venerdì 19 luglio 2024

19-21. Al Triangolo d'oro tra templi di Alien e Matrix, antichi Buddha, qualche problema e sorprese meravigliose













17/7
Uttaradit-Phrae-Song
118km


Ieri notte, finito di scrivere, di leggere, di preparare la tappa, finito tutto -Gigi già dormiva da tempo-, mi sono scattata questa foto. Mi piace, quasi non sembro io. Ha ragione chi a casa dice che mi sto "thailandesizzando", sto assumendo la forma della volpe asiatica. Saranno gli occhiali da intellettuale per cui devo ringraziare ancora Franco Limido (grazie!) il bluesman a pedali che in questi giorni sta organizzando con HopCycle il primo Sundown Bike Fest insieme a tanti amici, tra cui Francesco Gozzelino, Martina Tremolada, la Bike fever family, Eva Sassi Croce e tanti altri. Sarà il taglio di capelli fresco di barbiere thai. Sarà che viaggiare in bici mi fa bene, è la mia misura esistenziale. Peccato doverla controbilanciare con un modus morale, oltrechè estetico, e sentirmi quindi in dovere di fare qualcosa che vada oltre me, e che mi dia senso e permanga nel tempo. Peccato avere una coscienza che mi impone di condividere ciò che imparo. Peccato avere la "vocazione" all'insegnamento... Scherzo ovviamente, è una benedizione grande. Ma, non ci fosse questo aspetto, che è tutt'altro che secondario, sarei nomade-nomade, non seminomade. Ed eccomi qua, nella notte di Uttaradit a pensare a casa e al mondo, ai visi amici che rivedrò a settembre, a chi c'è sempre stato e a chi c'è da poco ma resterà a lungo. 

Fine elucubrazione notturna. Segue un sonno profondo ma agitato di sogni. Mi sveglia a tratti il verso dei gechi. Ce ne sono diversi in bagno e nel corridoio esterno. Inizialmente credevo fosse entrato un uccello padulo strano e ignoto, invece sono queste pallide lucertoline a squittire come avessero uno fischietto da giocattolo di gomma incorporato. "Squeack!". Magari sono la reincarnazione di qualche ragioniere o impiegatuccio che si son sporcati il karma, reincarnandosi rettili, e ora chiacchierano del meteo e di calcio a forza di versucci. Qui molto credono davvero nella metempsicosi, e si sa che forza abbiano le convinzioni nel dar forma all'esistente!

La giornata inizia bene (poi sarà un'altalena continua di emozioni); per la prima volta abbiamo inclusa nel prezzo della camera una colazione vera e propria, non solo il caffè solubile. Ci sono biscottini, pane in cassetta, marmellata e una zuppa dall'odore prepotente di pesciazzo che sobbolle in un calderone. E' un posto un po' fighetto, nonostante il prezzo irrisorio, e veniamo continuamente tenuti d'occhio perchè si sa, i farang sono zozzoni, puzzano e fanno casino e disordine.



Noi lasciamo la camera come sempre in perfetto stato, che quasi non pare utilizzata. E' il mio metodo per non perdere o dimenticare nulla. Rifaccio il letto, sistemo gli asciugamani in bagno, abbasso il coperchio del wc... Insomma, lascio proprio come ho trovato. Di norma qualcuno dello staff, mentre facciamo check out, si fionda a controllare che non ci siano danni, e, di norma, va tutto liscissimo. Ma non oggi. Mentre prepariamo le bici, ingrassando un po' la catena e caricando le borse, una signora delle pulizie esce in cortile urlando e sventolando il mio asciugamano. Fa ripetutamente il gesto di annusarlo ed avere i conati di vomito o tapparsi il naso per la puzza. Urla ancora, strilla proprio, attirando l'attenzione dei molti ospiti (tutti thai) che stanno facendo colazione e sghignazzano. La signora porta avanti la pantomima dell'asciugamano per diversi minuti, mentre va a chiamare la responsabile. Io sono una statua di sale. So che non c'è alcun problema e che la scenetta è frutto di pregiudizi e, diciamocelo, razzismo. Gigi invece si sente colpevole e subito squaderna il portafogli dicendomi, rivolto alla tipa: "Toh, quanto vuoi, rompicoglioni!". Gli chiedo di non fare sceneggiate, almeno lui, e di mettere via il portafogli, che è un gesto di ammissione di colpa. Quale colpa poi? Torna la cameriera accompagnata dalla responsabile, che mi mostra inorridita una macchietta scura. E' una traccia del dentifricio solido biodegradabile al carbone di Vegvisir, un prodotto ottimo. Certo, nero. Ma non macchia. Con due gocce d'acqua si dissolve. Ma le signore si comportano come se avessi lasciato un uovo di Pasqua di merda impacchettato nell'asciugamano. Dico loro di cosa si tratta. La responsabile sostiene che sia una macchia sempiterna, non lavabile, un peccato mortale. Le dico di provare a tenere per tre secondi di numero l'asciugamano sotto al rubinetto del cortile. Lei acconsente, et voilà, macchia sparita. A quel punto l'inserviente si dissolve, spero vergognandosi di se stessa. La responsabile si scusa. Ma a quel punto, con tono da persona che sta per tagliarti la gola in silenzio, le spiego che quello non è il modo di reagire, che è imbarazzante, ma per loro, e che non so se si tratti di razzismo (i farang sono sporchi) o di tentativo miserando di truffa (farci pagare una penale, per altro ridicola, qualcosa come 2 euro). In entrambi i casi, dovrebbero veramente farsi schifo da sole, perchè uno spettacolino del genere è irricevibile. E tanti saluti. Aggiungo un bel "Teste di cazzo", che non arriva, e me ne dispiaccio.

Mi incazzo anche con Gigi perchè capisco non saper l'inglese, ma subito porsi come colpevole e tirar fuori il soldo per cavarsi dai pasticci, senza proferir verbo, è come farsi inculare con la sabbia e poi dire pure che è stato bello. E poi non è dignitoso, rafforza gli stereotipi negativi (occidentali cafoni e vuncioni ma ricchi) e, in generale, non va bene. La prossima volta che torno qui all'Arena hotel davvero cago nell'asciugamano e poi gli do fuoco, così per spegnerlo devono pestarlo e c'è la sorpresa. Poi pago i due euro di penale.
Così, con il sangue che mi ribolle perchè la mancanza di rispetto e la poca gentilezza mi danno enorme fastidio, pedalo a un ritmo insolito per le prime ore del mattino, molto svelto. Lasciamo Uttaradit attraverso vie secondarie che costeggiano i binari, prima attraverso una periferia polverosa, poi nelle campagne, dove la vita dei villaggi rurali già ferve, tra polli che arrostiscono sulle bancarelle e contadini chini nelle risaie. Tutti, indiscriminatamente, mi stanno sulle palle. Ma non lo dico, nè lo mostro. So che la percentuale di brave persone è nettamente maggiore rispetto a quella degli stronzi. Sono prevenuta io, ora, per il recente accaduto. Ma la rabbia si smorza in fretta e si scioglie nella brezza kilometro dopo kilometro.



spesso gli alberi sono utilizzati come altari, e si trovano tra le radici e il tronco statuette votive, sciarpe colorate e offerte







Dopo una ventina di km immersi nel verde riprendiamo lo stradone che porta a nord, e affrontiamo un breve ordine di colline boscose, coperte di vegetazione selvaggia, e liane e arbusti dalle foglie enormi. Saliamo, ormai abbastanza allenati anche per le scalate, e capaci di gestire il passo, il peso e i rapporti a seconda delle pendenze. Che sono tutt'altro che trascurabili: lo dimostra la velocità cui salgono i camion più grossi, quasi più lenti di noi. Ad ogni salita corrisponde equivalente discesa, fino ad una sorta di passo dopo l'ultima rampa. Qui ci fermiamo ad ammirare il panorama alle nostre spalle, tutto un affastellarsi di alture morbide e smussate e dense di vegetazione che si mescola alle nuvole basse. Fa un caldo che si sguara. Si sguascia. Ci si scioglie. Registro un video che cancello: sembra che ho barba e baffi bianchi come Gigi da tanto sono imperlata di sudore che riflette la luce lattiginosa. Ma che paesaggi! Linfa e vapor d'acqua si mescolano, cielo e terra si sfiorano così, in punta di dita, con un fremito impercettibile, l'attimo esterno in cui i lembi delle cose lontane si uniscono, una battigia di ciò che sta in alto.
Approfittiamo di un belvedere pe scattare qualche foto e riprendere fiato. Ci sono diversi baracchini di cibo e gingilli vari, alcuni con altoparlanti a cassa dritta che sparano nell'etere musichine e richiami, che dio, qualsiasi dio se li porti, e ritrasformi questa entropia in fulmini che colpiscano chi dice che ho cacato nell'asciugamano bianco. Forse sono un pochino ancora arrabbiata.






Accanto al belvedere e ai baracchini c'è anche una torre di guardia con tanto di manganellone fallico dell'esercito, chè questo punto strategico segna il confine tra la provincia di Uttaradit, da dove veniamo, e quella di Phrae, dove stiamo andando. E davanti al manganellone? Statue di galletti. Che qui piacciono tantissimo. Ci sono statue di galli grandi, grandissime e medie e minuscole. Nelle case, nei templi, nei parchi, sugli ingressi, sulle strade. Oh, quanto garbano i polli! E in effetti assomigliano nelle fattezze a quelli che razzolano liberi un po' ovunque. Sono più magri e alti dei nostri, con le zampe lunghe e il corpo affusolato. Sembrano proprio dei velociraptor. E che corse fanno quando si spaventano perchè passano le auto!



Inizia la discesa, e la strada si apre a sentieri che portano a villaggi seminascosti, tra valli e pieghe di queste colline. Il prodotto di punta sono le girandole. Seguono aquiloni e scope di saggina. Il tutto esposto in decine di banchetti tutti uguali, in fila, uno dopo l'altro. Si fanno giusto un pelo di concorrenza... Anche perchè quante girandole si potranno mai vendere in un giorno, in un posto così?





enorme arco di ingresso cittadino in costruzione


Den Chai, cittadina sonnolenta che fu base militare durante la Grande Guerra (ebbene sì, è arrivata anche qui) ci accoglie con le sue statue curiose. Tigri vestite, cavallini con stupa in groppa e altre tigri vestite. C'è qualcosa dell'immaginario di Kung Fu Panda, qui.
L'apice si raggiunge però con il santuario moderno al cui ingresso stanno il classico Naga serpone e l'istrice aguto che tiene alla larga chi vorrebbe sedersi un attimo.







Tra una curiosa effige e l'altra scoccano i 70km, e, ormai tornati al piano, entriamo in Phrae. Avevo previsto, inizialmente, di fermarci qui per la notte, perchè questa città merita una visita. Ma in questi giorni ho rivalutato le tappe e deciso che ha più senso visitare il centro storico con calma, ma in bici, e poi proseguire oltre almeno una trentina di kilometri ancora, in modo da pedalare sia oggi sia domani due tappe di poco superiori ai 100km (e non 70 e 140, che non si può sentire).
Due parole su Phrae. Questa cittadina tranquilla e poco nota, con i suoi 15.000 abitanti, di cui una bella fetta monaci, ha una storia interessante, una cultura ricca mista tra quella dell'Isan e quella di Lanna, e una fiorente industria tessile. Si trova sulle rive del fiume Yom, che rende fertile questa provincia montuosa e rurale.
La fondazione è datata al periodo Sukhothai, nella terza decade del 1300. Nel 1500 era un avamposto del regno di Lanna. Nel corso dell'Ottocento tutta la zona divenne centro dell'industria del legno di teak, di cui era ricchissima (oggi, nonostante il divieto a livello nazionale di disboscare, non ne esistono più che pochi esemplari superstiti). Avevano sede qui diverse compagnie da tutto il mondo: India, USA, Europa... Con tanto di ricchi commercianti stranieri, missionari e il carrozzone variegato dell'economia globale. Il tutto mentre qui resisteva un regno autonomo dal Siam. Nel 1902 ebbe luogo la rivolta di Ngiao, condotta da minatori Shan ribelli che attaccarono forze dell'ordine e governo di etnia Tai. Tra un massacro e una repressione violenta, corroborati dall'intervento delle compagnie commerciali europee, la rivolta fu sedata e con essa il regno di Phrae ebbe termine, per passare sotto al controllo del re del Siam. Nella Seconda Guerra Mondiale qui si trovava un quartier generale dei partigiani thailandesi, che si opposero all'invasione giapponese (che il governo di Bangkok aveva permesso). 

Phrae è facile da visitare: non è caotica nè trafficata; non ci sono turisti. La gran parte delle attrazioni si trova all'interno delle antiche mura, in un'area molto ridotta. Per il resto son belle casette in legno tradizionali e un susseguirsi di saluti da parte della gente, considerata qui particolarmente simpatica. La nostra visita inizia da Wichairacha house, spettacolare villa interamente il teak costruita da artigiani cantonesi nel 1898, che, pare, sarà trasformata in museo. Lo meriterebbe davvero.



Ci spostiamo poi ad un complesso di templi, il Wat Phra Non. Risale al 1700 e deve il suo nome ad una statua di Buddha sdraiato molto veneata dai locals. La sala delle ordinazioni, invece, è ottocentesca, con il suo tetto imponente e la facciata in legno dorato, decorata con scene del Ramayana. Un ulteriore edificio cela una statua del Buddha avvolta in tessuti thai lu ornati con perline e lamine di metallo. Quando noi arriviamo è in corso una funzione dedicata ai chiassosi adolescenti di quella che pare un'uscita didattica. Una gita. Pure qui. Sono perseguitata dal mondo-scuola! Non si è mai abbastanza lontani... I ragazzini sono uguali in tutto il mondo e si distraggono dalle parole dei monaci per fissarci, darsi di gomito, salutarci e ridacchiare.












un sacro barchino sottilisssssimo







accanto alla statua del Buddha sdraiato ci sono dei foglietti che contengono preghiere prestampate, richieste di grazia et similia, in inglese, thai e cinese. Si lascia un'offerta, si prende il foglio come scontrino della transazione







Dopo esserci goduti alcuni angoli tranquilli del complesso, quelli senza scolaresche per intenderci, e aver apprezzato la bellezza del luogo, ci spostiamo alla Vongburi House, o Pink Mansion, oggi museo privato. E' una villa su due piani in teak, ed è stata la residenza dell'ultimo principe di Phrae, che ovviamente godeva di una redditizia concessione sulla vendita del pregiato legname. La costruzione risale al periodo 1897-1907


Passiamo per il Wat Phong Sunan, tempio cittadino moderno; non ha un valore storico in sè, ma è estremamente scenografico con le sue statue in stucco, il Buddhone sdraiato dorato e la gigantesca tartaruga. I monaci gironzolano e ci tengono bonariamente d'occhio mentre scattiamo qualche foto con tanto di biciclette.









Giungiamo quindi al Wat Luang, il più antico tempio di Phrae, che risale al periodo stesso della fondazione della città (XII o XIII). Qui si conservano l'antica porta di ingresso alla città, una statua di Chao Pu, uno dei primi re di Lanna e un grande chedi ottagonale su base quadrata sostenuto da elefanti e diversi reperti trovati in loco risalenti a periodi più o meno antichi. Purtroppo il museo, che espone anche foto splatter di esecuzioni del secolo scorso, è chiuso (si può visitare solo nei weekend). Qui non c'è nessuno, a parte un monaco che si ritira appena arriviamo. Regna una pace assoluta e sulle panchine all'ombra degli alberi potremmo fermarci un'ora o un secolo.







Pian piano cominciamo a portarci fuori città, ma non prima di aver visto il tempio che ospita la pietra di fondazione di Phrae, tutto decorato con statuette di tigri,



e la Khum Jao Luang, del 1892, un mix di architettura europea e thai, dimora del "Signore supremo" di Phrae, poi del governatore. Oggi è un museo di storia locale; nel seminterrato venivano tenuti in cattività e puniti brutalmente gli schiavi e i prigionieri.


Ultimo locus amoenus che non vogliamo perderci è il Wat Jom Sawan, tempio che si trova appena all'esterno della cinta muraria della città vecchia. Risale alla fine del XIX secolo e presenta influenze shan e birmane. Il chedi adiacente è più antico. Qui non troviamo studenti, ma pullmini di anziane... Sarà una gita dell'Auser! Il tempio pare dedicato all'arte tessile. Ci sono stuoie ricamate all'esterno, mentre all'interno altari con gomitoli di filo arancione e telai tradizionali. Una signora ne sta usando uno... Mi fermo affascinata a osservarla a lungo.









Ora, soddisfatta la sete di bellezza e storia, possiamo ripartire. Grazie Phrae, ci hai regalato tanto! Uscendo, incappiamo in un rito indecifrabile: a bordo strada, su un marciapiede qualsiasi, monaci intonano un canto mentre alcuni ragazzini e passanti stanno ad ascoltare, ed una signora anziana dirige il fumo dei bastoncini d'incenso su di loro, con una scopa di saggina. Il tutto nel traffico di auto e motorini!


Gigi, tutto soddisfatto della tappa, finora, esclama: oggi che fa bel tempo portiamoci avanti il più possibile! Facciamo ancora non 30, ma 50, 60km! E, proprio mentre lo dice, si addensa davanti a noi un fronte di nubi nere che preannunciano il peggio. Arriva, eccolo, il monsone quotidiano. Questa volta, però, non ci coglie impreparati. Dopo pochi minuti troviamo riparo sotto ad una tettoia a bordo strada. Restiamo lì per oltre un'ora, in attesa che spiova. Ne approfitto per pubblicare qualcosa sui social. Intanto due ragazze in motorino, anche loro momentaneamente qui per scampare al diluvio, si tolgono la divisa scolastica (sotto alla gonna hanno dei pantaloncini, e sotto alla camicia una t-shirt), si sparano duemila selfie dopo essersi pettinate e truccate, indossano il k-way e ripartono.






Quando spiove ce ne andiamo anche noi, asciutti e soddisfatti della strategia che ha funzionato. Mancano 25km circa ad una struttura sulla strada che ho individuato come papabile. Pedaliamo nel paesaggio post-apocalittico del dopo-monsone, tra risaie allagate, campi fradici e contadini che cautamente tornano a recuperare gli attrezzi o se ne vanno finalmente a casa, in bici o nei cassoni dei pick up. Intorno si vedono ancora colonne di pioggia e muri di nubi, ma pure un grandioso frammento di arcobaleno che è di certo un buon presagio.





Il "resort" individuato sulla mappa non ci convince: è in mezzo al nulla, isolato e senza centri abitati vicini, cosa che ci rende complicato recuperare la cena. Allora proseguiamo ancora, fino a quasi 120km, per raggiungere la cittadina di Song. Qui ci sono parecchie strutture. Seguiamo i cartelli scritti a mano di una "Homestay" ben recensita, e arriviamo sulle rive di un fiumiciattolo, in mezzo alla vegetazione, ad un gruppo di casette carinissime. Dopo qualche difficoltà, riusciamo a richiamare l'attenzione dell'anziano proprietario, che abita in una delle strutture, e parla solo thai. Non capisce che, pure parlando piano e scandendo bene, continuo a non intendere. A gesti, sempre più disperati, dopo lungo tempo riesco a farmi dare le chiavi di una casetta. Che fatichella pure oggi! Ma che bel posticino ci fa da casa, stanotte! E' davvero tenuto benissimo e arredato con gusto.



classico bagno thai: la doccia non è separata da vetri o piatto, e per scaldare l'acqua si usa uno scaldabagno elettrico a muro, posto accanto al doccino

Penserete: giornata volta al termine, anche questa tappa si archivia. E invece no! Andiamo a far spesa per la cena in bici. E mentre io sono intenta negli acquisti, Gigi fuori si accorge di aver rotto un raggio della ruota posteriore. Da giorni fa rumorini sospetti, ma aveva controllato e pareva tutto a posto... No problem: ne ho di scorta. Me li porto sempre dietro, da quando ne ho sfasciati diversi nel viaggio in solitaria da casa a Mosca. Allora ero giovane e inesperta, ma poi, a forza di incappare in problemi, ho imparato ad attrezzami. Toniamo, ceniamo e poi ci mettiamo all'opera... Per scoprire che i miei raggi non sono compatibili con il cerchio di Gigi. Ma come, abbiamo la stessa bici, stesso telaio, stesse ruote, stessi componenti... Eh, no! Troppo facile! Lui ha cambiato cerchi, senza dirmelo, e non si è fatto dare raggi di scorta! MannagGigi!
Qui non ci sono ciclisti. E con qui intendo nell'arco di 100km. L'unica è raggiungere Phraya, la meta di domani, che è una città mediamente grande, sperando che la ruota regga l'intera tappa. Lì c'è un meccanico ciclista che potrebbe avere un raggio, o al limite un cerchio intero compatibile. Ho già prenotato un albergaccio marcio a 7 euro che si trova a due passi dal negozio, proprio in riva al lago. Sperem... Alle brutte, Gigi prenderà un passaggio fino a Chiang Rai, dove io arriverò dopodomani... Lì di certo un modo per sistemare la situazione si trova.


18/7
Song-Phraya
104km

La tappa di oggi è stata una climax positiva in crescendo: partita malino, proseguita maluccio, poi migliorata e finita benissimo. Una figata, insomma! Lasciatemi spiegare.
A causa della congiuntura negativa di raggio rotto e tentativi di rimediare, e un enorme pomelo che mi ha impegnata per un'ora nel pelarlo e mangiarlo, ho iniziato a scrivere che erano già le 11 e finito alle 3 di notte. Inoltre, per ignote cause o divina punizione per tutte le bestemmie che caccio, le 4 ore di scrittura appena citate sono state funestate da una continua corsa in bagno; nulla di troppo allarmante, ma nemmeno piacevole.
8 del mattino, Gigi mi sveglia. Mi sento uno straccio. Non ho dormito abbastanza, e tutto quel che ho mangiato nell'unico pasto vero e proprio di ieri ha abbandonato il mio corpo senza passare dal via, senza nutrirmi. Sono uno zombie. Il caffè solubile non basta a rimettermi in sesto. Il clima è uggioso, fuori, con nuvoloni bassissimi e un'umidità allucinante da monsone notturno. Il mood è teso: Gigi è preoccupato per la sua ruota monca, ha fretta di arrivare alla meta, ma di mezzo ci sono 100km, due file di colline da superare e una volpe malconcia da trascinarsi dietro. Bussano alla porta. E' una ragazza, si presenta come la figlia del proprietario con cui ci siamo intesi ieri sera. Esce Gigi a parlare, io mi sto vestendo. All'inizio crede sia una che chiede soldi per beneficienza o qualcosa del genere. Poi capisce che vuole lasciare a lui una busta con 900baht (una bella sommetta, 22 euro circa, quello che spendiamo in due giorni per mangiare e dormire in albergo). Sulla busta c'è scritto: 1000-100=900 in numeri arabi. Mi viene il dubbio: vuoi vedere che ieri sera, complici buio e stanchezza, pagando la stanza, ho dato all'omino una banconota da 1000 e non una da 100, per errore? A quanto pare è proprio così: la ragazza, il padre ed io ci intendiamo, e li ringrazio tantissimo per l'onestà. Non me ne sarei mai accorta. Il paron poteva far finta di nulla e approfittare della dabbenaggine dei farang che, oltre a puzzare, sono anche rincoglioniti. E invece no! E' stato corretto. Anche questa è una "società della colpa" (la coscienza individuale riconosce ciò che è giusto da ciò che non lo è, anche se nessuno sa e nessuno ha visto), e non una "società della vergogna" (immorale è ciò che viene giudicato tale da chi ti vede; se nessuno ti vede, puoi fare quel che vuoi). Per di più la ragazza ci ha portato due croissant caldi con prosciutto e formaggio, per colazione. Ma che cuore! Tutta questa cura, una tale gentilezza mi rimettono in pace con il popolo thai, dopo lo spiacevole episodio di ieri. Bisognava salire fino a Song (duh dah, duh dah!) per ripristinare gli equilibri.
Dopo un po' di chiacchiere con padre e figlia, che ora si sentono in confidenza sufficiente da farci qualche domanda sul nostro viaggio (cosa rarissima qui: per discrezione tutti si fanno i cavoli propri, pur incuriositi -come si evince da sguardi e commenti), partiamo. 
La bici di Gigi produce rumori sinistri e anche destri. Io sono conciata da dare al gatto.
I primi kilometri serpeggiano tra campagne fradicie e villaggi. La traccia poi, d'improvviso, si tuffa in un fiume fangoso che pare il caffè che bevo qui ogni giorno. Non c'è storia, sulla mappa esiste una linea che nella realtà non c'è. Forse è un guado percorribile nella sola stagione secca... Fatto sta che ci perdiamo nel fango colloso degli argini, inseguiti dai cani; vediamo una signora in bici andare spedita verso l'acqua, forse lei sa... Provo a chiederle, in inglese e a gesti, se si possa passare. Lei annuisce, poi apre un'enorme rete da pesca a forma di ombrello e fa segno di seguirla. Ma per darci all'ittica! Signora, suvvia, siamo persi, non così disperati da cambiare sport e mestiere!





Pur nel rincoglionimento, riesco a rifare la traccia, e a trovare un ponte vero non troppo distante. Attraversiamo un villaggio dove è in corso una sorta di processione, aperta e chiusa dalla polizia, con anziani che cantano e un furgone che trasporta la statua di un monaco. Il tutto nella palta spessa e densa, come il carroccio prima della battaglia di Legnano. Curiosità e straniamento sono sentimenti reciproci, da noi a loro e viceversa. Poi si aprono i campi di mais e le risaie, e comincia a piovere. Una goccia, due. Tre, dieci. Diluvio.










Naturalmente la pioggia si fa più intensa quando iniziano le salite del primo giro di giostra sulle colline. Nuvoloni bassissimi, muro d'acqua e vegetazione fitta chiusa sulla strada fanno sì che paia notte, una notte sbagliata e innaturale, un'oscurità opalescente da fine del mondo. In più la strada è stretta e piena di buche, difficili da individuare con le pozzanghere che si creano, e scivolosa. Passano pure tanti camion: ci sono dei lavori in corso nelle valli intorno. Insomma, non manca nulla: siamo fradici, Gigi con la bici zoppa, io debole e malmessa... E mi scappa pure la pipì! Per fortuna al "passo" (lo scollinamento più alto trai molti) ci sono dei bagni pubblici abbandonati. Se non ho preso malattie lì, da quelle zanzare, non ne prendo più. Sulle ripide rampe in discesa, oltre al timore di scivolare, finire in una buca o farsi prender sotto da un camion, fa pure fresco. Dobbiamo bardarci con i k-way.


La strada tra le colline si fa più larga, e le alture meno ravvicinate e impervie. Ci immettiamo su uno stradone, l'1, che seguiremo per la restante metà tappa. E' talmente tutto fradicio e zuppo che strada e cielo si mescolano e confondono e Gigi, davanti a me, è un puntino che scompare tra i vapori d'acqua. Ci supera un contadino su una bici di due secoli fa, salutandoci: ha il classico cappello largo bambù, un machete a tracolla, un camicione blu, pantaloni mimetici e stivali da fantino. Pochi denti, un largo sorriso. Che tipo!




Facciamo una breve sosta. O meglio, impongo a Gigi di fermarci un attimo. Siamo solo al km 45, neanche a metà, ma io già sono agli sgoccioli e non ne ho più. Lui invece ha una fretta del demonio, vuole arrivare rapidamente a destinazione e farsi sistemare la bici. Lo capisco. Ma ho bisogno di un caffè caldo. Ripartiamo subito. E per me inizia una strascinata agonia che mi accompagna per quasi tutta la tappa. La strada è ampia e in falsopiano, leggera salita. Attraversa soprattutto aree rurali incolte, boschi e pratoni. Pochi paesi mezzi disabitati. Vento contrario. Non piove più, anzi, fa un caldo appiccicoso da mal di testa febbrile. Nulla che distragga, nulla che aiuti a far passare i kilometri. Non riesco a spingere oltre i 12-13km/h. Gigi scalpita. Cerca di mettersi davanti a tirare, ma nemmeno così mi schiodo. Ci sono momenti in cui mi si chiudono letteralmente gli occhi. Se mi buttassi per terra, pure lì sull'asfalto, mi addormenterei di sasso. Ma non voglio far soste ulteriori e rischiare di arrivare tardi dal meccanico di Phayao, che nemmeno sappiamo se esiste davvero, se è aperto, se può risolverci il problema. E quindi proseguo, ciondolando, quasi dormendo, ma continuando a far girare le gambe. Tutto si complica quando, a causa di un cantiere, l'ennesimo, le corsie si riducono a due sole, una per senso di marcia, e senza bordo, strette strette. Per fortuna il traffico non è così intenso, ma i camion ci pelano una fettina di prosciutto ogni volta.
Poi, improvvisa, inattesa, fortuita, come l'allegria di Salinas, la discesa. Il falsopiano ci ha portati abbastanza in alto da poter godere ora di quasi 15km di lunga, lieve e meravigliosa discesa. Ormai mancano 20km all'arrivo. Mi riprendo un poco, anche perchè ricominciano le città e la mia mente si risveglia.


Con un'unica, insperata tirata, raggiungiamo Phayao, che pareva lontanissimissima e irraggiungibile fino a qualche ora fa. Un grande chedi dorato saluta il nostro ingresso. Il traffico si fa caotico di studenti in motorino (in periferia ci sono diverse sedi universitarie) e carretti degli ambulanti. Ricomincia pure un po' a piovere, ma chi se ne frega, ormai siamo arrivati. Imposto sul navigatore l'unico negozio che ha la parvenza di un meccanico ciclista come lo intendiamo noi, con pezzi di ricambio e attrezzi.


In breve siamo davanti a quello che pare più un "rutamat", un robivecchi, una discarica, il cimitero degli elefanti dei velocipedi del tempo che fu. Non c'è nessuno. Entro nel negozio e mi salta addosso un cane tarchiato e rabbioso, che, per fortuna, è legato e arriva a sfiorarmi ma non a mordermi. Che accoglienza calorosa! Il trambusto, però, richiama il garzone del meccanico, e poi il paron. Spieghiamo il problema e idue annuiscono, possono aiutarci! Che leggerezza improvvisa, la felicità davvero è una piccola cosa, come dice Trilussa. Scarichiamo la bici, che viene appesa al trespolo. Tirano giù la ruota posteriore, via copertone e camera, via il nastro paranippli, via il moncone di raggio. Poi il meccanico va a recuperare un enorme secchio da vernice colmo di raggi sfusi. Ne pesca alcuni, li misura a occhio confrontandoli con quelli montati, ne sceglie uno e via, lo monta e, con uno strumento curioso che non ho mai visto, ricentra la ruota, tirando pure gli altri a modino, come stesse accordando un violino. Che bello vedere tanta maestria all'opera. Quando non c'è di mezzo troppa tecnologia, e le cose restano semplici, tutto si risolve grazie alle mani esperte di chi conosce il mestiere. Gigi pure è estremamente soddisfatto, e lo dimostra la posa da umarell sempre meno contrita e più appagata.





100 baht, e tutto è sistemato. Il viaggio può proseguire e non c'è più nulla di cui preoccuparsi, se non l'ordinaria logistica. Che benessere indicibile! Ora sì che possiamo goderci Phayao. La guida afferma che poche persone, anche tra i thailandesi, conoscono questa quieta ma attraente cittadina, definita talora, in modo decisamente un po' altisonante, "la Vienna dell'Indocina". Questa città poco nota, però, si rivela subito in tutta la sua bellezza con templi, case tradizionali in legno e pure parchi e giardini pubblici tenuti in perfetto ordine. Passiamo dal tempio che custodisce la pietra di fondazione della città, e dal Wat Sri Khom Kham, il luogo sacro più venerato del luogo, la cui costruzione è iniziata nel 1491 e finita nel 1923. Altro che Duomo, o Sagrada Familia!




A farla da padrone, però, è il lago, il Kwan Phayao. Che non è un lago ma una palude, alimentata da una sorgente naturale e dalle piogge, e il cui livello, nella stagione secca, viene controllato artificialmente perchè non si prosciughi. Queste acque custodiscono i resti di un tempio di 500 anni fa, visitabile con una gita in barca, antichi manufatti e numerose strutture sacre ormai sommerse. Oltre a 50 specie endemiche di pesci e un vivaio!
Il nostro albergo si affaccia proprio sul lago ed ha una finestra dalla quale possiamo goderci il tramonto. In realtà appena arriviamo io crollo sul letto, ancora vestita da ciclista, solo togliendo casco e scarpe. Dormo circa un'ora. Poi doccia, e siamo pronti per uscire a cena. L'albergo in sè è un posto ben strano. Da fuori pare un edificio abbandonato. Al pianterreno c'è un bar palesemente in disuso da tempo, con i tavoli e le sedie ammonticchiati lungo le pareti. Ci fanno lasciare le bici lì, in mezzo al locale, tra un divanetto e il bancone. Al primo piano c'è una terrazza aperta, senza finestre nè vetri nè protezioni. Poi ci sono una cucina, una montagna di scatoloni e una gabbia con dentro tre gatti. Non credo siano allevati per scopi alimentari, ma non ci giurerei. Al secondo piano, un po' spettrale, le camere. La nostra non è male, solo un po' vecchia e lezza, ma con vista che vale tutti i 7 euro che costa.







Oggi niente spesa: ci concediamo il ristorante. Ce ne sono tantissimi sul lungolago (lungopalude) che è animato da bancarelle, luci e una folla di persone che paiono in vacanza. C'è anche una piacevole aria fresca. Sembra di essere in Liguria, o sui nostri laghi, ad Arona, o a Lovere. C'è proprio un clima piacevole, un'aria rilassata e di festa. Ci sediamo ad un ristorantino pieno di locals (quindi deduco si mangi bene) e ci sfondiamo di cibo. Gigi va di riso saltato con verdure, io di verdure saltate con riso glutinoso. Da condividere prendiamo un piatto di pollo in salsa di cocco e curry. Tutto spaziale. E l'invasione di libelluline diafane che svolazzano ovunque e vengono a morire nel cibo e nei bicchieri non ci disturba affatto. Son proteine anche quelle.







Sazi e sereni decidiamo di fare una passeggiata, prima tra i localini carinissimi, dai quali spesso si sente risuonare musica dal vivo, sia poi sul lungolago verso la fiera.




pure al 7-Eleven vendono le confezioni con le offerte da fare ai monaci, con beni di prima necessità e prodotti per l'igiene personale





Ci tuffiamo così tra bancarelle di street food e abbigliamento, cover per smartphone e altro street food. Ci sono tutti i prodotti tipici più amati dai thailandesi.


dolci di riso caramellato

pesce secco e fritto

spiedini da far grigliare al momento


sushi e simili



frutta, pelata e affettata, frullata, in succo


micropizze



la cartomante





insetti


dolci, ciambelle, simil-bomboloni

crepes dolci con latte condensato e frutta secca

latte di cocco fresco

spiedini di caramelle, dolcetti e frutta candita




Il tutto condito da artisti di strada, gruppi di ragazzi che ridono e mangiano il gelato, band su diversi palchi e nessunissimo farang a parte noi. Si sta proprio bene qui. E domani arriveremo a Chiang Rai, dove ho già prenotato una stanza in centro per due notti, perchè faremo una sosta di un giorno dopo due settimane pedalate ininterrottamente... Cosa si può volere di meglio?


19/7
Phayao-Chiang Rai
96km

La notte trascorre in un sonno profondo, nel buio quieto e silenzioso della palude. Temevo che fiera e festa prolungassero il casino fino a tarda ora, e invece no. Goderecci ma rispettosi questi thailandesi! Solo si sente talora un gatto di quelli in gabbia miagolare cupo. La cosa mi disturba, come il pensiero stesso della loro cattività. Sono anche ben tenuti, puliti e in ordine, ma in uno spazio troppo angusto... D'altronde al gattile di Monza dove ho adottato i miei mici, i felonzi stanno in condizioni anche peggiori... Cerco di non pensarci. La sofferenza degli animali mi addolora in modo insondabile e mi ferisce. Tende oltretutto a sovvenirmi tutta insieme, perchè, per associazione, penso a tutte le bestie che per qualsivoglia motivo, sfruttamento o cattiveria o stupidità, sono costrette a patire e a vivere in condizioni di patimento. E questa marea montante è ingestibile e mi travolge e annichilisce. Faccio quel che posso nel mio piccolo, il resto sta oltre la mia possibilità di intervento e va lasciata andare. Così, piombo nel sonno.
Mi sveglio all'alba e godo di Eos dita di rosa che sfiora la superficie del lago, per poi tornare a dormire. 
La mattina quando suona la sveglia la luce già è alta ma grigia e lattiginosa. Però le nuvole basse paion lontane, sull'altra sponda, a incoronare le alture.


Facciamo colazione in camera (Gigi ieri sera ha preso, su mio consiglio, due panini da mangiare con la marmellata, salvo scoprire tardivamente che celano dei wurstel vagamente mummificati... E vi dirò, l'insieme non è poi così male!) e siamo pronti a pedalare questi quasi 100km di pianura che ci separano da Chiang Rai, il nostro zenit settentrionale di questo viaggio. Costeggiamo il lago, che ora è deserto e silenzioso, e salutiamo i naga che incorniciano il chedi d'oro nel suo centro. Passiamo anche sotto allo sguardo di Pho Khun Ngam Nuam, sovrano del XIV secolo sotto la cui guida la città-stato di Phayao fiorì e si espanse, anche grazie ai suoi rapporti pacifici con i sovrani di Chiang Mai e Sukhothai; vuole la leggenda che il meteo obbedisse ai suoi desideri. La sua statua è ancora oggi molto venerata, e ci sono fiori e incenso freschi ogni giorno.



In breve siamo fuori dalla bella cittadina che ci ha stupiti così piacevolmente e inaspettatamente. La tappa oggi scorre liscissima e rapida, e la strada è un tappeto di velluto steso su cui le ruote passano quasi senza attrito. Non ci sono salite, non piove, fa caldo ma non troppo. La brezza è leggera a favore. Ci mangiamo i kilometri come noccioline, tra curiosi assembramenti di sculture di dubbio gusto e casette tradizionali che affacciano alle risaie,







I paesi che incrociamo sono segnalati, all'inizio e alla fine del territorio urbano, da templi più o meno grandi, più o meno curati, più o meno ricchi. A bordo strada le bancarelle vendono sostanzialmente solo due prodotti: canna da zucchero fresca e anguille, vive o quasi, esposte in sacchetti trasparenti pieni d'acqua. Lo spettacolo non è dei più piacevoli, in questo secondo caso. Rimane invece affascinante ammirare come la canna da zucchero venga tagliata e preparata. Che spettacolo, che dono della natura!








Il programma di oggi consiste nel pedalare spediti verso Chiang Rai, dove, domani, faremo una sosta di un giorno (la prima dopo due settimane pedalate ininterrottamente... Abbiamo già accumulato 1660km e 8000m di dislivello). Serve fermarsi un attimo, il corpo lo chiede. Si sente la stanchezza emergere dal fondo delle fibre. C'è solo una cosa da vedere prima dell'arrivo: il Tempio Bianco, Wat Rong Khun. Si trova una quindicina di kilometri a sud della città, ma è una delle attrazioni più pubblicizzate e più visitate. Per sbaglio entriamo dal retro, attirati da una gigantesca struttura dorata. Già gli addetti alla sicurezza mi infastidiscono, cominciando a menarla con il solito ritornello: "la bici qui no, qui neanche, là neppure". E allora me la infilerò nel culo e camminerò con una ruota che sporge, che vi devo dire. Degne di nota anche le statue che indicano i bagni per uomini e per donne.










Dopo aver capito dove fosse l'ingresso, usciamo e rientriamo dalla parte giusta. Altri rosari sgranati, quando mi dicono che le braghe al ginocchio da bici non vanno bene per entrare. Allora apri le borse, pesca i bracaloni, torna in biglietteria, no l'altra biglietteria, nemmeno questa, fai una giravolta, falla un'altra volta, alla fine riesco a entrare. Gigi rinuncia e rimane fuori al fresco a bere limonata. In effetti è uscito il sole e fa un caldo che dà alla testa. Letteralmente. Il sito è pieno di crani e statue di teste mozzate e mostruose appese qua e là.






Il tempio è famoso per il suo colore immacolato, che appresenta la purezza, e per i frammenti di specchio che ne impreziosiscono l'intonaco, simbolo della leggerezza del Buddha. Ma fin qui nulla di strano. Decisamente più originale, surreale, grottesca e d'impatto la rilettura della dottrina buddhista che l'artista thai Chalermchai Kositipat opera. Tutto questo po'po' di roba è in costruzione dal 1997, e forse sarà terminato nel 2070. Ogni dettaglio del luogo ha un valore simbolico e invita a riflettere.








"Per raggiungere l’edificio centrale (Ubosot) si deve attraversare un ponte che sovrasta mani supplicanti di anime in pena che stanno sprofondando negli inferi; si tratta del “ponte del ciclo delle rinascite (o reincarnazioni) e simboleggia che la strada per la felicità sovrasta la tentazione, l’avidità e il desiderio. Dopo aver attraversato il ponte, il visitatore arriva alla “porta del cielo”. Due enormi “naga” bianchi accompagnano i fedeli verso il tempio all’interno del quale, oltre ovviamente alle immagini del Buddha, si possono ammirare affreschi piuttosto insoliti." (fonte: il sito dell'Ente turismo thailandese).
Gli affreschi insoliti, che non si possono fotografare, ritraggono, oltre a scene della vita del Buddha e esempi del samsara, episodi e personaggi contemporanei, come l'attentato alle Torri Gemelle e Neo di Matrix.














Non so dire se questa opera meriti tutta la fama di cui gode. Forse sì, perchè, in ogni caso, colpisce le corde emotive e costringe ad una riflessione. Cosa che è tipica dell'arte. Inoltre i giochi di luce del bianco e degli specchi, che paiono sdoppiarsi e richiamarsi con le guglie delle nuvole in cielo, sono meritevoli. Le strutture circostanti sono invece più buffe che belle. Ci sono pareti di roccia con cascatelle e statue di Buddha e tartarughe ninja, teste di orchi del film "Il signore degli anelli", personaggi dei manga e raffigurazioni che richiamano Alien. C'è da dire che anche le grandi opere del passato, che oggi apprezziamo e consideriamo immotali e fuori dal tempo, rappresentavano invece la loro epoca, e la loro contemporaneità, pur cogliendo alcune sfumature di universale che ci permettono di "sentirle" presenti e vive ancora. Quindi bravo il nostro artista che, oltretutto, ha messo in moto un bel giro di attività e soldini collaterali. Oltre ai 100 baht che costa il biglietto del tempio, la visita alle gallerie e alle mostre presenti nel complesso si paga a parte. Ci sono diversi gift shops all'interno, e, subito fuori, un'intero mercato coperto di negozi di souvenir e cibarie per i turisti. Che in effetti sono tantissimi, thai e stranieri, asiatici e occidentali.










Esco, stordita dal caldo, recupero Gigi, e notiamo che le nuvole intorno a noi stanno assumendo un aspetto sempre più preoccupante e minaccioso. Non facciamo in tempo ad elaborare questo pensiero, che, ancora con il sole bruciante spalancato in cielo, iniziano a cadere i primi goccioloni. Nel giro di un istante, diluvia. Siccome mancano solo 13km all'arrivo, e non abbiamo voglia di dilungarci oltre qui al Tempio bianco, decidiamo di pedalare comunque, sperando che il monsone non colpisca troppo ferocemente. Invece lo fa. Dopo pochi minuti siamo fradici e il vento ci raffredda i vestiti inzuppati addosso. Sotto alla tettoia di un barbiere ci infiliamo i k-way. Nella mezz'ora abbondante che ci separa dall'hotel prendiamo tutta l'acqua che il nostro bel pianeta azzurro ha da offrire. Le strade si allagano e pedaliamo con i piedi in ammollo nelle pozzanghere. Non si vede nulla, e pure le auto procedono a passo d'uomo (per fortuna) e con i fari accesi. La nostra consolazione è che ci aspettano una meravigliosa lavatrice e una benedetta asciugatrice, nelle quali, potessi, infileremmo anche noi stessi.



Ormai trasformati in anfibi, batraci a pedali, arriviamo in centro, dove ci attende il Chiang Rai hotel, una grande e ormai un po' vecchiotta struttura a tre stelle che, per i 10 euro a notte che ci costa, ci pare l'Hilton. Già che fuori esponga un cartello con scritto "bike parking" ci piace. Alla reception poi, sono in vendita cibi di ogni tipo e generi di prima necessità e per l'igiene, compreso detersivo e ammorbidente per il bucato. Nella lobby si trovano 3 lavatrici e 2 asciugatrici a gettoni, oltre a un grande stenditoio e un ì'asse con ferro da stiro. Ci sono a disposizione microonde, bollitore e utensili da cucina. Fanno la differenziata. Il grande cortile interno, coperto, è il luogo perfetto dove lasciare le bici. La stanza è minimalista ma pulita e fornita pure di acqua, caffè e noccioline. E' il paradiso.









Il resto del pomeriggio si riempie subito di faccende: lavare noi stessi. Lavare e asciugare tutti gli immondi e infangati e puzzolentissimi stracci che ci portimo addosso e nelle borse. Lavare le borse, incrostate anch'esse di fango. Organizzare la visita di domani e le prossime tappe (sono due quelle che ci separano da Chiang Mai, circa 200km con un discreto tot di dislivello). E persino cominciare a guardare i voli di ritorno. Gigi ha deciso che starà fino alla fine del viaggio, fino a Singapore, fino a settembre! Ne sono molto molto felice, non lo davo per scontato. Ma, a tre settimane dalla partenza, si sente ancora in gran forma e sta apprezzando questa avventura. Son contenta! Scopro che oggi ci sono guasti informatici a livello globale, quindi rimandiamo a un altro giorno l'acquisto effettivo del volo di rientro. Intanto, ritirati i vestiti miracolosamente profumati, si è fatta ora di cena. Usciamo, apprezziamo la torre dell'orologio che svetta davanti all'hotel, illuminata dalla luna e dai lampioni, e ci buttiamo nel primo ristorantino che ci ispira, e da cui esala un profumo delizioso. La cucina è sulla strada, ma ha dei posti a sedere all'interno.




Per la cifrona di 5 euro totali, comprese due bottiglie di Coca zero, ci scofaniamo Gigi un piatto di riso fritto con pollo e ovetto, io una delizia nuova: il pad see-ew. Trattasi di pasta di riso fresca a base larga fritta al salto a fiamma alta in wok, con salsa di soia, verdure e spezie varie. E' stra-buo-na!!! E per non farci mancare nulla, condividiamo un piattone di wonton misti fritti con salsa agrodolce. Superbi.




Siccome siamo ciclofarang, non ci facciamo mancare poi un dolcetto e della frutta, da buttar giù con le bevande spaziali che si trovano qui. Ad esempio questa soda gassata gusto yogurt e lychees. Mi azzardo anche ad acquistare un profumino, minuscolo, che costa 0,5 euro. Oggi mi sento pulita e fighetta, mi piacerebbe non puzzare di carogna per un po', e mi illudo che queste quattro gocce di fragranza allo zucchero filato possano risolvere gli atroci crimini olfattivi dati dalle scarpe da bici, che asciugano ogni giorno nei loro stessi sughi aulentissimi, e dai vestiti da bici quando si inzuppano di sudore e monsone. L'ottimismo è il profumo, è il caso di dirlo, della vita.



Domani non si pedala. Facciamo i turisti a Chiang Rai e dintorni. Ci sono tantissime cose interessanti da vedere, e ne approfittiamo anche per riprendere un poco la postura eretta, e non quella china da gamberetto arrotolato che teniamo in sella. Essendo sabato, abbiamo anche la fortuna di goderci il mercato settimanale che deve essere, già di per sè, uno spettacolo. Non vedo l'ora di buttarmici a capofitto!








1 commento:

  1. Nei viaggi, specialmente impegnativi ed in bici, possono esserci problemi,ma i 2 professori,li risolveranno sempre.

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