venerdì 19 agosto 2016

Diciannovesima tappa: da Grodno a Lida. Il cuore verde della Bielorussia, tra Lenin e gli alconauti

Che meraviglia la tappa odierna! Tanta fatica, ma ripagata fino all'ultima goccia di sudore.
Con oggi ho anche superato la boa dei 2000km, che a pensarli tutti insieme vengon le vertigini; invece è solo la fatica titanica delle formichine.

Devo fare una premessa: nutrivo qualche timore in merito alla Bielorussia; non saprei dare una forma precisa a questa paura. Le paure, di solito, sono ombra che scivola all'orizzonte del campo visivo, sono ignoto, non hanno contorni definiti. Le lungaggini per il visto, la travagliata storia recente, la dubbia politica, le quantità di alcol che notoriamente girano, la diffusa povertà... Insomma tutto faceva pensare a strade colabrodo "alla serba", ad auto sparate a folle velocità verso il coma etilico e a una faticosa pesantezza declinata in ogni passo. I 20km di ieri non potevano essere indicativi: le strade da e per il confine sono sempre mondi a parte, immuni al normale viavai e popolate da loschi trafficoni, cupi militari e lento defluire di anime; l'ho scoperto due anni fa entrando in Turchia dalla Bulgaria; anche lì la strada per Edirne era stata un unicum, deserta e quieta come, procedendo verso Istanbul, non se ne trovano più, ma nemmeno dipinte.
Insomma, temevo. Tanto più che sapevo di dover percorrere la fantomatica M6, sciabolata d'asfalto che taglia a metà tutta la nazione e arriva anche fino a Mosca.
La colazione è stata lenta ma inquieta, fatta da me in stile locale: pomodori, formaggio di capra, pane nero, tè, cereali e miele. Intanto studiavo la strada, già vedendomi tra le strombazzate bitonali dei tir ad imboccare autostrade vietatissime. Sono uscita dall'ostello con un presentimento di morte imminente, stiacciata lì su tre metri di grassa terra bielorussa. Anche perchè avevo dormito poco e mi sentivo più rincoglionita del solito: a Grodno le campane suonano tutta notte, ogni mezzora, e fanno quasi più casino degli ubriachi in strada. Senza contare che il ragazzino che dormiva nel letto affianco al mio aveva, come minimo, la tisi. E io detesto la gente malata, infettiva, pestilente, che mina alla mia salute. L'avrei cacciato in strada con un campaello come i lebbrosi, e invece no, me lo son dovuta tenere lì a due metri dalle mie vie respiratorie, mentre sentivo l'aria della stanza riempirsi di virus diretti tutti alle mie narici.
Insomma, ho salutato quel bellissimo sole mattutino con la dolce tristezza dell'ultimo addio. Poi via, in sella.
Uscendo da Grodno ho rubato allo sfondo sfuocato ancora qualche perla.


"La verità è sempre concreta", come una tonnellata di bronzo.
Perchè Vladimir vi guarda, vi vede e vi giudica.



Il "sol dell'avvenire" splende alto nel cuore del popolo e sa di spighe, ingranaggi, giustizia e vodka


 Però non c'è solo Vladimir a giudicarvi. Anche Lui vi tiene sott'occhio costantemente, brutti comunisti puzzoni e senza dio che non siete altro.






Uscire dalla città è molto semplice, e ci si trova subito catapultati nella campagna profonda. La Bielorussia è così. Un immenso granaio in collina, interrotto ora più ora meno da fitti boschi antichi. Il sole ha fatto il solletico, per l'intera giornata, a tutto quel verde, ed ogni tonalità ha riso di luce vivissima, in un caleidoscopio di colori che da giorni non vedevo. Finalmente l'azzurro del cielo immenso, finalmente il tepore buono di questo agosto così invernale. Finalmente una bella giornata.
I primi kilometri sono stati di campi e paesini; casette in legno dipinte di colori vivaci, automezzi di un altro secolo e una dignità del vivere con poco che si respira nell'aria. Qua e là un lago, a raccogliere l'azzurro e moltiplicarlo nel suo gioco di specchi e scaglie di luce.
Ho anche trovato ben tre ubriachi sversi a dormire (o spirare?) a bordo dei fossi, uno per paese. Lasciati lì a smaltire, con accanto la bicicletta, perchè qui è normale. Sono alconauti in pieno zapoj, la ciucca russa che dura dai tre giorni in su e squarcia la membrana tra i mondi, proiettandoti in quella dimensione dove non hai nome nè consistenza, sei una cosa obliqua che galleggia nel divenire. Che se non sei abituato li prendi anche per cadaveri. Ma magari lo sono, chissà.













Dopo questa cartolina rurale, la strada si è lanciata a capofitto nel cuore della foresta, che, con il suo freschissimo verde, mi ha accompagnata fino all'arrivo. Gli alberi sussurrano allegri, fremono alle carezze del vento, ridono della luce e la fanno scivolare, a gocce d'oromiele, giù fino alle radici e al muschio. Sono alberi felici, non come quelli polacchi, neri, zitti e pregni di sangue secco, come croci.
E dire che anche loro ne han viste tante. Hanno visto bruciare i fienili e i tetti, per quattrocento anni di fila, e poi bruciare gli uomini e le donne. Hanno visto gli eserciti marciare, file di formiche sulla neve, e morire nel gelo proprio come insetti, uno dopo l'altro. Parlavano tedesco, polacco, lituano, francese, russo. altre lingue ancora più barbare, ancora più distanti. Ma solo il suono cambiava. Il senso era sempre lo stesso, un grido ferino urlato per secoli all'unisono: morte, morte, morte.
Eppure questi alberi si fidano ancora dell'uomo. Sono benevoli, sembrano addirittura accogliere in un ampio abbraccio chi passa, scostandosi come una cortina passo a passo. La foresta è buona, qui. Offre i suoi frutti, e sono mele, mirtilli e funghi, mescolati a lembi di cielo e profumo di resina, sacro incenso del dio delle piccole cose.









Ho omesso un piccolo dettaglio. La fatica densa e spessa come la zuppa del giorno prima.
Le pianure polacche sono ormai solo un bel ricordo. Qui ci sono le colline. Ci si muove in un lento saliscendi che non permette mai di prendere un ritmo regolare, e spesso le pendenze sono tuttaltro che benevole.
Ma fosse solo quello.
C'è anche il vento. Contrario, teso, che stordisce con il suo fischio sordo e rende vani tutti gli sforzi di superare i 15km/h. Di solito il vento mi smonta, mattone a mattone, il muro difensivo della mia forza di volontà. Ma oggi era tutto troppo bello, verdazzurro di luce altissima, per rimanere invischiati, con il pensiero, alla fatica. Non mi ci sono impantanata, in quella palude di impotenza e amechania. Complici anche le zampette, che mi vedo asciutte e muscolose, come intagliate in un legno chiaro, ormai abituate allo sforzo rotondo della pedalata. 
Spingi e arranca, pian piano sono arrivata ad imboccare la temuta M6, che ha per biglietto da visita questo bel monumento alla pace e alla fratellanza tra i popoli



e anche questo, che forse è persino più pericoloso dell'aggeggio di cui sopra



Trattenendo il fiato mi sono buttata sulla salita del cavalcavia per imboccare lo stradone. Nessun cartello di divieto alle bici. Pochissimo traffico, anche qui, e un silenzio surreale, interrotto solo dal fischio del vento e dal fruscio delle foglie. Nulla di diverso dalle strade finora percorse, pedalabili più di qualunque nostra provincialina abbandonata. Ai lati, campi e boschi di smeraldo. Betulle di zucchero. Qualche falco a disegnar cerchi pigri nell'azzurro sconfinato. Ecco l'arteria più trafficata della Bielorussia.
E dirò di più: accanto alle corsie di scorrimento ce n'è una di emergenza o dedicata ai mezzi lenti (trattori, carretti, camioncini quasi ottocenteschi... BICI!); la gioia assoluta. Gli ultimi 50km sono volati su quell'autostrada ciclovolpi dal fondo bello, di asfalto nuovo, liscio, dritto. Commuovente.
   








Ero così felice che, a pochi kiometri dall'arrivo, per festeggiare, mi sono fermata a mangiare una mela, approfittando di una delle numerose pensiline della fermata del bus.
Questo è interessante. Sulla stradona ci sono tante fermate, a distanza regolare. Ma non ci sono paesi. O meglio, sono lontani, all'interno, nel cuore della campagna. Per prendere l'autobus ci sono dai 5 ai 10km da fare sui sentieri tra prati e mais. Questo va ricordato quando ci lamentiamo della fermata distante 10 minuti a piedi da casa.





Mentre sgranocchiavo è spuntata dal nulla del bosco una signora, preceduta dal suo coccolosissimo cagnolo. Era andata a funghi, in ciabatte e coltellaccio, e tornava con un secchio pieno. Ne ho viste molte, sulla strada. Alcune vendenvano in loco il frutto della raccolta, altre tornavano a casa, chissà dove, con cestini e sacchetti colmi. Qui i funghi vanno alla grande, anche nei supermercati ce ne sono di tantissime varietà e tutte locali. L'anonima donna dei funghi mi ha attaccatto bottone in russo. Abbiamo tenuto una conversazione di un quarto d'ora senza capire una parola l'una dell'altra. Lei mi diceva cose, io rispondevo in inglese, prima, e poi in italiano, tanto era lo stesso. Guardavo il cane, accarezzandolo, e lui guardava me, come a dire "Nemmeno io capisco niente di quel che dice. E sì che ci vivo insieme da 10 anni!". A un certo punto la donna mi ha chiesto se fossi americana. Che bella quest'Europa che non riconosce se stessa.




Alla fine sono arrivata alla meta di oggi, Lida. Cittadona tutta ricostruita dopo il '45, perchè aveva perso metà della popolazione e tre quarti degli edifici. L'unica cosa interessante, qui, è il castello, riparo dei duchi lituani dalle incursioni  dei cavalieri teutonici.








Questo è invece il monstrum dove dormo stasera. Un parallelepipedo di vetro e cemento per concretizzare il sogno socialista. Vanta, al'interno, un minimarket. E voi penserete a un negozietto. No, cari miei. E' un minimarket di macchinette che vendono di tutto, dal purè agli assorbenti, passando per il caffè, il gelato, la vodka e le sigarette.



A proposito, anche stasera cena fai da te con prodotti AVTARCHICI (oltre ai soliti quintali verdura e frutta).
Questo promosso a pieni voti



Questo bocciato, ma bocciato proprio completamente


Lascio a voi l'ebbrezza di scorpire cosa siano. Poi me lo spiegate, anche, per favore.

Altra questione: ho capito in cosa consiste la differenza tra bielorubli vecchi e nuovi. Quelli nuovi hanno 4 zeri in meno rispetto a quelli vecchi. Perchè c'è poca inflazione. Prima 1 euro equivaleva a 20.000 rubli, ora a 2. Così sembra una valuta forte quella che vale appena più dei soldi del monopoli. Ma tant'è.






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