sabato 14 luglio 2018

16. Macaroni nel deserto e un capostazione gentile. Il cammello e la Signora



13/7/18

Primo giorno di deserto.




Siamo partiti presto, per quanto presto, qui, significhi non prima delle 8.30, che è l’orario di minima per qualunque cosa. Lasciato il bellissimo hotel Kohan con il suo giardino e la sua torre del vento, che è stato come un’oasi per noi truppa cammellata, per noi in viaggio tra deserto e deserto, abbiamo salutato Yazd e le sue case ocra. Siamo usciti dalla città ed abbiamo attraversato quella che pare periferia ma sono invero villaggi tutti vicini, sorti ai lato dello stradone polveroso, già circondato da dune di sabbia, roccioni aridi e qualche complesso industriale che pare produca mattoni. Di sabbia. Infatti non sono rossi ma gialli. Tutto ha senso, o fa senso (come dicono gli inglesi).





Finalmente giungiamo alla diramazione che si getta ad est e conduce prima a Tabas, città da cui passeremo e che sarà la nostra oasi dopo 4 giorni di viaggio nel nulla e 3 notti all’addiaccio, e poi a Mashad, la città santa, dove invece non andremo, perché allungheremmo troppo il percorso e il Turkmenistan ci attende dal 24 luglio.





Presa dunque la 68 E(st), ci siamo subito trovati in mezzo alla sabbia, contenuta all’orizzonte, vicino, da alti monti opachi e tremolanti per il caldo. Il vento, di mattina, è stato piuttosto clemente: contrario sempre ma non violento, non rabbioso; è giusto servito a farci fare un poco più di fatica, ma anche a rinfrescare le ore più torride. Intanto, cartelli loquaci che non portano mucche né cervi, ma cammelli. Attenzione!



















A mezzogiorno, nell’aria infuocata, avevamo già percorso 50km, metà di quelli necessari (dobbiamo farne 100 cotidie, per esse certi di giungere per tempo al confine). S’è così approfittato della solitaria e laconica presenza di una ghiacciaia abbandonata, unica possibile fonte d’ombra. L’interno era troppo profondo per entrare, ahimè, quindi ci siamo dovuti accontentare del filo d’ombra rasente ai muri; mi sono sentita una lucertola, un’entità orizzontale capace di mutar forma per adattarsi ai ripari. Raymond è persino riuscito a bere un litro di tè bollente, accompagnato da ovosodo, pane, marmellata e frutta. Un po’ lo invidio. Io con questo caldo fatico anche a mandar giù la saliva cementizia che mi tura le fauci.











Ho infatti trascorso il tempo della pausa pranzo a tentar di mettere insieme i pezzi di una tazzina che qualcuno, chissà quando, ha rotto proprio lì; magari un’altra anima nomade, magari un camionista sudato, magari un pastore o un ladro in fuga. Chissà. Certo è che un po’ le mie velleità da archeologa, un po’ l’abitudine a comporre puzzle ed enigmi, soprattutto quelli degli uomini-labirinto, un po’ l’uso a rimettere insieme i cocci della mia esistenza esplosa in schegge, mi ha dato un bel passatempo.




Siamo dunque ripartiti, e ad attenderci c’erano le salite e il vento, ora più teso e meno facile da ingannare, come seppe Ulisse. Il paesaggio si è mantenuto simile per oltre 80km: sabbia, monti azzurrognoli, neri e rossi, tremolanti o austeri di muta immobilità intorno. Qualche edifcio abbandonato, a volte, che potrebbe avere 30, 300 o 3000 anni. Qui si costruiscono le cose e le case nello stesso modo e con lo stesso impsto di fango da millenni!






















Finalmente, quando l’acqua della borraccia cominciava ad essere rovente da scottare la lingua (bevo piscio e brodo caldo da che son partita!), siamo arrivati alla prima e unica cittadina prevista per la tappa di oggi, dove fare rifornimento d’acqua: Karanaq. Si tratta in realtà di un paese fantasma, che per questo attira pure alcuni turisti annoiati da Yazd. Ciò fa sì che ci siano una stazione di servizio e un paio di negozietti ronci come il demonio, esposti alla strada e ai fumi dei camion, unti d’unto sasanide o medo, con strati di lercio che possono essere scavati come una città antica sepolta dai secoli. Però hanno i divanoni e il gelato, oltrechè l’acqua ghiacciata (letteralmente, tenuta in freezer) e varie bibite malsane ma fresche come l’ambrosia. Sicchè ho recuperato il mancato pranzo con numero 2 gelati tipo Magnum ma persiano annodato a mano come i tappeti e numero 2 succhi di frutta zuccheratissimi, uno all’arancia e uno al melograno (che qui va assai, anche perché ha il colore del vino e lo spacciano per tale, pure nei calici! Ma chissà davvero quanto mercato nero di alcolici c’è in questa terra di proibizionismo religioso; il Puill si ostina a bere le loro birre analcoliche aromatizzate alla frutta, che sono come un Estathè amaro schiumoso; e fa specie vedere i bambini con le bottiglie di birra in mano… Ma qui non è la Russia!).








Dopo aver fatto ampia scorta d’acqua ed esserci rifocillati e riposati, siamo tornati in sella. Il paesaggio è cambiato bruscamente: non più sabbia ma valloni rocciosi e monti scoscesi, scuri, vicini, dalle forme curiose plasmate dal vento. Tra l’altro, ho letto che questo deserto è salato; in effetti qui ho visto diversi letti aridi di fiumi ormai prosciugati colmi di cristalli bianchi; pare fango, pare schiuma… Invece è sale! E scende. Nel senso che dopo molto salire prima della sosta, è qui finalmente iniziata la discesa; c’è stato comunque da pedalare, beninteso, per il vento sempre più forte. Ma vuoi mettere? Così ci siamo goduti lo spettacolo del paesaggio, davvero straniante per me e nuovo, quasi lunare, il castello incrociato per caso e le piramidi di sabbia a bordo strada. Abbiamo anche incrociato un motociclista tedesco stracarico di bagagli, che ha rallentato, ha alzato la visiera del casco e ha fatto un grande pollicione in su con la mano. Deh, noi il motore lo si ha nelle gambe!


















Dopo questo fugace incontro muto, la discesa è andata a terminare d’improvviso in un nuovo mondo. Dunque è questo davvero il deserto di cui tanto s’è detto. Dunque è questa distesa senza confine, azzurrognola per le distanze, che sembra il mare. E però è un oceano di sabbia e sassi. Dunque è questo il Kavir, questo ciò che ci attende. L’infinito arido su cui il sole splende sempre senza mai chiudere occhio. L’assenza di vita, il vuoto, ciò che non è umano e non lo sarà mai. Ciò che più in assoluto si spalanca come una tomba immensa. Più del “nero mare infruottoso” di Omero, chè almeno lì, nell’acqua salata, c’è vita. Qui invece è ridotta ai minimi termini, insetti, scorpioni, serpenti forse. E nient’altro, se non i minerali sbriciolati dal tempo, che è una macina. Memento homo, sei polvere e polvere ritornerai. E non solo l’uomo, così morbido e fragile, così piccolo. Anche le montagne immense si sfarinano e imparano l’umiltà del grano di sabbia. Quello da cui, dopo la distruzione, più rinascere l’intero universo, come insegna Ende nella Storia infinita (ed io viaggio con l’Auryn al collo, da anni).












Dunque è questo il deserto.
Ma non mi fa paura. Anzi, mi rasserena.Sei tutto qui, deserto? Sei questo panno srotolato color ocra e rosa? Sei questi monti che sfumano nella luce obliqua, sei questa sconfinata sbrisolona? Io ho un segreto nel cuore, ed ha un volto e un nome. E per questo l’orizzonte mi sorride sempre con la sua curva. Perché se che posso andare lontanissima, ma la mia casa e le mie radici sono più lunghe e forti di qualunque distanza. Hey, Kavir, mi senti? Non ho paura! Sei molto bello, e grande, e silenzioso. Piacere, io sono la Volpe a pedali. Lascerò qualche leggera impronta sulla tua schiena rovente e fredda di notte, ma la puoi cancellare, Kavir: sarò a portarmi a casa il peso dolce di questo ricordo.
All’ennesimo cartello di pericolo cammelli (di cui comunque per ora non s’è visto nemmeno un biblico pelo) facciamo qualche foto da copertina del calendario Signora 2019. E ripartiamo per gli ultimi kilometri, che ormai sono più di 100 quelli alle spalle.






















Il Puill fa una faccia scura: ci si para davanti una lunga, troppo lunga, salita. Impossibile imbarcarcisi ora, che è tardi, c’è il vento e siamo stanchi; e tuttavia rende impossibile il trovare un luogo sicuro per il campeggio: dall’alto le auto ci vedono di sicuro, non c’è che sabbia per kilometri! Così Raymond suggerisce di raggiungere il minuscolo agglomerato di case lì vicino e di chiedere a qualcuno di campeggiare nel giardino di casa o in un parco: è più sicuro che occupare una delle case abbandonate che vediamo a bordo ferrovia.
Avvicinandoci a quello che credevamo un paesino, però, capiamo che si tratta di una stazione ferroviaria, nuova e ben tenuta; in effetti, chi vuoi che ci passi? E’ nel nulla e in mezzo al deserto! Scorgiamo un furgone frigorifero e capiamo che qualcuno deve pur esserci; dopo una breve ricerca, troviamo quello che credo sia il capostazione, che vive qui in un bugigattolo tra sabbia e sabbia; armati di dizionarietto inglese-farsi, gli chiediamo se possiamo mettere la tenda e dormire qui. Senza esitazione ci dice di sì, certo! 












Così ci sistemiamo. Io intanto scopro con gioia che i bagni sono enormi, pulitissimi e dotati pure di doccia: che sorpresa meravigliosa! Mai più hotel: d’ora in poi sempre e solo stazioni nel deserto. Dopo aver preparato il campo, veniamo raggiunti prima da capostazione stesso, armato di tè, zucchero (a zollette, che qui non si fa sciogliere nella tazza ma in bocca, direttamente: un cubo per ogni sorso) e amici. Gli amici chiamano altri amici. Poi si telefonano e si contattano con la loro radio. Arriva altra gente. Ogni volta son foto, selfie, e tazze di tè. Con il dizionarietto inglese-farsi ci chiedono le solite cose (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, un fiorino!), se l’Iran ci piaccia e se le persone siano gentili. Ci tengono tantissimo. Poi ci dicono di andare a dormire nella moschea (sì, ovviamente la stazione in the middle of nowhere è dotata di moschea) perché ci sono i serpenti e gli scorpioni. Il Puill, che sa le cose, ritiene non sia vero affatto e che di certo non si infilano nel sacco a pelo o nella tenda. Nella moschea invece bisognerebbe stare distanti (c’è quella per le donne e quella per gli uomini… Come i bagni praticamente) e possono intrufolarsi animali molto pericolosi, le persone. Seguo il consiglio.





Ci prepariamo poi i “Macaroni à la Raymond”. Praticamente si prende un tot di pasta a cazzo. Si mette dell’acqua di dubbia provenienza sul fuoco, senza sale; guai, fa male; e soprattutto non lo abbiamo. Quando bolle, si butta dentro con malgarbo la pasta, che son fusilli di battesimo, ma macaroni per gli amici. Dopo un minuto di cottura, si spegne il gas (che se no se ne usa troppo) e si lasciano i macaroni in infusione nell’acqua calda e poi tiepida, per 10 minuti esatti. al che si scolano alla bell’e meglio e, lasciandoli nella pentola, si rovescia sopra alla magnaporco una tolla di tonno in olio. A pezzettoni, sia il tonno sia l’olio. Poi si dà una vigorosa mescolata et voilà, pasta con tonno che BelloFigo levati (questa è per i miei studenti, se stanno leggendo). E, incredibilmente, è anche buona! I due gatti della stazione, magri che per fare il mio Platone ne servono 5 o 6, apprezzano i resti del tonno e diventano miei a-mici subito. 





Dopo altro tè e meline minuscole, viene il buio e vien l’ora di coricarsi, mentre il caldo allenta la morsa e pure il vento tace; domattina la sveglia è alle 6, poco dopo l’alba che allaga di luce questo immenso catino di mondo.



4 commenti:

  1. IL SOGNO
    È un leggero frusciare di ruote
    sotto il sole che brucia nel cielo,
    è un curioso concerto di note
    dalle stelle che formano un velo.
    Nostalgia di un frusciare lontano?
    Nostalgia del Ticino che scorre?
    Ma che fa, nel deserto iraniano
    c’è un bel sogno che volpe rincorre...

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  2. Grazie Rita e grazie anche a Gigi per il sogno. Buon viaggio, Daniele 🤠

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  3. In quel deserto il sale non manca.. Anche per la pasta. A meno di problemi di ipertensione. Ciao Zorro

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  4. Non c'era molto traffico lungo la strada ...

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