[…]
Partii…
Mi sentivo triste e puro,
triste certamente, perché
avevo imparato qualcosa nella vita,
ma che cosa,
non me ne sapevo ancora render conto.
Bevvi la vodka coi vicini, in loro onore.
Per l’ultima volta attraversai la mia Zimà.
Continuavo a camminare, triste e libero,
e avendo superato l’ultimo quartiere,
salii su un monticello assolato
e a lungo là rimasi.
Dall’alto vedevo l’edificio della stazione,
i magazzini, i fienili e le case.
Mi parlò allora la stazione di Zimà.
Ecco che mi disse la stazione di Zimà:
“Vivo modestamente, schiaccio noci,
in silenzio emetto fumo dalle mie locomotive,
ma anch’io rifletto molto sull’epoca nostra,
l’amo, e non vado contro la mia coscienza.
Tu non sei il solo al mondo
in questa tua ricerca, nelle intenzioni, nella lotta.
Non t’affliggere, figliolo, se non hai risposto
alla domanda che ti è stata fatta.
Abbi pazienza, osserva, ascolta.
Cerca, cerca. Percorri tutta la terra.
Sì, la verità è buona, ma la felicità è migliore,
eppure non c’è felicità senza verità.
Cammina per il mondo a testa alta,
con il cuore e gli occhi in avanti,
e sul viso
l’umida sferza delle nostre conifere
e sulle ciglia
lacrime e tempesta.
Ama gli uomini, e saprai capirli.
Ricordati.
Io ti seguo.
Quando sarà difficile, tornerai da me…
Va!”
E io andai.
E sono in cammino.
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko
(1933)
La strada lunghissima, nelle sue
curve e nei suoi giri di valzer tra colline e laghi, tra boschi e villaggi, nel
suo noto ma imprevedibile dipanarsi, mi ha portata anche a Zima, e forse non è
solo un caso. Apparentemente è solo uno dei tanti piccoli gironi in cui una
manciata d’umanità è condannata a vivere e morire. Questo (orribile)
insediamento fatto di cemento e fumi di scarico, infatti, non ha nulla da
offrire se non complessi industriali di lavorazione del legno e ciminiere delle
fabbriche che producono binari; è stato fondato già nel 1743 come centro di
sfruttamento del legno e stazione di posta della strada per Mosca, con un ponte
sul vicino fiume Oka, ed è rimasto un pugno di case di contadini per tutto
l’Ottocento; come tutti i paesi qui, è cresciuto poi nel 1898 con l’arrivo
della Transiberiana, ed è diventato città nel 1922. Ha vissuto senza poterci
far nulla le vicende della storia russa, la rivoluzione, la guerra civile e
quella patriottica, il regime, lo sviluppo economico e la crisi poi, dagli anni
’90. Insomma, tutto normale per una cittadina della Siberia orientale.
Però.
Però qui a Zima è nato
Evtushenko, il 18 luglio 1932. E’ morto il primo aprile di quest’anno, e non
era un simpatico scherzo. Pur avendo passato l’infanzia a Mosca, Zima è rimasta
la sua prima radice, nonché la casa che ha riaccolto lui e sua madre, cantante
lirica, durante la guerra, quando Mosca era troppo pericolosa per viverci (il
padre, geologo, se ne era andato in Kazakistan, dove verrà poi raggiunto in
segreto da Evtushenko quando la madre nel ’44 decide di abbandonarlo a se
stesso e andare a cantare per i soldati al fronte).
Alla sua città natale Evtushenko
ha dedicato un poema autobiografico, “La stazione di Zima”, in cui, oltretutto,
condanna il culto della personalità, i burocrati che rimpiangono Stalin,
dittatore inviso e appena morto, all’epoca, e, in generale, l’”uomo d’acciaio”;
indovinate? Tutta questa fame di libertà, ribadita, nel ’57, con la difesa del
romanzo di Dudincev “Non di solo pane vive l’uomo”, in cui si critica
fortemente il regime staliniano, costa al poeta l’espulsione dal Komsomol,
l’Unione comunista della gioventù, e dall’Istituto di letteratura; il pretesto
è il mancato pagamento di una tassa. Per sua fortuna gli “amici politici” gli
permettono di essere riammesso ad entrambe le istituzioni, e inizia così il
periodo più felice della produzione del poeta.
A proposito di Zima, anche
Vecchioni ha scritto una canzone dedicata proprio alla sua stazione e a
Evtushenko, nel ’97.
“Alla stazione di Zima qualche
volta c’è il sole
E allora usciamo tutti a
guardarlo
E a tutti viene in mente che
cantiamo la stessa canzone
E che ci facciamo male perché non
ci capiamo niente.
E il tempo non s’innamora due
volte di uno stesso uomo
Abiamo la consistenza lieve delle
foglie,
ma ci teniamo la notte per mano,
stretti fino all’abbandono,
per non morire da soli quando il
vento ci coglie.
Perché vedi, l’importante non è
che tu ci sia o non ci sia,
l’importante è la mia vita finchè
sarà la mia”.
E quindi Zima, con la signora che
vende i funghi e mi saluta pensando che io stia fotografando lei.
Certo la strada qui intorno è
veramente conciata male, e ti fa dialogare con dio in una maniera alternativa.
L’autostrada si fa sterrata e piena di sassi e porcherie, pezzi di metallo,
resti di cantiere. Fortunatamente la leggera pioviggine non è bastata a
trasformare tutto in fango, altrimenti mi sarebbero toccati qualcosa come 30km
a piedi, a trascinare me e la Signora.
Tra l’altro faceva freddo,
freddissimo. La temperatura non ha superato i 6 gradi, che sommati al vento
gelido e all’umidità han reso necessario il giacchetto invernale… Che mi sta
largo come fosse d’un altro, nonostante le spaventose quantità di cibo che
caccio in canna.
La colazione, con un soviet
croissant contenente mezzo kilo di soviet Nutella è stata in solitaria: come da
accordi Raymond era partito ben prima, così da pedalare con calma e permettere
a entrambi di tenere il proprio ritmo. Ci saremmo incontrati per via, o, al
più, alla gostinitsa concordata.
In realtà ho percorso tutta la
tappa senza incontrarlo, pensando avesse tirato per darmi la paga e farmi
vedere chi fosse il vecio. Però quando sono arrivata al motel sulla strada di
lui non c’era traccia. “Che sia andato più avanti, fraintendendo gli accordi?”.
Ho provato a scrivergli un sms ma non ho ricevuto risposta. Ho persino
immaginato che si fosse dileguato perché stufo del vincolo della compagnia.
Invece quando sono uscita dalla doccia era lì, nel corridoio, appena arrivato.
“Mi sono fermato due volte in un kafè, non hai visto la bici appoggiata fuori?
Mi hai superato!”. Ahhhhh chiaro. Che sollievo però, mi ero anche un po’
preoccupata. Di amabili resti suoi, sulla strada e in giro, non ne avevo visti…
Ma sai mai che dopo cinquant’anni in sella per il mondo finisci in un dirupo
qui in Siberia e ti trovano gli archeologici qualche secolo dopo, pensando ad
una sepoltura con bici e caschetto, che son i nuovi cavallo e armatura.
La tappa in sé è stata piuttosto
lunga e faticosa. Un po’ per la condizione delle strade, come dicevo, un po’
per il vento, che è stato tutt’altro che a favore oggi (ma per fortuna meno
teso), parte per il freddo che gela i polpacci e le ghiaccia le ginocchia,
parte per le salite, non lunghe ma ripide.
Ho superato l’Oka (quack!) e raggiunto,
tra boschi e campi in terre via via più basse, la cittadina di Zalari.
In
primis avevo pensato di fermarmi qui, ma sarebbero stati solo 70km, pochi,
troppo pochi: il giorno dopo avrei dovuto pedalarne quasi 140, e comunque
entrare in Irkutsk con 80km nelle gambe, cosa che mi avrebbe impedito di aver
abbastanza per visitare la città.
Invece son riuscita ad arrangiare
tre tappe tutte precisamente da 116km, tranne l’ultima, di 40, per entrare nel
capoluogo. Un percorso fatto con il righello, la perfezione!
La storia di Zalari è identica a
quella di Zima, solo che è stata fondata qualche anno prima, perché nel 1734 è
già citata come insediamento (in documenti che attestano l’incendio, forse non
casuale, della chiesa parrocchiale). La città, oltre allo sviluppo economico
portato dalla strada per Mosca e dalla ferrovia poi, ha goduto anche degli
investimenti di alcuni ricchissimi mercanti che hanno aperto qui (e in diverse
altre cittadine della zona) magazzini, negozi, aziende di lavorazione di pelli,
legname e oro, che scendevano a Oriente in cambio di tè e spezie e risalivano
ad Occidente lungo le nuove strade. Ma i poveri son rimasti poveri prima e dopo
le vie di comunicazione, prima e dopo l’arrivo degli imprenditori, prima e dopo
la rivoluzione. Servi non più della gleba ma dell’ideologia e del denaro ora.
Anche Zalari è rimasta dunque
alle mie spalle. Sono scesa fino a Kutulik, manciata di casette sulle rive di
un lago, dove doveva esserci un hotel sospetto che infatti non c’era, e poi a
sud ancora fino a Zabituy, che dovrebbe essere un paese ma non si vede, o non
esiste, come l’isola che non c’è. Di sicuro, però, ancora oltre, c’è il kafè
Bajkal, quattro pareti azzurre e un tetto in mezzo al nulla, che, tra i
saliscendi delle colline, a volte si vede a volte no, nascosto in un
valloncello com’è.
Ma la consistenza del “nulla”,
del “middle of nowhere” qui è cambiata. Non sono più rocce e pinete nere, non
sono campi smisurati e betulle di zucchero. No, qui sono piane e colline senza
un albero, verdissime, con cespugli e arbusti e a notte fuochi accesi in
lontananza da qualcuno che dormirà sotto le stelle ammiccanti, e così tante,
qui. Raymond dice che sono già panorami da Mongolia, dove lui è stato, con suo
figlio, ovviamente in bici. Lo scoprirò presto.
Certo è che le luci e la terra
e i cieli sono mutati, ed io con loro. Da viaggi come questo non si può tornare
identici a come si è partiti. “Caelum non animum mutant qui trans maria
currunt” scrisse Orazio. Ma non è così, non in questo caso. Cosa e come sia
cambiato ancora non mi è chiaro. Ma intravedo nuove luci e meno ombre, cieli
stesi e una vastità di orizzonti che finalmente riesce a dialogare nella stessa
lingua della mia anima inquieta, che qui trova spazio e respira.
Momento anticlimax per ritornare al concreto e alla pancia. Qualche istantanea extra.
natura morta con quelle che paiono patatine di mais e invece sono la stessa cosa ma dolce. Al posto del sale mettono le zucchero e uno può mangiarne fino a morire, ma morire felice |
Raymond inquietato dalle dimensioni dell'insalata. Io ero solo felice che fosse TANTA |
e non paga della mega caesar sald, ci ho dato con questo favoloso intruglio. Pesce, verdure cotte e tutto in intingolino di zafferano. Molto, molto meglio della droga |
La poesia di Evtushenko mi ha fatto commuovere; è troppo bella. Le tue riflessioni, verso la fine del racconto, mi hanno fatto sentire tanta ammirazione per la maturità e la semplicità con cui parli di te.Ciao. Sila
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