ma anche un piccolo villaggio di fango e paglia, che pare
abbandonato, ma non lo è.
Bussiamo e, come sempre, veniamo
accolti con grandi sorrisi e una gentilezza mai falsa. I due infermieri di
turno ci fanno accomodare e ci offrono anguria dolcissima (io AMO l’anguria, è
il frutto definitivo, e quando ne tagli una fetta ti sorride aperta) e tè; poi
un altro tè. Poi foto e qualche parola: il più chiacchierone dei due mi mostra
la foto del figlio di un anno e mi dice che lui ne ha 31. Di me vuole sapere
tutto e così passa il tempo, tanto più che rifocillati e rinfrescati da una
quasi doccia potremmo restar lì nelle mollezze dei tappeti e delle piume come
satrapi per giorni. Ci raggiunge inatnto una donna di circa 50 anni che credo
sia la madre dell’infermiere.
Non facciamo in tempo a salutare
che subito veniamo invitati a pranzo a casa sua, che è proprio accanto agli
ambulaori. Come rifiutare? Quella che da fuori sembra un’abitazione
abbandonata, antichissima, dentro è invece una bella casa accogliente, con
tappeti e cuscini, una tv sempre accesa ma a basso volume e una cucina da cui esce
profumo di cibo. Ad apririci la porta è la nonna, vera padrona di casa. Ci
stringe la mano perché lei ha vissuto gran parte della sua vita ben prima della
Rivoluzione e delle regole dei mullah se ne batte. Ha la schiena che è un
angolo retto preciso, ma guarda sempre dritti negli occhi, mai dal basso in
alto; poi si siede e si corica. Fa segno con le mani che lei ha 100 anni; sarà
l’aria secca che conserva bene, come per le mummie d’Egitto… Il volto e la
pelle paiono molto più giovani. Chissà quanti anni ha davvero la nonna. Magari
ne ha 40 portati benino. Però ha un carisma e una calma che emanano tutto
intorno. Gliene fotte talmente sega che dopo cinque minuti si sdraia e russa.
veniamo raggiunti da un bambino che non so chi sia, figlio o fratellino, fatto
è che gioca un po’ con il cellulare (benchè credo sia l’unico lusso di cui
goda, in questo paese senza nome fatto di fango in mezzo alla sabbia) e poi
cade secco addormentato lui pure. Veniamo più volte invitati a fare lo stesso:
qui, nelle ore calde, si usa così. Si dorme. Si porta il corpo al consumo
minimo. Dopo qualche conto di strade e kilometri, il fresco che entra dalla
finestra, dotata di bentilatorone refrigerato, i cuscini e i tappeti morbidi ci
inducono a seguire il consiglio. Così ronfiamo noi pure, mentre la signora
prepara il pranzo. Ci sveglia un rumore di stoviglie. E’ pronto! A terra viene
stesa una tovaglia e man mano arrivano pane, insalata (minuscola, ma qui la
verdura è bene raro), un piatto enorme di riso bianco e pollo allo zafferano da
metterci sopra. Iniziamo a mangiare Raymond, io e la donna, poi anche la nonna
si sveglia e reclama la sua razione. Ma con il tè non con l’acqua; perché avrà
pure un secolo, ma mangia come una ventenne. Piano piano, e senza sosta.
Finito il pasto ci sentiamo
abbastanza in forze per ripartire; inoltre non vogliamo disturbare più di
quanto già si sia fatto. Ma prima la signora ci mostra sul cellulare le foto di
molti altri cicloturisti che sono passati da casa sua: un ragazzone tedesco dal
pelo rosso, una giovane svizzera, un gruppo di spagnoli… Insomma, tutti questi
folli europei che vogliono attraversare a pedali il deserto d’estate, perché
han le vacanze mannaggia a loro, si spiaggiano nell’unico luogo umano della
zona, ovvero al pronto soccorso, e da lì vengono poi rimbalzati a lei. Ma pare
contenta. Deve essere piuttosto noioso vivere a decine di kilometri da
qualunque cosa. In tv intanto passano uno spot che invita ad arruolarsi
nell’esercito perché è bello morire da martiri, poi il tuo cadavere sfila tra
fiori e donne piangenti, portato da gente in alta uniforme, e un documentario
sulle donne chine che raccolgono lo zafferano in grandi borse che portano sulla
schiena. Magari anche la nonna è così curva per quello. Tra saluti e mani sul cuore
in segno di ringraziamento, ci viene fornita acqua sufficiente per un
battaglione, di cui molta ghiacciata da freezer. E si riparte. Pure la capretta
sul tetto di una casa ci saluta.
Ed è vento di nuovo. Ma la luce è
diversa, nuova. Ci sono le nuvole! Delle vere nuvole, pure piuttosto grandi.
Non porteranno certo pioggia, ma fanno ombra. E rendono meno surreale l’intero
paesaggio, che da quasi un mese ormai è sempre accecato da una luce che tace
soltanto di notte e per il resto è un grido acutissimo che apre le zolle
riarse. Nuvole, ombra. Allora esistono anche qui, nel deserto! Mi godo i nuovi
colori e la mutata profondità dell’orizzonte, che ora sembra quasi più vero,
tridimensionale, e non uno sfocato foglio sbidito appoggiato sulle pareti del
mondo.
Ci ferma un uomo, che offre acqua
e indicazioni: ai nostri 75km c’è un paese: lì faremo rifornimento d’acqua e
vedremo quanto ancora proseguire. Dovremmo fare 100km al giorno ma con questo
vento pare impossibile. Siamo stanchi e prosciugati e dovremo pure dormire
all’addiaccio, sicchè meglio non esagerare. Tra l’altro la strada sale un
pochino e il vento non molla la presa. Intorno, roccioni. E capre.
Non pare vero alla fine di una
salita di vedere di fronte a noi davvero le case di fango e poi alcuni negozi.
Fino a qui siamo arrivati, fino a qui tutto bene. Siamo distrutti e secchi come
le albicocche disidratate che ci portamo dietro, ma il classico mezzo kg di
yogurt e il litro abbondante di Canada dry, la Coca cola autarchica iraniana,
ci fanno rinvenire. Meno piacevole è invece l’incontro con un poliziotto grosso
in divisa verde, che con malgarbo ci chiede i passaporti. Li sfoglia, li gira e
rigira. Poi ci dice: copy, you here. E sparisce con i nostri preziosi
documenti. Aspettiamo e aspettiamo, temendo fosse un finto agente che ha già
rivenduto sul mercato nero i nostri preziosi passaporti europei. Invece torna,
per fortuna, con un collega. Ci fanno molte domande, anche troppe, estenuanti:
chi siamo, perché siamo lì, perché viaggiamo in bici, in che relazioni siamo. E
via dicendo. Temiamo il peggio, quando invece tutto si risolve in un attimo con
un frettoloso “buon viaggio”. Sarà finito il turno! Meno male, meglio così.
Meno ho a che fare con la polizia più sono contenta. Soprattutto da queste
parti.
Così possiamo ripartire, dopo una
tappa alla moschea per fare rifornimento d’acqua per la notte. Segue la più
sperata e invocata delle discese, verso una vasta pianura che pare il mare. Il
sole scende piano e ci fa lunghe le ombre, mentre ci lasciamo condurre dalla
strada che dolcemente porta più in là. Tanto che alla fine, in questa luce
caramello, fresca ormai, riusciamo pure a portare a casa 97 insperati
kilometri, e ad avvicinarci ad una zona dove i paesi non mancano: sarà facile
domani trovare il necessario per la giornata.
Vediamo un gruppetto di alberi a
bordo strada e decidiamo di fermarci lì per la notte. E’ un luogo riparato.
Sabbia e piccole piante d’anguriette minuscole ci faranno da letto. La luna
intanto è sorta ed è così luminosa da sorridere già prima del buio. E’ a lei
che affido ora le ultime parole, a lei che è un dondolo per due cuori. E la
luna lo sa e per questo sogghigna bonaria
Ah! Ho ricevuto, oggi, grazie ai
maheggi super di Raul, il mio ufficio visti di fiducia, la conferma di poter
transitare in Turkmenistan. Raymond ha ricevuto la sua lettera pochi giorni fa,
quindi non ci sono scuse: il viaggio prosegue a pedali!
IL VIAGGIO DI UN CAVALIERE
RispondiEliminaUn cavaliere dal volto fiero
parlava un giorno col suo scudiero:
“Sei un uomo saggio che molto sa
dove trovare la felicità?”
L’uomo ristette, come rapito
lo sguardo perso nell’infinito.
“Mio cavaliere nobile e forte
tu nella vita cerchi la morte!
Getta la spada, mostra coraggio,
apri il tuo cuore, la vita è un viaggio…”