1/7/18
La giornata è iniziata presto, con le prime luci dell’alba
ad accarezzare come miele la terra e le rocce. Alle 6 già eravamo nei premi, ad
armeggiare tra sacca dell’acqua e fornello per acchittare una colazione. Ho
dovuto indossare una felpa di pile perché faceva ancora freddo, soprattutto
all’ombra; il sole già era caldo abbastanza da bruciare, benchè appena sorto.
Inutile dire che il pane, il miele, la marmellata e i
biscotti, con una vista così, sono ben più buoni. Mano a mano la luce ha
riempito le valli e l’orizzonte ha ripreso una forma definita, quella degli
ultimi monti prima di imboccare la valle ampia in cui sorge la città di
Esfahan, perla di Persia, da molti considerata la città più bella dell’Iran.
Tra l’altro l’idea di poter godere della famosa e tanto
elogiata ospitalità delle famiglie di questo paese ci ha permesso di pedalare
con ancora più desiderio di giungere a destinazione.
Alla mattina, nel deserto, di insetti non ce ne sono. Ci
sono però delle lucertole, ma dei sauri da sella, dei coccodrilli praticamente,
che vien voglia di aggiogare in coppia alla bici e farsi trainare.
Ci sono anche delle greggi, a volte, con il pastore dalla
pelle di cuoio brunito al sole che ci osserva dall’alto con curiosità.
Di salite ce ne sono state in definitiva poche, tra i 10 e i
15km; affrontarle sotto il sole del primo mattino è effettivamente tutt’altra
cosa.
Poi è stata tutta discesa, lieve e lunghissima, una goduria
infinita. Ci siamo mangiati oltre metà tappa in poco tempo, godendo del
paesaggio che mutava ancora, facendosi di nuovo piano e punteggiato qua e là di
paesi abbandonati (o forse no).
Raggiunta la valle, un po’ perché iniziava a
fare caldo, un po’ perché ormai eravamo a oltre metà tappa (totale 110km),
abbiamo lasciato l’autostrada 7, fin lì seguita, siamo passati dall’ennesimo
casello e ci siamo diretti ad un’area di sosta che, giustamente, si chiama
“caravanserraglio”. E’ un luogo curioso, non ho capito se antico davvero o solo
in apparenza; fatto sta che la struttura è proprio quella di un
caravanserraglio, con negozi e ristoranti e bagni e fontana e moschea. Tutto
ciò che serviva e serve a chi viaggia insomma.
Qui, dopo esserci dissetati con
le solite “cosefredde” che non si capisce bene cosa siano (succhi di che?
Gastrici?), abbiamo avuto del buon tempo con poliziotti e giardinieri che non
hanno resistito: oltre alle solite domandi sul chi siamo dove andiamo da dove
veniamo, hanno provato a soppesare le bici, hanno indossato gli occhiali e
apprezzato il ciclocomputer. Mica se ne vedono tutti i giorni di truppe
cammellate così!
Rinfrancati e rinfrescati, siamo ripartiti alla volta di un
distributore di benzina dove fosse possibile comprare qualcosa da mangiare,
perché la colazione delle 6 era ormai finita nelle dita dei piedi. Imboccare la
provinciale (diciamo così) che conduce in Esfahan non è stato facile: traffico
folle, camion strombazzanti e corsie piuttosto ristrette; oltretutto, per
imboccare la corsia giusta, abbiamo dovuto scavalcare il guard rail, cosa
piuttosto complicata con le bici stracariche come sono, mentre i tir ti fanno
la fettina di prosciutto e commentano con le bitonali.
Senza danni siamo comunque riusciti a tornare on the road
again, fino al primo benzinaio; qui siamo stati accolti come fossimo ospiti di
fama internazionale. Uno dei ragazzi in tuta simil-Agip ci ha fatto il terzo
grado e poi è andato in giro da tutti i suoi colleghi, dai negozianti e dai
passanti che dovevano solo far benzina a raccontare di noi come se fossimo suoi
vecchi amici di cui poteva vantarsi. Di buono c’è che ci ha offerto il caffè e
l’acqua, e ci ha fatti accomodare nel suo ufficio.
Anche da lì siamo ripartiti, per imboccare di nuovo
un’autostrada, stavolta la 9, che arriva proprio al centro di Esfahan. Abbiamo
dovuto prestare molta attenzione perché il traffico, in coincidenza delle
grandi città, aumenta in maniera esponenziale, ci sono furgoni e camioni,
birocci e carrozzelle, tutto stracarico di persone, tappeti, fieno, roba. La
guida è quella folle e totalmente governata dal caos, cosa che aiuta ben poco
quando ogni pochi metri si incrociano svincoli enormi e pericolosissimi.
Abbiamo raggiunto il grosso borgo di Shahin Shahr, che
preannuncia l’immensa, polverosa e abbacinata periferia della città. Non
mancano raffinerie, immensi complessi industriali fatti di ruggine e morti
bianche e una centrale nucleare.
Prima di entrare nel delirio aggrovigliato delle strade di
Esfahan, ci siamo fermati in una sorta di pineta per riposare e scrivere.
Abbiamo anche contattato la coppia incontrata il giorno prima sulla strada, che
si era offerta di ospitarci. Dopo un po’ di salamelecchi (è il caso di dirlo:
anche qui si saluta con sàlam) ho ricevuto una serie di messaggi whatsapp che
indicavano una via, un indirizzo e un’ora precisa per incontrarci: 19.30,
Hosein Abad Street. Peccato fosse prestissimo!
Abbiamo tergiversato ed
impiegato gran tempo per gli ultimi 25 kilometri, fermandoci ogni poco; e meno
male: il traffico per entrare in città è follia pura, non esistono regole se
non una sorta di tacita lotta per la sopravvivenza condotta a colpi di clacson
e precedenze mancate, pullman che schivano motorini che schivano pedoni che
schivano auto.
Come al solito siamo stati al centro dell’attenzione di
molti. Va detto che qui quasi tutti parlano un po’ di inglese e spesso anche
qualcosa di tedesco, francese e italiano. Quindi è stata una sorta di via
crucis del chi siete da dove venite dove andate wow. Mentre noi si cercava
giusto di arrivare integri alla casa dei nostri ospiti.
Incredibilmente senza incidenti siamo arrivati al fiume che
attraversa Esfahan, lo Zaiandè; lì ci sono parchi e ciclabili, sicchè abbiamo
deciso di impiegare l’ultima ora d’attesa all’ombra di un giardino.
Il proprietario del negozio in cui ho comprato un gelato,
che per altro mi ha dato il resto in biscotti, è poi uscito, avvicinandosi
incuriosito. Nel giro di un attimo ha attaccato un bottone allucinante. Ha
parlato un po’ in inglese, un po’ in tedesco e un po’ in francese per un’ora e
mezza, squadernandoci la storia dell’Iran, della città, della situazione
economica attuale e del fatto che vorrebbe andare in Finlandia, prima o poi, ma
i visti costano cari ed è difficile uscire dal paese. E che di turisti
statunitensi non ce ne sono (chissà come mai!). Il buon uomo ci ha anche fatto
una piccola lezione di farsi, diluita dal tè che ci ha offerto. Ed ha anche
aggiunto che è vietato alle donne andare in bici, ma qui ne abbiamo viste
alcune, invero, oltre alla volpe.
Finalmente, un po’ rincoglioniti dalla parlantina
dell’ometto, abbiamo percorso gli ultimi 3km verso sud della città, dove abita
la ospite; non senza qualche difficoltà (le città sono davvero labirintiche e
piene di minotauri con il motore) abbiamo trovato la casa che stavamo cercando.
Ci ha accolti solo la signora. Abbiamo lasciato le bici nella corte interna e
siamo saliti in casa: un grande appartamento pieno di sofà e tappeti, un
megaschermo ed una tastiera. Sul tavolo, frutta e limonata. La donna, Maliheh,
ci ha spiegato che lì vive con sua figlia sedicenne, Ghazaleh (si pronuncia
come Casoeula); sua sorella si è presto palesata (abita al piano di sotto) e
nel giro di poco sono arrivate anche la ragazza e una sua amica che studia
all’università. In separata sede la donna ci ha chiesto di non menzionare
l’incontro avuto il giorno prima e il fatto che fosse in compagnia di un uomo,
perché probabilmente non è il padre di sua figlia (e sua figlia non gradisce). Ci
sarebbe anche un figlio ma fa l’università a Qom e studia odontoiatria. Dunque
tutto il mondo è paese. Chissà come deve essere per una donna, qui, divorziare,
o comunque vivere sola dopo aver avuto famiglia. Certo è che essendo un gineceo
in casa niente velo, maniche corte e molta libertà. Abbiamo fatto la doccia e
lavato i vestiti, luridi di sabbia e sudore. Abbiamo mangiato e bevuto mentre
la ragazzina spiegava che studia matematica (qui le superiori sono solo di due
tipi: matematica o scienze come chimica o biologia) ma le piace l’arte; suona e
dipinge (mi ha mostrato i suoi disegni e gli acquerelli; ha un maestro privato).
Le piacciono i Nirvana e sotto alle palandrane veste come qualunque sedicenne
d’Europa, con i jeans attillati neri e una t shirt. Parla francese e come
Raymond ha fatto pratica; le piacerebbe lasciare l’Iran ma costa troppo. Poi
abbiamo guardato un po’ i mondiali di calcio e infine è stata ora di cena.
Abbiamo mangiato seduti a terra, sul tappeto: riso con zafferano e bacche,
pollo allo zafferano, patate. Un tentativo di spaghetti (chiamati macaroni),
yogurt e salsine varie. Poi il tè con i dolci e i croccantini di zucchero, rose
e pistacchi tipici di qui.
La conversazione, dopo aver guardato le foto del Puill e
della sua famiglia, si è andata via via spegnendo ed è stata ora di andare a
dormire, al fresco dell’aria condizionata ma coccolati dal calore dell’accoglienza
persiana, che davvero è un dono prezioso come acqua pura nel mezzo del deserto.
P.S. la polizia ci ha fermato
anche sulle autostrade vietatissime ma si è limitata a gran saluti (pure quello
militare con colpo di tacco) e complimentoni
2/7/18
Ma quanto è bello svegliarsi ed
essere coccolati dalla mamma persiana che ci prepara la colazione tradizionale
e ci offre anche gli zuccherini alla rosa tipici di Esfahan?
La giornata è
stata proprio da turisti appiedati, anzi, pure con un tratto di Uber (quello
locale che ha un nome che non ricordo, chiamato da Maliheh e costato ben 50
centesimi di euro). Di Esfahan dirò longa brevis, lasciando più che altro
parlare le immagini. Aggiungo qui che abbiamo incontrato tantissime persone,
alcune solo volti sfuggenti, mezza parola e un saluto; altri invece hanno detto
di più, ascoltato di più. Ad esempio, nel bazaar labirintico e sconfinato, una
donna in chador ma dal rossetto ben vivo mi ha avvicinata e, dopo alcune
domande di rito, ha detto che lei pure è una professoressa di biologia alle
superiori; che avrebbe voluto insegnare all’università ma devi fare il Phd e
costa troppo. Che non si è mai sposata ed è meglio così (ha chiesto di me e
quasi si sarebbe lanciata in un high five quando ha saputo che nemmeno io ho
marito).
Ma torniamo
alla bellezza di Esfahan, nota per le bellezze architettoniche e per i suoi
giardini pubblici, sacra ombra in un mare di arsura. Gran parte di questo
patrimonio fa dire a un adagio persiano che "Esfahan è metà del
mondo" (Esfahān nesf-e jahān), cui qualcuno ha aggiunto la frase
"e ora si trova in rovina", riferendosi ai danni bellici della guerra
scatenata contro l'Iran dall'Iraq di Saddam. Su tali guasti sono state condotte
missioni di restauro e di conservazione, tra cui quella italiana dell'Istituto
Italiano per l'Africa e l'Oriente, guidata dall'architetto Eugenio Galdieri.
Tuttora i lavori di restauro e le impalcature sono ben visibili ovunque.
Esfahān è una
città molto antica, importante anche nell'Impero sasanide; fu conquistata dagli
Arabi nel 642. Fece parte del Califfato abbaside finché Toghrul Beg, sovrano
dei Grandi Selgiuchidi, la conquistò nel 1055 e la scelse come capitale del suo
Sultanato. Perse la sua importanza con la fine del dominio selgiuchide in Persia.
Fu poi occupata da Mongoli, che in seguito ad una rivolta degli abitanti saccheggiarono
la città e sterminarono la popolazione, e dagli Afghani, poi. Divenne
importante nel Cinquecento sotto la dinastia safavide con lo scià Abbas I il
Grande, il quale diede l'impronta architettonica della città che tuttora vanta,
come un museo a cielo aperto.
Nel 1930 lo scià Reza Pahlavi ordinò un ampio progetto di ricostruzione delle rovine (per fortuna).
Nel 1930 lo scià Reza Pahlavi ordinò un ampio progetto di ricostruzione delle rovine (per fortuna).
Abbiamo
iniziato la nostra visita dalla Piazza Imām Khomeini (daje), chiamata
ufficialmente Meydān Naqsh-e Jahān (Piazza Metà del Mondo) e un tempo Meydān-e
Shāh (Piazza dello Scià, sottintendendo Abbās I). È una delle piazze più grandi
del mondo e tutto il suo complesso è stato dichiarato dall'Unesco Patrimonio
dell'umanità nel 1979.
Qui si
affacciano alcuni bellissimi edifici che lasciano senza fiato chi accede alla
piazza: la Moschea dello Scià, la principale della città, che fu eretta a
partire dal 1629 su ordine di Abbas I, è una delle più rinomate dell'Iran.
Il Palazzo Ali
Qapu che, sovrasta la piazza con la sua terrazza, venne fatto costruire
all'inizio del XVII secolo come residenza degli Scià di Persia, per incontrare
ambasciatori, ricevere ospiti di riguardo e ricchi mercanti.
Attorno alla
piazza si apre lo sconfinato formicaio del gran bazaaar, finora senza dubbio il
più enorme, complesso e affollato mercato visto. E’ un concentrato di merci e
uomini, denaro, cibo, tessuti, gioielli, anfratti che si aprono su anfratti e
passaggi seminascosti nell’ombra. Ci si può perdere e ritrovare all’infinito,
come nell’eterno ritorno descritto da Nietzsche.
Da lì,
risalendo i fiumi di umanità che trascorre, si giunge alla meravigliosa Moschea
del Venerdì, che è probabilmente l'espressione architettonica più importante
della dominazione selgiuchide in Persia (1038-1118)
Dopo tale
visita abbiamo deciso di provare un ristorante cheap molto amato dai residenti.
Praticamente si entra e non si deve ordinare, perché viene servito un solo
piatto: pane avvolto su carne di vario tipo, buona e speziata, ma troppo forte
per il mio palato di volpe del sottobosco. A spazzolare tutto ci ha pensato il
Puill, che si è pappato parte della mia portata senza problemi, aggiungendo
ampie dosi di yogurt e salsine di incerta provenienza e dubbia conservazione.
Io, per digerire, ci ho messo poi l’intera giornata. Lui poco dopo aveva già
fame di nuovo. Si è capito che è un bretone-betoniera. Cioè una bretoniera. Tra l'altro tutti i camerieri erano nani e si dicevano da soli "very good".
Dopo esser tornati nel bazaar per un caffè e
nella piazza ancora, attraverso la kasbah e le vecchie case
ci siamo spostati verso uno dei più bei palazzi antichi
della città. Chehel Sotoun, “quaranta colonne”, padiglione seicentesco
collocato in un giardino persiano di bellezza indescrivibile. Ciò che lascia
senza fiato sono gli affreschi all’interno, coperti di calce dagli afghani in
segno di disapprovazione dello sfarzo di corte, e perciò ben conservati. Sopra
la porta di ingresso sono raffigurati gli eserciti dello scià Ismail I nella battaglia
di Taher-Abad del 1510; venne sconfitto e ucciso il re uzbeko. Una pittura più
recente descrive la vittoria di Nadir Shah contro l'esercito indiano del
sultano Mohmud (in groppa ad un elefante) a Karnal nel 1739. Abbas II riceve
Nadir Khan, sovrano del Turkestan, in compagnia di musici e danzatrici. Nella
parete di fronte all'ingresso lo Scià Abbas I presiede un banchetto reale. E’
poi raffigurata la battaglia di Cialdiran dello scià Ismail I contro i giannizzeri
del sultano ottomano Selim I, e l'accoglienza dello scià Tahmasp all'imperatore
Moghul Humayun rifugiatosi in Iran nel 1543.
Ci sono anche, in stile tradizionale, miniature
che celebrano la gioia della vita e dell'amore. Molti dei pannelli di ceramica
sono stati dispersi e sono ora in possesso di importanti musei in Occidente.
Da lì ci siamo poi spostati verso il Si-o-se Pol,
"Ponte dei 33 archi", è uno degli undici ponti della città, il più
antico. E’ stato anch’esso costruito dalla dinastia Safavide all'inizio del
XVII secolo. Il fiume è completamente in secca; il letto pare ben ampio, ma ora
come ora nemmeno una goccia d’acqua porta sollievo alle zolle spaccate.
Da ultimo ci siamo portati verso il quartiere
armeno, dove si affollano viuzze e piazzette; al centro si erge la cattedrale
di Vank, con la sua cupola e il suo campanile. Di fronte, la statua
dell’arcivescovo che portò la stampa qui in Iran. ARMENO quello! Notevole anche il mural con la volpe che baldanzosa parla al corvo.
Per non disturbare ulteriormente la nostra
ospite, abbiamo deciso di cenare al ristorante, Romanos, nel quartiere armeno.
Alle 19.30 era ancora chiuso, ma i proprietari non hanno esitato a farci
accomodare. Il ristorante si trova in un antico hammam ed è dotato pure di
piano bar con lamentazioni in farsi annesse. Quando hanno saputo che eravamo
francese Puill e italiana io, ci hanno persino portato le bandiere al tavolo! E
poi la zuppa della casa, insalata e pesce, ottimi e abbondanti, il tutto per
ben 4 euro a testa.
Tornando a casa ci siamo fermato ad acquistare
una scatola di cioccolatini da regalare alla famiglia che ci ha tenuti in casa
in questi due giorni, pur puzzoni e bruciati come siamo.Al rientro ci attendeva
la bevanda tipica dell’estate ad Esfahan, fatta con menta, centriolo, aceto,
zucchero ed erbe varie, mescolate ad acqua e ghiaccio. E tè e dolcetti,
accompagnati dalla musica della ragazza, che ha suonato la tastiera e cantato
canzoni in francese, inglese e tradizionali iraniane. Sua mamma, orgogliosissima,
ha persino acceso tutte le candeline per fare atmosfera.
Domattina partiremo dopo colazione, di nuovo
verso sud. Tra 4 giorni (430km) arriveremo a Persepoli e poi alla grande
Shiraz. Da lì risaliremo tagliando a metà il paese, in pieno deserto, senza
tralasciare Yazd (che si ciuccia tutta l’acqua di Esfahan, per volere del
governo, ci hanno detto).
Domani faremo una tappa breve perché lasciare la
città sarà operazione delicata e complessa. Ci fermeremo a Shahreza, a 80km da
qui. E sarà bellissimo tornare ai monti e al deserto dopo questa sosta all’oasi
che ha dissetato il cuore, il corpo e la mente.
Che meraviglia
RispondiEliminaLa storia e la geografia ci aiuti a conoscere, ma anche la sociologia e la politica, la tradizione e il costume di popoli antichi e nobilissimi. Meglio, molto meglio che attraverso noiosissimi testi scritti da paludati cattedratici. Soprattutto però è il cuore degli uomini e delle donne che incontri sulla tua strada a diventare davvero comprensibile in tutti i suoi meccanismi più sottili. Perchè, in fondo, è il saperci tutti ugualmente piccoli su questa Terra la conquista più grande. Grazie
RispondiElimina