14/7
Pak Chom-Loei
93km
Una giornata bella, tranquilla e produttiva: così definirei la tappa di oggi! Ci stiamo prendendo gusto, qui, e la strada corre sotto alle nostre ruote portandoci meraviglia. O forse siamo noi che ci muoviamo? Sto perdendo i confini e il perimetro dell'io sfuma nel tutto-mondo, che è un intero e come tale va accolto. Non sminuzzando in definizioni, recinti angusti, brandelli di nomi. Tutto, tutto insieme, contemporaneamente, qui ed ora.
Ci alziamo con calma e ci facciamo un caffè nella hall dell'albergo, deserta. Fuori una luce lattiginosa racconta ancora delle piogge torrenziali di questa notte. Non fa neanche troppo caldo. O forse sono io che mi sto abituando. Oggi non siamo attanagliati dalla consapevolezza di dover pedalare tantissimo: la tappona di ieri ci consente di arrivare a destinazione con poco più di 90km, con un dislivello non allarmante. La prima metà tappa sempre lungo il Mekong, fino a Chiang Khan, e poi diritti a sud lungo la valle del fiume Loei, suo affluente, che si fa largo tra dolci colline selvagge di giungla.
Salutiamo il Baanta hotel, ancora assopito, e riprendiamo subito la strada che si snoda lungo il confine con il Laos. Il fiume sempre ci accompagna, con il suo brusio argentato, e le alture sull'altra sponda emergono dalla notte gravide di umidità.
Qui la strada, sempre ampia ma per nulla trafficata, rimane più in piano, senza quei continui saliscendi che ieri hanno reso decisamente impegnativo il nostro pedalare carichi. Tuttavia intorno le colline si fanno più vicine, e sembrano stringersi e affollarsi per osservar meglio il trascorrere di uomini, acque, stagioni e secoli.
Incrociamo quello che pare un cicloviaggiatore molto carico, che batte bandiera thailandese. Ci saluta e passa. Poi ne incontriamo altri due, che si fermano a chiacchierare. Ci spiegano in un inglese faticoso che sono una quindicina di volontari che, come forma di beneficenza, vanno di villaggio in villaggio a riparare biciclette ai bambini, regalarne se ne hanno disponibili, e insegnare a ripararle. Ma che figata di progetto! Qui i ragazzini, anche molto molto giovani, si muovono in motorino. Ma nei villaggi più poveri non tutti possono permetterselo, e quindi il mezzo di trasporto d'elezione diventa la bici. Forti davvero questi benefattori a pedali! Chiediamo se hanno bisogno di qualcosa e ci dicono di no, che sono già in tanti e ben attrezzati. In effetti, mano a mano, ne vediamo passare numerosi, tutti riconoscibili per la maglia identica e bandierine, peluches e gingilli colorati appesi alle bici.
Passiamo qualche villaggio rurale e poche cittadine, mentre risaie e pascoli la fan da padroni. Fuori dalle abitazioni si vedono spesso mucchi di pietre del letto del Mekong, divise per dimensione, forma o colore, in vendita. E' una delle attività diffuse qui. Le sorvegliano bimbi intenti a dondolarsi da amache che paion bozzoli.
I paesini mantengono comunque quell'aria ordinata e pulita, piena di dignità, che sto notando ovunque qui in Thailandia, anche laddove certo non si vive nel lusso. Persino i cani son beneducati, e rarissimamente molesti e aggressivi. E anche con questi basta fare un breve scatto e subito cambiano idea e ci lasciano passare. Destiamo curiosità, ma sempre discreta. Solo i bambini a volte, dopo averci visti passare, lanciano qualche urletto eccitato, che sentiamo alle nostre spalle e fa sempre sorridere. Notiamo diversi alberi di mango con i frutti protetti da sacchetti o pezzi di carta o stoffa; è una varietà locale molto pregiata. Ogni villaggetto, anche il più piccolo, ha la sua enorme scuola colorata e il suo tempio scintillante di bianco, oro, rosso, vetrini e frammenti di specchio a ornare le cupole.
i manghi insaccati |
scuolona per 3 bimbi di numero! Gli altri sono a vender sassi |
Procediamo tranquilli ma di buon passo, nonostante il venticello contrario, e i primi 40km sono già alle spalle. La città di Chiang Khan, l'ultima sul Mekong per noi, si segnala fin dalle periferie attraverso cartelli che indicano la presenza di una pista ciclabile. Che non esiste. E' il bordo ampio della carreggiata, come sempre. Ma apprezziamo lo sforzo. Chiang Khan è una cittadina di 6000 anime, in passato sonnolenta e sconosciuta, oggi destinazione di tendenza per il turismo interno grazie alle tradizionali shophouse e agli scorci sul fiume degni di selfie. La sera una via pedonale si anima di artisti, bancarelle e banchi dello street food, mentre di giorno, soprattutto ora che siamo in bassa stagione, regna ancora la quiete di un tempo. Ci sono un tempio buddhista, alcune cascatelle visitabili in barca e punti panoramici per ammirare dall'alto il "mare di nebbia" che esala dal Mekong. Mi intriga leggere che qui è diventata un business pure la vendita di cibo da offrire ai monaci durante la loro questua del mattino, andando, oltretutto, contro la regola che vorrebbe che venisse donato loro solo riso, mentre gli altri prodotti alimentari andrebbero lasciati in elemosina ai templi. Noi ci fermiamo per una breve sosta, durante la quale mi gusto un thai tea ghiacciato delizioso.
A questo punto viene il momento, ahimè, si salutare il Mekong, che in questi giorni ci ha accompagnati ed ha segnato una prima meta di passaggio nel nostro lungo viaggio. Come ogni confine che si rispetti, è una linea che indica un al di qua e un al di là. Ed è stato bello rimanere sulla sponda thailandese, cominciando a sognare nuove avventure in altre terre, vicine e lontane, che questo fiume unisce. Arrivederci Mekong, ci rivedremo, prima o poi!
Imbocchiamo la 201, uno stradone semideserto che sta in valle, accanto al corso del Loei. Cominciamo a vedere strane statue di quelle che paiono maschere tradizionali, tra i fiori enormi e coloratissimi che son famosi in questa regione (nota pure per la produzione di cotone e tè pregiato, oltrechè di vino). Qui, in queste terre remote e distanti dal turismo di massa, si preservano due feste tradizionali interessantissime. La prima ha il suo epicentro a Ban Na Sao, ed è una costola della più ampia celebrazione della Festa dei razzi (Bun Bang Fai), che serve a propiziare la pioggia e coincide con una festa buddhista. Gli abitanti qui credono che le anime delle vacche e dei buoi defunti frequentino ancora il villaggio e quindi, per rispetto, indossano costumi colorati e maschere bovine. Lo stesso avviene, in generale, alla Festa dei razzi, una delle più chiassose dell'intera nazione, che qui è particolarmente sentita. Sta a metà, dice la guida, tra la caotica ebbrezza del Carnevale e lo spettrale immaginario di Halloween. Le origini della celebrazione sono avvolte nel mistero, ma di certo hanno a che fare con i culti tribali degli spiriti dell'etnia tai. Le date dell'evento, che si tiene a giugno, nell'ultimo mese lunare, sono annunciate dallo sciamano di Dan Sai, paesino della zona, che riceve informazioni dalla divinità protettrice del villaggio. La festa consiste nel travestirsi con maschere demoniache e abiti variopinti, danzare scatenati tra fiumi di whisky di riso, sparare razzi e poi dirigersi al tempio.
Noi procediamo nel saliscendi continuo (io un po' più lentamente chè non sono in pienissima forma) e incrociamo alcune nuvole fantozziane, che ci lavano per pochi minuti, per poi sciogliersi. Facciamo una piccola sosta a 15km dall'arrivo, e qui, oltre ad un tè fresco e a un gelato, viene fornito in omaggio un felino pulcioso e dalla voce roca da coccolare.
In un attimo siamo a Loei, meta di oggi. Ho prenotato uno camera da 9 euro al Sun Moon hotel. E' un albergo abbandonato per metà, e per metà ancora in uso. Il check in non si fa alla reception, impolverata e chiusa da tempo, ma presso un bar vicino, dove trafficano due ragazze alle dipendenze di un gattone che dorme sul bancone, tra la cassa e il pc. Per la cifra, la camera è fin troppo lussuosa. Portiamo dentro direttamente le bici, così ci leviamo il pensiero del legarle e allocarle per la notte. Tanto più che siamo, ancora una volta, in un quartiere di donnine e localacci.
Dopo una doccia ristoratrice e una rapida revisione delle tappe dei prossimi giorni (forse riesco in un magheggio che ci fa risparmiare un centinaio di kilometri non particolarmente significativi, a costo di affrontare di petto le salite, domani), usciamo a fare due passi. Individuo un barbiere e tento la sorte: ormai i miei capelli sono lunghi e ingovernabili, fastidiosi con il caldo e disordinati. Ma non ho gran fortuna, qui in Thailandia, con i parrucchieri! Uscendo, oltre all'ultima luce che sta sparendo dietro alle colline, notiamo un altare che propizia le attività del bar e dell'hotel; anche qui le offerte consistono in bottiglia di aranciata con cannuccia e quattro fruttini marci. Che curiosa idea del divino, così poco meta-fisico...
A questo giro l'operazione barbiere va a buon fine. Il locale è frequentato solo da uomini, due dei quali vistosamente queer. Il terzo è un ragazzino, pare un apprendista, ed è quello che mi prende in consegna. E' delicatissimo e quasi non lo sento operare, prima con la macchinetta, poi con pettine e forbici. Sento solo quando mi ripulisce con un grosso pennello da barba le zone dove ha tagliato. Ci intendiamo un po' con il traduttore, un po' con le foto dei modelli (tutti attori occidentali) appese al muro. Finisce a farmi la classica scodella da bambino asiatico, ma va bene così. Per tre euro è fin troppo. Mi chiede anche se mi piace e, senza mentire, gli dico un largo sì, sorridendo e ringraziandolo tanto.
Viene il momento di cenare. Ci sono diversi baracchini dello street food, ma stasera optiamo per qualcosa di diverso. Son due settimane che mangiamo thai o cinese e ci sta variare un po'. I ristoranti e i locali sono palesemente pensati per adescare clienti. Le signorine procaci stanno sull'uscio, richiamando l'attenzione. Le luci sono soffuse, e le insegne piuttosto esplicite: da "Bottom bar" a "Sweet girls". Scegliamo una via di mezzo: un locale chiamato "Saloon" che pare offra cibo dignitoso, anche se le cameriere sono le classiche signorine un po' troppo disponibili, che fanno un po' troppe moine, e non capiscono un accidenti di niente di inglese, tanto che toppano metà dell'ordinazione. Ma loro mica son pagate per quello!
A me portano un'insalatona di tonno e verdure e salsa rosa, per il vero buona, anche se non l'avevo ordinata. A Gigi il misterioso God-Farther Schnitzel bolognese. E' una cotoletta alla bolognese (?) del padrino? Di un dio più lontano? Di una divinità scoreggiona? Di fatto, trattasi di un piattone che contiene da un lato un kilo di spaghetti al ragù, ma piccanti, con tanto di formaggiata. Dall'altro una cotoletta impanata, anch'essa sotto ampio manto di formaggio. Gigi spazzola tutta e gradisce molto, anche se imbarazza ad andare a pagare da solo con le fanciulle. Lo accompagna, e la tipa che sta alla cassa deve usare la calcolatrice per fare conti tipo 1000-450 e capire quanto ci deve di resto. Ribadisco, non è lì per questo genere di incarichi!
Riflessione a margine. Già mi fa schifo chi acquista prestazioni sessuali a casa nostra. Chi poi viene qui per spender meno, aver di meglio, e magari andare a letto con minorenni, mi fa ancora più ribrezzo. Ciò detto, consapevole del fatto che i puttanieri non saranno tra le persone più fini e sensibili del mondo, mi chiedo: ma come fai a farti far cose senza neanche riuscire a intenderti, con una barriera linguistica e culturale così enorme, e senza quella scintilla, che può esser sentimento o anche solo attrazione, per carità, che unisce due adulti consenzienti che vogliono avere un rapporto? Veramente mi immagino la trattativa a gesti e traduzioni Google, e fa una tale tristezza che neanche riesco a dire.
Compramo dragon fruits e mangostani a una bancarella, mentre tutta la famiglia del fruttivendolo sta cenando sul marciapiede, e torniamo in camera. Accanto all'hotel c'è un negozio che vende erba, sorvegliato da un can-dragone cinese. E questa mi sembra un'immagine che ben rappresenta le sfaccettate varietà dell'umano e la complessità dei luoghi.
Da casa, intanto, arrivano belle notizie e voci dolci di miele sacro. La mamma mi mostra in videochiamata il papà che fa un pisolino post-prandiale, a Bordighera, in Liguria, sul lettone insieme alla mia gatta Briscola, la Brisky vecchietta e per la prima volta in villeggiatura da sola, che Platone, il mio gattone meraviglia, non c'è più da Natale. E poi mi dicono che è uscito l'articolo, e che succedono cose così belle, a 12.000km di vicinanza da qui, che fanno sorridere il cuore nella notte di Loei, mentre fuori, nel buio, il monsone imperversa.
15/7
Loei-Nakhon Thai
128km
Ieri mi è balenata un'idea malsana: percorrere in due giorni la strada che avevo previsto di pedalare in tre. In parte perchè tagliando Phitsanulok, città interessante di certo, ma non così imperdibile, si risparmiano un po' di kilometri. In parte perchè, banalmente, si può aumentare il kilometraggio quotidiano, ora che cominciamo ad ambientarci e a capire lo spirito del luogo. Phitsanulok viene definita come comoda base di partenza per visitare i dintorni, e noi proprio nei dintorni passeremo; perdiamo un piccolo museo (i musei non sono il punto forte della Thailandia, per quanto visto finora), un paio di templi e una veneratissima statua bronzea del Buddha. Sarà per la prossima volta.
Ma questo cambio di programma impone oggi una tappazza mappazza di cui Gigi ha solo vagamente contezza. Io ho visto il profilo altimetrico. Gli ho spiegato che sono quasi 130km e che c'è da salire. Il dislivello si aggira intorno ai 1600m, e già di per sè è ragguardevole, ma è fatto da una sfilza infinita di minuscole rampette, collinine ripide e tagliagambe, senza tornanti mai, senza la possibilità di prendere un ritmo per le zampe e il fiato. Infatti non si sale mai oltre gli 800m di quota, anzi, si tende a star tra i 400 e i 700. Insomma, fatica. Oltretutto io ho dormito poco e male, a causa della violenza della pioggia che pareva doversi portare via il tetto e tutto l'hotel come il tornado del Mago di Oz. Mi sveglio con la sveglia e sto ancora sognando, e sono più rincoglionita del solito. Oltretutto per bere un caffè devo aspettare di esser fuori da Loei, a 3km già pedalati. Facciamo sosta in un negozietto in periferia, lasciata la strada in valle percorsa ieri e imboccata quella che va ad ovest, in pancia alle colline. Oggi si consumerà anche l'anima, quindi, oltre a un litro di caffelatte gelido, mi calo anche un mochi gelato, che ormai è la mia cosa dolce preferita.
Si comincia a salire subito, anche se la prima quindicina di kilometri ci illude: le pendenze sono minime e si pedala senza troppa fatica. Il cielo grigio ci protegge dal morso del sole, e sembra aver voglia di piovere ancora, ma per fortuna si trattiene dal farlo. Gli lembi di città si sfilacciano per lasciar posto a paesini sempre più piccoli e modesti, dove l'attività principale consiste nella vendita di frutta lungo la strada. Altro prodotto di punta son le scope di saggina, prodotte a mano con rametti lasciati a seccare al sole. E' ora di prima campanella: piccoli gruppi di bimbi e ragazzi, in divisa, vanno a scuola, chi a piedi, chi in motorino (in 3, 4, nessuno dei quali con il casco). Constatiamo che esistono anche qui i nonni-vigile, che però non sono muniti di paletta ma di bastone usato a mo' di sbarra del passaggio a livello dei treni. Attiriamo l'attenzione di tutti, ed è un continuo "Hello! Hello!" entusiasta.
Tra un villaggio e l'altro la vegetazione si fa fitta il bosco pare volersi richiudere sulla strada e riprendersi i suoi spazi. In effetti qui è un susseguirsi ininterrotto di parchi naturali, riserve e aree di conservazione.
La prima salita vera, che poi è un insieme di grinze e rampette, ci impegna dal km 15 al km 50. Per la prima volta uso tutta la gamma dei rapporti, e il rampeghino frullino si rivela come sempre salvifico. Incappiamo in diversi cantieri aperti, con asfalto rovente, polvere, rumore assordante e calore dei motori delle macchine, oltre al fondo dissestato e agli spazi ridotti. Per fortuna non c'è traffico e passa solo una moto o un furgone ogni tanto. Scalare così a lungo, carichi, con tale lentezza, permette una forma di meditazione profondissima. Riesco a percepire le vibrazioni dell'universo, il moto dei corpi celesti, lo srotolarsi dei germogli e il brusio di ogni singolo filo d'erba. Tutto converge in un punto esatto, che è adesso, tutto avviene in un giro del sangue, un respiro profondo, un battito di ciglia quando un raggio di sole mi illumina.
Tra un altare ed un Buddha di vetta (come da noi le croci), tra un cartello che segnala la presenza di elefanti e una bancarella della frutta (dragon fruits e rambutan a secchiate), raggiungiamo il primo pianoro. E' la regione di Phu Ruea, il giardino dell'Isan. Il clima fresco e asciutto consente agli agricoltori di coltivare fiori e prodotti rari in questa zona, come fragole, noci di macadamia, cachi e caffè (qui ha anche sede l'azienda Coffee Bun). Qui poi si trova un grande parco naturale molto apprezzato dai locals.
Oltre agli innumerevoli mercati che vendono i rinomati prodotti locali (comprese enormi zucche a forma di caciocavallo che vengono dipinte di oro e argento e appese come decorazione), ci sono anche parecchi resort, più o meno vistosi, più o meno tamarri. Pare che i thailandesi amino particolarmente trascorrere un weekend tranquillo da queste parti. Tanto più che si trova una delle poche aziende vinicole dell'area; è stata la prima, nel 1995, a produrre vino thailandese a fini commerciali.
Proprio davanti all'ingresso del parco di Phu Ruea (purea? Come la ragion puretica di Kant?) facciamo una prima sosta. Siamo al km 50. Ne abbiamo ancora 35 prima del bivio, dove dobbiamo decidere se davvero faremo il taglione per impegnare due e non tre giorni. Lì ci sono le ultime strutture. Poi si deve tirare dritti fino a 127km, con ancora parecchia salita. Gigi è in grande forma, io tiro avanti, con una fatica di testa difficile da gestire. Mi consolo assaggiando cose. Il gran sudare anche la cresima mi fa venir voglia di salato porconeggiante, e via coi semini tostati e piccanti, e pure le alghe, ormai elette a snack leggero del viaggio.
La strada per questi 35km dovrebbe procedere in piano, ma non lo fa. Il dislivello è minimo, ma dato da un continuo interminabile saliscendi di piccole rampe. Anche qui. Si aggiunge il vento contrario, che frena in discesa e rallenta ulteriormente in salita. Questo è proprio un dispetto, una cattiveria gratuita!
Ben brasati, madidi di sudore, offesi dagli elementi, arriviamo a Dan Sai, la capitale della Festa dei razzi di cui vi ho parlato ieri. Qui risiede lo sciamano che ne determina le date. E gli abitanti sono estremamente orgogliosi di questa loro tradizione misteriosa, che però offre un'occasione per divertirsi, ballare scatenati e bere come i pazzi. Ovunque ci sono statue e disegni, raffigurazioni e murales che ricordano le maschere e i vestiti indossati in quell'occasione.
Qui è il momento di scegliere: o ci fermiamo, domani andiamo a Phitsunalok, e pedaliamo 300km in 3 giorni. Oppure proseguiamo, e ne pedaliamo 250 in 2. E' ancora abbastanza presto, sono le 14.30, abbiamo più di 4 ore di luce. Decidiamo di proseguire, e affrontare ancora più di 40km di colline. Facciamo una sosta lunga, e io tento di procrastinare il momento in cui tocca tornare in sella. So cosa ci attende, e il mio corpo e soprattutto la testa si oppongono. Lo sforzo di volontà necessario per vincere quello che chiamo "pesaculo" è imponente. Si riparte. La strada sale subito, questa volta a tornanti che serpeggiano attorno a un colle, avvolgendolo tra le sue spire. Gigi va in crisi di fame, mangia una barretta e riparte. Io trovo 5 baht a terra, buon segno. Ora il vento contrario è davvero teso, ma rinfresca un po' l'aria. Un Buddha dorato segna la fine di questa prima salitona. Si scende poi a precipizio, con curve strette e strade che paion verticali.
Ma non è mica finita. Gli ultimi 30km sono un devastante susseguirsi di saliscendi sempre più ravvicinati e ripidi. Passiamo per villaggi decisamente fatiscenti e malconci, dove i più vendono oggetti di foglie intrecciate e sacchi di sale. Qui infatti c'era una miniera, ora in disuso, ma gli abitanti continuano ad estrarlo in qualche modo, a loro rischio e pericolo, e lo vendono al bordo della strada.
Io soffro, tanto più che son ricomparsi i canetti malefici, quelli che schizzano fuori dai cortili e inseguono a pelo irto, mostrando i denti e puntando ai nudi polpacci. La stanchezza e le salite mi rendono difficile fare scatti, anche se è il modo più facile di sfuggire a queste bestie moleste, tanto carine quando si è a piedi (basta una parola detta in tono dolce e seguono scondinzolando e chiedendo coccole a musatine) e tanto fastidiose quando si passa in bici. Fanno la guardia alla loro casa, nulla più. Ma che ansia ogni volta, soprattutto quando si mettono in branco, in 3 o 4! Ormai disfatti, mentre Gigi smadonna contro le app che calcolano le altimetrie (secondo lui mentono e abbiamo superato i 2000m di dislivello, ma mica è vero, tutti i conti tornano), arriviamo. Inopinatamente. Prosciugati. Con le membra indolenzite e ormai fuori, e con il pilota automatico inserito per non aver coscienza della fatica. Scegliamo uno dei numerosi "resort" in centro al paesino, così da avere rapido accesso a locali e negozietti. Qui con resort si intende una struttura composta da numerose unità singole, tipo casette in miniatura, con camera, bagno e scrivania, tv e condizionatore. La fanciulla che ci accoglie con inchino e mani giunte accende ogni luce ed elettrodomestico possibile, per invogliarci a prender la camera. Non sa che mi fermerei anche se fosse la topaia più lurida di tutta l'Indocina! E invece no, tutto è pure nuovo e pulito, e per 500 baht va benissimo. Per cena decidiamo di far spesa e arrangiarci così: abbiamo talmente fame che dovremmo depredare un'intera bancarella dello street food, e non ci pare cosa. Facciamo una capatina al 7-11 in bici, già al buio, nell'aria fresca, e torniamo carichi di cibo. Mentre ceniamo inizia a diluviare. Stiamo avendo una fortuna sfacciata con il monsone, che ci coglie sempre quando siamo già a tetto! Prenoto pure l'albergo di domani, a Uttaradit, cittadona a 120km da qui che dà nome a una remota provincia montuosa (ce ne siamo accorti) di natura incontaminata.
Ormai siamo fuori dall'Isan, e siamo ufficialmente entrati nella regione settentrionale. Chiang Rai si avvicina. Saremo lì, se tutto va bene, tra tre giorni e mezzo di viaggio.Nakhon Thai-Uttaradit
120km
La notte porta diluvio, e la pioggia invita alla lettura e all'approfondimento. Nei viaggi in bici, per me, funziona così: leggo e mi informo prima di pedalare, così da creare una traccia sensata anche dal punto di vista delle attrattive storico-culturali e naturalistiche. Pedalo. Poi riprendo letture e approfondimenti, così da dare un nome a tutto ciò che si è visto in più, metro dopo metro, ben oltre ciò che si legge su una guida turistica. Questo è il bello dei viaggi lenti. Si vede tutto, là dove si passa. Nel bene e nel male, perchè il grande mosaico della conoscenza è fatto di microscopici tasselli, a volte così piccoli da essere quasi impercettibili.
Ora, fino a ieri non sapevo che Nakhon Thai esistesse. Figuriamoci se ne conoscevo la storia. Ne ho recuperato il nome solo dopo esserci fermati per la sera. Per me era un punto comodo a metà strada tra due tappe lunghe, con strutture e negozi. Nulla più. Ora però leggo che questa città fu capitale del regno Singhanavati (da immaginare più come città-stato), a partire dal 1188, preferita addirittura a Chiang Rai per la presenza di montagne, fiumi e campi fertili. Il regno durò per tutta l'era Sukhothai e declinò solo quando il re di Singhanavati prese il trono di Ayutthaya, spostando lì l'epicentro del potere. E non è tutto! Ma andiamo con ordine.
Come dicevo, per tutta la notte diluvia, e quando sembra che piova forte, inizia a piovere ancora più forte, e l'intensità è tale che il rumore copre tutto, e assorda. Al mattino pare di essere in un acquario. L'aria è satura, gonfia di umidità, tutto è fradicio e a terra ci sono enormi pozze in cui si specchiano le nuvole basse e ancora pregne d'acqua. Facciamo colazione con ciò che il resort offre: caffè, latte e cioccolata in polvere, e cracker salati (i Ritz, ma ben raffermi in quanto aperti e sfusi e già inzuppati nella pioggia). Quando partiamo, già piove. Sarà la costante della giornata. Attraversiamo una Nakhon Thai ancora mezza assopita, che tarda a svegliarsi perchè con questo tempaccio gli ambulanti nemmeno fanno la fatica di esporre la merce, al pari delle bancarelle sui marciapiedi.
In un attimo siamo fuori dal piccolo centro abitato. Intorno si intravedono i piedi dei monti comparire sotto a lunghe sottane di nubi grigio latte e polvere. Sono talmente basse di poggiarsi sulle chiome degli alberi scuri. Piove, ma una pioggia fine che, con il caldo che fa, non dà fastidio. Oggi le città sono rarissime, ne incontriamo un paio in 80km. Più frequenti villaggetti o capanne isolate. Ma sembrano abbandonati, e regna un clima spettrale, in una bolla di silenzio assoluto, fatta eccezione per il rumore delle gocce sulle foglie, ora più violente, ora più delicate. Ed è subito D'Annunzio, anzi Montale.
[...] Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgòcciola
sulla pubblica opinione.
Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgòcciola
sulla pubblica opinione.
Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
passaggio sul carretto sì, ma con l'ombrello! |
Qua e là compaiono segni di vita, un'auto o un fuoco acceso, un tempio dove qualcuno sta portando fiori o una bancarella di frutta. Ma per lo più si vedono ruderi, palafitte marcite e invase dal fango, tetti crollati, giardini preda della giungla e, simbolo per eccellenza dell'abbandono, giocattoli buttati a terra, zuppi di pioggia, sporchi di fango e mangiati dalla muffa.
Poi spariscono anche questi ultimi simulacri d'umano, e restano i boschi, resta il regno di linfa e radici, di tronchi fitti fitti che si sfiorano, e mormorano, e parlano la lingua antica del regno vegetale, che c'era prima, e ci sarà dopo di noi. Questi luoghi hanno una storia da raccontare. Siamo al limitare del Parco Nazionale di Phu Hin Rong Kla. Oggi è riserva protetta, ma un tempo fu quartier generale del Partito Comunista thailandese (Cpt). Tra 1967 e 1982 queste montagne furono la base strategica del Cpt e del suo braccio armato, l'Esercito di liberazione del popolo della Thailandia (Plat). Trattandosi di vette isolate e facili da difendere erano una roccaforte perfetta; inoltre siamo a soli 300km dalla provincia cinese dello Yunnan, dove i quadri del Partito venivano addestrati alla guerriglia (fino al '79, quando il Cpt si schierò con il Vietnam, a differenza della Cina). Per quasi vent'anni questa zona fu teatro degli scontri tra rossi ed esercito. Nel 1972 il governo lanciò una potente offensiva contro il Plat. Nel '76, ancora, i militari uccisero centinaia di persone durante una rivolta di studenti ed operai, a Bangkok. A seguito di questi eventi, le fila del Cpt furono alimentate da nuove reclute, soprattutto universitari, e qui vennero costruiti pure un ospedale e una scuola di addestramento politico e militare. Nel '78 il Plat contava 4000 combattenti, ma tra '80 e '81 un nuovo attacco dell'esercito sottrasse al Cpt diversi territori. La svolta venne l'anno successivo, quando il governo concesse l'amnistia a tutti gli studenti che si erano uniti al Cpt dopo il '76; questi, che ormai erano il grosso del Partito, di arresero; contemporaneamente il Plat fu sbaragliato dai militari. Il Phu Hin Rong Kla divenne parco nazionale nel 1984. Oggi restano le foreste e le montagne impervie, i fiori selvatici, i ruderi del quartier generale del Cpt, grotte e crepacci usati come rifugi, la Rupe della Bandiera rossa e le capanne in bambù dove i ribelli vivevano in modo spartano ai limiti dell'umano. Ci sono anche minuscole comunità di hmong bianchi, etnia cinese nota anche con il nome meo, o miao.
Di tutte queste storie, e di tutte queste voci alzate e spezzate, o sommesse e appena sussurrate, noi raccogliamo il silenzio che il vento dei monti ci porta. E "piove sulla favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude".
Noi avanziamo, rallentati dal vento contrario e dalla cortina di pioggia che ci impedisce di vedere a un palmo dal nostro naso. Siamo fradici e quasi fa fresco, ma è piacevole. Le bici, invece, soffrono. Sono piene di fango e dilavate, la catena scorre a fatica, le pastiglie dei freni fischiano con dolore. Tutta questa acqua le sta trasformando in vecchi catorci arrugginiti, nonostante i nostri tentativi di mantenerle pulite e oliate. Siano lodate, poi, le borse Ortlieb, stagne e a prova di monsone come sempre. Davvero un prodotto affidabile.
A tratti, completamente fuori contesto, a bordo strada compaiono enormi silhoutte dei personaggi del Nang, il teatro d'ombre siamese tradizionale. Perchè? Perchè qui in mezzo ai boschi dei ribelli? La domanda resta priva di risposta. ben più comprensibili le risaie (ma allora qualcuno abita questi luoghi!), le capannucce e i grandi Buddha dal profilo marcato, che osservano con mezzo sorriso il trascorrere d'anime su questo fiume di Eraclito.
Il primo posto dove fermarci per una sosta è al km 80. Molto in là, a 2/3 di una tappa lunga. Siamo piuttosto sfatti, e luridi, infangati, fradici e puzziamo di carogna annegata tra atroci sofferenze. Deprediamo un negozietto in cui si entra tassativamente senza scarpe. Approfittiamo anche della tettoia che ne protegge l'ingresso, lasciando che uno scroscio particolarmente intenso passi e vada oltre. Ne approfittiamo per assaggiare tutte le cose strane che troviamo in vendita: tè con succo d'uva, succo di lychees, alghe secche al formaggio e al peperoncino (foto 1) e ancora zucca essiccata e caramellata al sesamo, chips di pelle di pollo con salsa piccante e una sorta di cono-culo di brioches ripieno di ciò che Gigi si ostina a chiamare pistacchio ma è crema di pandano, una pianta aromatica che dà a tutto un colore verde acceso.
Gigi detto Sconsy, Sconsolato del monsone |
Rifocillati e riposati, partiamo appena la pioggia sembra attenuare per un attimo la sua furia. Gigi si barda con il poncho e il copricasco, poi ha caldo e si sveste, poi si bagna e si riveste... Così tutto il giorno. Un'agonia! L'angoscia delle infinite possibilità di Kierkegaard non è nulla in confronto! Attraversiamo comunque una zona molto bella di campagna coltivata. I boschi selvaggi sono ormai alle spalle, e le montagne aspre di roccia e ideali, pure. Ora siamo tornati al piano, e le risaie segnano a tasselli squadrati tutto l'orizzonte del visibile. Le uniche forme di vita animale sono qualche bufalo grigio dalle larghe corna, aironi-cicogna e un contadino qua e là con la zappa in spalla.
Negli ultimi 30km succede di tutto. Ricomincia a piovere di cattiveria. La traccia di porta su uno stradone tutto esploso di cantieri e lavori in corso, con corsie ridotte, asfalto rovente appena steso che si appiccica alle ruote, deviazioni nel fango e altre nefandezze. Il telefono con la Sim thai muore senza preavviso, lasciandoci senza internet e senza navigatore. Per fortuna su Maps offline ho segnato il punto in cui si trova l'hotel dove ho prenotato (Arena Resort, 11 euro con colazione inclusa, un affarone!). Si procede con navigazione di cabotaggio. In città una muta di cani randagi mi prende di mira e per sfuggire a loro per poco non finisco sotto a un motorino. Insomma, quando arriviamo ne ho pieni i coglioni e sono contenta di esser viva. Oh, niente durian, mi raccomando!
Mentre mi occupo del check in, Gigi lava un po' le bici con una canna dell'acqua sottratta di forza a un giardiniere dell'hotel. Poi le lasciamo legate insieme a quelle che vengono offerte a noleggio dalla struttura stessa. Dopo la doccia e aver messo in quarantena i vestiti (quando sono così fradici davvero puzzano di cane annegato da giorni) programmo le tappe dei prossimi giorni. Domani passeremo da Phrae, città antica e fortificata nota per le case in teak, che dista 75km, e la visiteremo, per proseguire fino a 100 o 110km da qui, in qualche paesino. Dopodomani, sempre con una tappa di poco superiore ai 100km, raggiungeremo un'altra città interessante, Phraya. E poi, con altri 90km, saremo a Chiang Rai, epicentro del Triangolo d'oro, dove faremo un giorno di sosta. E quello sarà il punto più a nord che toccheremo. Da lì si scende, si torna a sud. La traccia sta assumendo la forma di un cuore. E ci piace!
Usciamo a recuperare una lauta cena, e intanto cerco notizie su questa città, Uttaradit. Tanti la consigliano come meta sconosciuta, ma nessuno ne approfondisce la storia! Era un importante snodo commerciale, con porto fluviale sul Nan (Uttaradit significa proprio "porto del nord"). Con Rama V è diventata una città eponima di provincia. Fine. Riguardo al territorio circostante ci sono molte cose da dire, ma lo faremo a tempo debito, quando ci passeremo.
Però cacchio,dal parrucchiere ti potevi far fare una rasatura completa.... saresti potuta entrare nei templi dei monaci buddhisti!
RispondiEliminaAllora la cresima sulla fronte l'ha sudata,la comunione con tutte le cagarelle mondiale l'ha digerita, ora con i monsoni si leverà anche il battesimo.
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