Due giorni fa ero appena arrivata
sul Bajkal ed ora il sacro mare d’acqua dolce è già alle spalle.
Sono state due tappe intense e
difficili, complicate dal meteo inclemente e dalla mancanza di strutture, o
meglio, in generale, di città, di presenza umana in senso lato, là dove sarebbe
stato comodo fermarsi, nel punto in cui le gambe iniziano a cedere.
Tra l’altro, così per
informazione, da ieri mattina ho lasciato l’oblast di Irkutsk per entrare in
Buriazia.
Domani ne raggiungerò il
capoluogo, Ulan Ude.
Ma andiamo con ordine.
Ieri mattina io e Raymond ci
siamo alzati ben presto; lui per uscire all’alba, come sempre, e poter pedalare
con calma. Io per aggiornare il blog. Per tutta la notte aveva piovuto e ancora
non accennava minimamente a smettere: dalla finestra il lago era una macchia
grigia e cupa, oppressa da nuvole basse e baffi di vapori gelidi. Le strade si
erano trasformate in un fiume di fango e faceva freddo, ma freddo che uno ad
agosto non può immaginare nemmeno nei peggiori incubi. Il vento teso, da nord,
aveva portato un alito polare giù giù lungo le acque del Bajkal. Non vi dico la
faccia della ragazzina alla reception quando ha visto uscire Raymond, prima, e
me, qualche ora dopo, nella bufera gelida.
Ma la strada ad una cert’ora
chiama e non si può rimandare oltre. Così, con la divisa invernale, mi sono
imbarcata, è il caso di dirlo, nella tappa.
Guai a chi pensa che la strada
lungo il lago sia in pianura, come la logica e le mappe farebbero presupporre.
Guai e sciagure. E’ un continuo, estenuante saliscendi di collinette ripide e
speroni di roccia a precipizio sulle acque cupe. La strada si fa tortuosa e
corre a mezza costa tra i sassi e i boschi, che nascondono per lo più il lago
alla vista. Da un lato si intravede tra i rami il Bajkal, dall’altro si
stagliano, vicinissime e minacciose, le montagne nere, tagliate qua e là dai
moltissimi, oltre 300, immissari del lago.
Il problema è che, quando si
sale, ci si scalda e persin si suda. Quando però ci si butta a capofitto nel
vento della discesa, se piove, fa freddo e tira un vento ghiacciato, ci si
congela.
I primi 30km sono stati una vera tortura: ho abbigliamento ancor più
pesante, ma era sepolto sul fondo delle borse, chiuse a fatica e blindate prima
di partire. Ho tentato di resistere ai brividi e alle folate, tanto più che
quando si è così fradici di pioggia, fermarsi significa prendere ancor più
freddo; ma quando le mani mi si sono congelate al punto da non riuscire ad
usare il cambio, ho deciso che era inevitabile recuperare vestiti adatti. Al
primo kafè sulla strada ho accostato, grondante, ho tirato giù le borse e sono
entrata, tra gli sguardi curiosi dei camionisti a pranzo. Ho aperto le borse e
tirato fuori di tutto, dalle mutande sporche alle ciabatte, dal dentifricio
alla crema da culo, alla ricerca di qualcosa di caldo da mettere. Alla fine ho
recuperato: copri scarpe in neoprene, maglia termica tipo cotta di mitril,
sovrapatntaloni impermeabili, doppio scaldacollo, k-way che resiste al fuoco e
al ghiaccio, sottocasco in goretex e guanti adatti fino ai -10 gradi. Da
aggiungere ovviamente alle ciclobraghe lunghe imbottite e alla giacca con
interni foderati che già avevo addosso. Mentre mi portavano il tè nero bollente
e iper zuccherato che avevo ordinato, sono andata in bagno a cambiarmi e ne
sono uscita splendida come Amundsen prima di partire per il polo, in triplo
strato di pelliccia d’orso, foca e orso ancora.
Il barista, impietosito e mosso a
compassione dal tutto, e dal diluvio che ancora fuori imperversava, mi ha
offerto il tè. Così, dopo aver richiuso a calci e madonne le borse, sono
ripartita nella tempesta, ma stavolta ben equipaggiata. E infatti, dopo qualche
colpo di pedale per scaldarmi, non ho più avuto problemi con il freddo. Mi ha
fregata l’anno scorso, il clima maledetto, ed ho imparato la lezione. Sono così
arrivata a Bajkalsdk, cittadina nata nel ’61 intorno ad una fabbrica di
cellulosa, nota per qualche albergo di lusso e un turismo da Alpi Svizzere,
però in versione siberiana, cioè con il fango, le ciminiere e il pesce
essiccato appeso per via.
Ancora qualche salita, ancora
qualche strappo
e sono finalmente giunta a Vydrino.
Non che mi interessasse la città,
che è un microscopico insediamento di pescatori con quattro case e due vie; ma
qui, sul corso del fiume Snezhnaya, che va a tuffarsi ovviamente nel lago, passa
il confine tra oblast di Irkutsk e Repubblica di Buriazia.
E la Buriazia non è mica un posto
qualsiasi.
Tutta a montagne e valloni di
roccia, stesa lungo il Bajkal, questa repubblica è casa di oltre 100 etnie,
giunte qui nelle diverse e scomposte ondate della storia antica e recente. Le vicissitudini
politiche di questo territorio sono simili a quelle dell’oblast di Irkutsk:
impero Xiognu nei tre secoli prima di Cristo, lo stato mongolo Xianbei nei tre
secoli successivi, duecento anni , fino al 550, di confederazione di tribù
nomadi del Rouran, l’impero mongolo e poi, fino al 1691, la dinastia Yuan
settentrionale. Sotto a questi diversi volti del potere hanno vissuto diverse
etnie e confederazioni di tribù, dai Merkit, di origine turcica e poi
assimilati ai mongoli, ai Bajad, clan dell’impero di Gengis Khan, dai Barga,
che prendono nome dalla regione Bargujin-Tukum, che significa “la fine del
mondo”, ed erano le rive del Bajkal, ai Tumed, “i più di diecimila”, altra
etnia mongola.
I russi sono arrivati solo a fine
Seicento, ed erano armati di fucili e violenza; cercavano l’oro, il legname,
pellicce e nuove terre da colonizzare.
Oltre alle strade e alla morte,
portarono qui la croce ortodossa, ma ancora oggi i cristiani sono circa in pari
numero rispetto a coloro che professano il buddhismo tibetano, che si è diffuso
nel XVII secolo; migliaia di buriati invece sono devoti alla religione
sciamanica tradizionale: la natura è piena di dei, che abitano i boschi e le
acque, e gli spiriti aleggiano nella bruma della sera; tutto è magico e ci sono
formule e riti perché l’ombra torni a splendere. Questa religione è detta “sciamanesimo
nero”, cioè puro, diverso da quello “giallo”, cioè influenzato dal buddhismo.
Interessante è il frappè
culturale che è venuto fuori poi dal mescolarsi di buddhismo e sciamanesimo, in
una sorta di ateismo ecologico diffuso nella repubblica.
I buriati discendono dal
mescolarsi di gruppi siberiani e mongoli, da cui hanno ereditato l’allevamento e
l’agricoltura itineranti e le tipiche tende, le ger, oltre alla lingua; o
meglio, tutti questi usi sono stati imposti ai nativi dai mongoli durante il
loro dominio, iniziato nel 1207 da uno dei figli di Gengis Khan; con l’arrivo
dei russi, nel Seicento, per i buriati, ormai un mosaico di etnie diverse
portate a incontrarsi dalla loro natura nomade, cambiò solo il nome del padrone
a cui versare la tassa in pellicce di zibellino (ah, quanti ne ho visti in
questi giorni!).
Durante la guerra civile si
schierarono con i bianchi, nella cavalleria, mentre poi si piegarono, ma mai
con devozione, al potere sovietico; solo la battaglia per non cedere all’ateismo
di stato fu dura e mai vinta ma nemmeno persa del tutto, nonostante la
distruzione di templi e opere d’arte.
Negli anni ’30 i russi fecero qui
degli studi per smontare le teorie naziste sulla razza: dimostrarono, ad
esempio, che buriati, russi e mongoli erano in grado di resistere alla fatica
allo stesso modo, senza differenza, pur essendo di “razze” diverse.
Non mancarono le ribellioni
contro la collettivizzazione, che costarono decine di migliaia di morti,
ammazzati dall’Armata rossa, e molti rifugiati in Mongolia. Stalin, poi,
temendo il nazionalismo buriato, sbriciolò la regione in tanti piccoli
frammenti amministrativi e fece sparire più di 10.000 persone nelle sue purghe.
Oplà.
Però la cultura locale è rimasta
ben radicata e viva ed è sopravvissuta a tutte le bufere, nei vestiti e nella
musica, nei volti dagli occhi felini e nelle melodie di una lingua altra.
E insomma, per farla breve: sono
entrata in Buriazia.
Il tragicomico è giunto di lì a
poco con la solita estenuante ricerca di un luogo per la notte. Avevo
individuato un “Tourist center” nel villaggio di Tankhoy, una sorta di
ostello-dormitorio con anche un’area per il campeggio, proprio sulle rive del
lago. La stagione ormai volge al termine, come dimostrano il cielo e il
termometro, e quindi chi vuoi che ci sia? Per sicurezza, al mattino, ho
comunque inviato una prenotazione attraverso il form del loro sito. Così, per
star tranquilli.
A 20km dall’arrivo, ore 18, con
le energie ormai quasi esaurite, ricevo una telefonata dall’arzillo Raymond,
che è già arrivato, lui e la sua t-shirt e i suoi pantaloni corti e sandali in
quel gelo. E’ arrivato e non c’è posto per noi. Con la morte nel cuore lo
raggiungo e mi dice che al Centro ha chiesto ma gli han detto che non ci sono
altri hotel e il più vicino è a 55km (whaaaat?!); però ha interrogato due
bambini del paese e gli han fatto capire che giù al villaggio c’è una
gostinitsa.
rido per non piangere nel fagotto di vestiti alla Amundsen. Notare la poltrona alla fermata del bus |
Scendiamo sulla strada bassa e scassata.
Chiediamo a un ragazzo che
falcia il prato, e ci dice di andar dritti e poi a sinistra, ma pare un po’
indietro di cartella, un po’ scemo. Possibile che quando si ha bisogno si
incontra sempre le scemo del villaggio? Il paese sta per finire. Più oltre,
ormai fuori dall’abitato, fermiamo una coppia di ragazzi che ci confermano che
sì, l’albergo c’è, è quel palazzone lì. Ci avviciniamo.
Detriti, macerie, le
capre che pascolano indisturbate nel cortile recintato di filo spinato tutto
arrugginito. Il palazzo è abbandonato, evidentemente. L’unico ingresso è una
porta di legno sbarrata dall’interno. Mi torna in mente l’esperienza da brivido
con i bimbi randagi al Sibir’. Dico a Raymond che forse è meglio lasciar
perdere e trovare alternative, magari la
tenda, lì da qualche parte sulla spiaggia. Non finisco la frase che arrivano
tre uomini in mimetica su un furgone scassato. Chiediamo lumi e scopriamo che
uno di loro è il proprietario della struttura che sì è un hotel, ed ha posto
per noi. Ma questo è un miracolo! Probabilmente del nostro arrivo sono stati
avvisati dai due bimbi o da qualcuno del paese, che è piccolo, e la gente
mormora. Ci apre la porta e portiamo le bici nella hall, che è evidentemente
quella di un albergo abbandonato.
Saliamo all’ultimo piano e, miracolo,
miracolo davvero, ci sono le stanze numerate e con dei veri letti, il bagno con
l’acqua calda per la doccia, una cucina “luxury” e pure la sala da pranzo.
E una gattina
amorevolissima che mi ha seguita poi per tutto il giorno, dormendo e mangiando
con me.
Il buon proprietario del cinque
stelle, poi, è stato tanto gentile da accompagnarci in auto fin al negozietto
di alimentari che stava dall’altra parte del paese, unico luogo dove reperire
una cena. Ma che si vuole di più, nella vita, che una casa così, con la
finestra affacciata al tramonto sul Bajkal, che trema al passaggio dei convogli
della Transiberiana nella notte?
La mattina seguente, come al
solito, Raymond ed io ci siamo alzati insieme, abbiamo fatto colazione e lui
poi è uscito presto, mentre io son rimasta a scrivere e a coccolare la
gattella, il minifusicembalo che fa sentire subito a casa.
Il tempo pareva meno crudele e
infatti così è stato quasi fino alla fine. Quasi perché a 6km dall’arrivo ci si
è rovesciata in testa una grandinata improvvisa, in mezzo ai campi, senza
alberi né tettoie per ripararsi; per fortuna con chicchi non troppo grossi.
La tappa di oggi è stata lunga ma
meno impegnativa: meno salite cattive, meno freddo, meno pioggia (solo una
doccia di venti minuti a metà strada, così, per tenere ben umidi i vestiti).
Ho
recuperato Raymond ai 60km, per superarlo ed essere a mia volta raggiunta
durante una sosta caffè gelato e pipì (na ulitsa of course, perché il cesso al
chiuso e al caldo nie rabotaiet, non funziona. A proposito, il nie rabotaiet
ormai è la frase che io e Ray usiamo più spesso come simbolo supremo delle cose
di Russia. Che ci sono. Sarebbero belle e utili e comode. Ma non funzionano,
sono rotte o fuori servizio. Qui tutto nie rabotaiet, Il boiler non va, la
chiave non apre la serratura, la luce non s’accende, l’acqua manca, il locale è
chiuso, il motore non s’accende. Nie rabotaiet).
Fortunatamente la strada è stata
clemente, si è stesa in qualche, pur breve, tratto quasi pianeggiante ed è
stata in parte illuminata da un timido sole.
In 130km abbiamo incrociato una
sola città, Babushkin, così chiamata in onore del rivoluzionario Ivan Babushkin
e due soli kafè. Raymond se la rideva dicendo che si è fermato in ogni bistrot
che ha incontrato per strada, dicendo che in Francia è un modo per dire che si
è bevuto tanto, ma i bistrot eran solo due, in uno ha pranzato con borsh e
kotoliet e lenticchie, in uno ha fatto merenda con me, a caffè e dolcioni al
formaggio e zucchero, e quindi grasse risate bretoni. Ho riso io quando, dal
kafè, è uscito fuori al gelo in tutta fretta, nei suoi braghini corti dicendo
che andava a mangiare la banana perché era ora di farlo. Intendeva che era
mezza marcia e andava mangiata, ma da come l’ha detto pareva ci fosse un
preciso orario quotidiano da rispettare per mangiare le banane. E quindi grasse
risate volpine. E’ bello rider per niente così, in mezzo al freddo nulla di
Siberia. Anzi, salva proprio la vita.
L’ultimo tratto di tappa s’è
percorso insieme, e l’arrivo oggi è stato tranquillo, grandine a parte. Il
proprietario dell’appartamento di Kabansk fin da ieri mi ha contattata per
accordarci sull’arrivo, e tutto è andato liscio come non mai, anche perché il
giovanotto parla bene l’inglese. Spesa e via di nuovo a cucinare una cena da re
nella nostra casetta in periferia d’un paese agricolo di periferia, tra i campi
e le colline, alle spalle il Bajkal e davanti il fiume Selenga, di cui domani
seguiremo il corso fino a Ulan-Ude. Si spera in valle, in una sterminata
pianura piattissima, senza salite. Chè me ne toccheranno ancora di aggressive i
giorni prossimi, e le mie gambe iniziano a lamentarsi.
Concludo con una cosa che mi ha
detto Raymond, tra le molte sue private che terrò per me e sono un bel tesoro,
piccolo e splendido, di un’amicizia che chissà non prosegue su altre strade,
sotto nuove lune, in terre lontane.
Dice che a muoverlo è “la
conquista dell’inutile”.
Pensateci. E’ geniale.
La conquista dell’inutile.
Noi pensiamo che la conquista appaghi e l'inutile diventi qualcosa di prezioso nella persona che ha lottato per conquistarlo. Speriamo che per le prossime tappe ci siano sole e strade belle. Un affettuoso saluto a te e al tuo amico Raymond. Sila e Franco
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