mercoledì 10 agosto 2016

Undicesima tappa: da Nova Paka a Jaworzina Slaska. Il Logos dolce della Polonia






Da oggi sono una volpolacca! Ho passato il confine della quinta nazione coinvolta nel viaggio, sotto all’immancabile diluvio malefico e gelido.
Ma andiamo con ordine.
Questa mattina sono partita presto dalla stazione sciistica dove ho dormito. Purtroppo –e l’ho pagato tutto il giorno- la colazione è stata magra e svelta: volevo mettermi in strada prima che iniziasse a piovere: le minacce del cielo plumbeo si sarebbero concretizzate di lì a poco, testimoni i fulmini.
La strada oggi doveva esser semplice: prima barra a oriente, poi virata secca a nord-est, verso il confine polacco.
I primi 30km invece sono stati un discreto labirinto a zigozago tra le colline, a causa dei lavori in corso. Volevamo far poche salite? Compreso nel prezzo il tour dei più inculati paesini rurali della zona: ciascuno vanta 15 mucche, 5 gaine e 3 abitanti, di cui 2 dispersi dal '45, il tutto sparso tra prati fradici e boschi nerissimi.






Oggi la Signora sembrava pesare il triplo.
Il freddo, le energie un po’ scarse, il poco sonno, l’ansia di finire in mezzo all’ennesimo temporale (cosa poi effettivamente successa), l’aria cupa di quei luoghi han fatto sì che superare le colline sia stato più faticoso del dovuto. Un calvario. C’è chi portava la croce, chi una bicicletta.
Continuavo a guardare il ciclocomputer, a controllare la traccia gps… Ogni 20km percepiti ne avevo fatto uno solo.
Ai lati di questo incubo a forma di strada trascorrevano ancora prati metallici, pinete nere, boschi d’ombra, colline incise nel piombo. E case con le orecchie lunghe.







Poi eccola, la pioggia. Ci mancava. 
Una, due, tre gocce. Il tempo di mettere il telefono nella sua custodia… e giù il diluvio. 
Ho deciso di non fermarmi. La strada da fare era ancora molta e, anche ad attendere, avrei solo rimandato la doccia. Il cielo era livido a perdita d’occhio. Non mi sono nemmeno messa la giacchina impermeabile. Che si fottesse. Almeno avrei avuto qualcosa di asciutto per le discese, che tanto finchè si sale fa comunque caldo.
Dunque ho imboccato la lunga salita che mena al confine. 
Ha piovuto con cattiveria, ma io ormai sono un Buddha di pietra con il loto in grembo e il sorriso scolpito.
Assisto al trascorrere delle cose, trascorro io stessa.
Secondo la dottrina stoica l’uomo è partecipe del Logos, la ragione universale che ordina e muove la natura; portiamo in noi la scintilla del fuoco eterno e siamo dei microcosmi, specchio dell’intero esistente. 
E, sempre per gli stoici, l’unica virtù etica è quella di agire in conformità al Logos, che è in noi e in tutto. Ciò conduce all’apatia, cioè al controllo delle passioni e degli impulsi. “Sopporta e asitieniti” era la regola. Così. Se io sono parte del tutto, e la natura che muove ciò che sta fuori da me è anche in me, è inutile prendersela. Tanto continua a piovere comunque. Accetto ormai la merda che il cielo mi rovescia addosso, affrontando le cose come una mano aperta, che lascia il divenire libero, non come un pugno chiuso che vuole afferrare e trattenere.
Quindi mi sono infradiciata, ma serenamente, per tutta la scalata.
I rari nantes in gurgite vasto, ovvero i pochi automobilisti passati nel reo tempo, han fatto il tifo, ma seri, senza ironia.
Vai e vai con dio, la madonna, buddha, la trimurti e il logos, ho trovato i cartelli del confine, e un bugigattolo dove ho cambiato le corone ceche in polocchi (zloty). E una giraffa. Seh. Con 8 gradi. Ma perché?



 
Comunque, appena posto piede di là dalla linea immaginaria che divide le nazioni, ha smesso di piovere. Un segno dal cielo. Polonia già te amo na cifra!
Su il giacchetto, su il cappello e giù, tra paesaggi finalmente belli di nuovo, diversi, appaganti, dolci allo sguardo che si apre. Basta campi marci!
Colline, nuvole basse a pennacchi, tanto verde addolcito dalla bruma e spighe chine al peso dei semi.
Di lì in poi è stata più discesa che salita, con alcuni strappi secchi da fare con il rampeghino e tanto falsopiano. Peccato aver perso l’uso delle mani e quella gran cosa che è il pollice opponibile: per il freddo, le dita erano completamente fuori uso. Anche i piedi, che trasmettevano un gelo da rigor mortis ai muscolini delle zampe.













Con o senza diti, ho attraversato questi primi 50km di Polonia con gioia infinita.
E’ tutto bello.
La strada è buona, si lascia seguire e accarezzare docilmente. Gli alberi sono antichi e proteggono questa terra fertile con la loro sacralità di linfa. I prati profumano di fieno e camomilla, la gente sorride. Anche se fa freddo. Mi sono spuntate delle minuscole radici aeree, tra i capelli e sulla schiena, e ho bevuto della forza di questa natura calma. Ne sono diventata parte, seguendo il vento e cingendo i fianchi delle colline. Ecco il Logos, mio e del tutto, che si fonde in un'unica grande verità che è sensazione, mai ragione. La consapevolezza della vita nella sua totalità.
Se c’è un dio, sta nelle narici e sui polpastrelli, oltre che nella corteccia.
Mi sono quasi commossa. Eccolo qui Godot, il senso.
Così sono arrivata volando a Jaworzina Slaska, grosso snodo ferroviario della Slesia, con tanto di museo dei treni.
Sapevo che trovare un posto per la notte non sarebbe stato semplice, ma tutto ha preso la piega giusta, quella di una curva della strada che sorride. Il ristorante-penzion che avevo individuato non aveva camere. Allora mi sono diretta ad una sorta di ostello, poco distante, ma era chiuso, abbandonato. Quindi mi sono rimessa in sella per proseguire al paese successivo ma, alla prima curva, sono incappata in una grande insegna: “Noclegi Pensjonat Pod Jelonkiem”.
Suono il campanello, nulla.
C’è un cartello con un numero da chiamare. Provo, mi dice che è inesistente. Ma so che il mio cell fa così, per ragioni ancora oscure, con tutti i numeri polacchi.
Una signora, una radio rungia locale che controlla la via dal balcone della casa di fronte, mi vede. Mi fa segno di avvicinarmi. Mi dice (credo) di chiamare. Le faccio capire che col mio telefono non riesco. Detto, fatto. Chiama con il suo e mi passa il warden. Senza capire una parola (il buon uomo parla solo polacco e russo, mescolati a un zin di tedesco), chiudo la telefonata; ho intuito che hanno una camera. Ringrazio la donna al balcone in tutte le lingue che conosco, e anche con il palmo aperto sul cuore che è International. Aspetto, scaldandomi al sole che, nel frattempo, ha fatto capolino. Bella la Polonia. Dopo mezzora arriva una donna piazzata e con baffo. E’ la moglie del warden, è venuta a preparare la stanza, mi dice che ci vorrà un’ora. Mentre traffica con lenzuola e aspirapolvere, parliamo in un pidgin buffo fatto di gesti, radici verbali latine, germaniche e slave. Nn crede che io sia italiana, perchè sono bionda. Mi dice che è un pensjon per black worker. Ma che, siamo in Alabama? Si corregge: Ukraina  worker. Mi dice che sono odważny avdaci, coraggiosa, a fare questo viaggio senza towarzysze, tovarish, comrads. Si chiama Lucy, mi saluta come fossi sua figlia.
Nel frattempo arrivano gli ucraini, operai che lavorano qui, e ancora adesso ridono e biascicano parole parole piene d’alcool, di là in cucina. Sembra quasi di essere già in Russia, e sono felice.




La Signora si scalda accanto alla stufa a legna



E voi i Princessa Zebra non ce li avete. E nemmeno il Mleko condensato in tubo, che è la prima volta in vita mia che assaggio e son già dipendente, è una droga!









2 commenti:

  1. grazie per il paesaggio che ci mostri e per i popoli che ci fai conoscere, attraverso i tuoi racconti.tutto molto bello, e complimenti ti seguo con il pensiero e con l'invidia ,per non avere il la volontà per fare altrettanto.

    RispondiElimina