MINSK…ia! Ci sono arrivata davvero!
Parliamone.
Cominciamo dal fatto che è venuta anche a me la
biel-espressione, dura come la dittatura del proletariato e seria come il
materialismo storico.
Oh, sarà l’aria di queste parti. Saranno la fatica
accumulata, la pioggia, il sole, il freddo, il vento, la sabbia e la solitudine
che mi han temprata. Sarà la consapevolezza di poter contare soltanto sulle mie
forze. Sui miei forse.
Sarà che prima di trovare qualcuno che passasse di lì per
farmi fare una foto ho dovuto attendere a lungo, perché Minsk, un po’ come
tutta la Bielorussia, è immensa di spazi enormi, di vialoni a sei corsie ed
edifici monumentali… Ma vuota.
Sarà la bruttezza senza fondo della periferia, che è fin
troppo ordinata e pulita, con quei palazzoni osceni, che ho passato per entrare
nella capitale.
Sarà il vento contrario.
Fatto sta che ormai mi confondo con il paesaggio umano e
architettonico di questa Europa, fatta a strati di cemento e cadaveri, eroismo
e tragedia, cemento e cadaveri, sacrificio e lotta, come un grandioso wafer
(che qui garbano parecchio).
Minsk per me è una meta quasi più lontana e misteriosa di
Mosca. Appartiene a quell’immaginario un po’ bolscevico da libro di storia e un
po’ da cartone animato, ignoto, poco frequentato anche con l’immaginazione e la
parola.
Minsk, capitale risorta dopo il ’45. Minsk, dove sta il Topo
colosso, quello di Fievel. Minsk, grigio mistero avvolto tra strati di neve e
nebbia. E macerie e sangue. Ma in bianco e nero.
Minsk.
La tappa di oggi doveva essere breve e svelta, solo 65
kilometri. In verità le numerose salite, corte ma ripidissime, la strada a
bozzi e buche, Eolo che proprio mi odia e la stanchezza accumulata han reso
faticoso pure questo giro di pedali. Sono uscita da Ivenet contenta di lasciarmi
alle spalle quell’atomo opaco di male. E quell’ex convento, dove, per tutta la
notte, mi è parso che qualcuno bussasse alla porta. Ho aperto solo le prime due
volte; e non c’era nessuno, il corridoio era deserto.
Via. Via di lì. Nel sole, verso le colline della Bielorussia
centrale.
Un ultimo sguardo alla capitale della foresta, che ho
salutato così.
Poi mi sono inerpicata pian piano su quelle stradine che
collegano villaggi rurali, kolchoz e
isolate fattorie. Il paesaggio è dolcissimo, tra boschi giovani e spighe, fieno
e mucche. Fili di verde, oro e azzurro son ricamati dal vento in un insperato
tepore estivo. Se penso alle notti alpine o ai temporali della Repubblica ceca,
questo sole mi pare quasi un miraggio. Mi ero psicologicamente preparata ad un
mese di freddo e pioggia. E invece… Intanto, mentre sobbalzo con la Signora sui
bitorzoli dell’asfalto: “Libertà l’ho vista/ dormire nei campi coltivati/ a
cielo e denaro,/ a cielo ed amore,/ protetta da un filo spinato…”.
Prima di buttarmi nuovamente sulla M6, che mi avrebbe
condotta al centro di Minsk, ho attraversato alcuni paesini rimasti esclusi dal
perimetro urbano. Lì non c’è acqua corrente nelle case, ma una pompa (da
attivare a forza di braccia) in giardino, e le strade non sono asfaltate; poche
centinaia di metri avanti già arriva la copertura Wi-Fi della capitale. Ecco i
confini invisibili, le linee che tracciano il margine tra chi sta di qui e chi
di là. Tra chi ha il problema di connettersi a Facebook e chi quello di poter
bere senza intossicarsi. Altro che dogane e passaporti. Siamo divisi da
un’infinita ragnatela di confini invisibili. Alcuni ci passano anche
attraverso, dentro, tra il cuore e i polmoni. Ma non le vediamo. E stiamo male
senza sapere perché.
Appena messe le ruote sulla M6 ho intravisto, in fondo agli
ultimi lembi di bosco, i palazzoni chiari, baluginanti su sfondo azzurro come
un miraggio, come un’Abu Dhabi in mezzo al deserto. Un deserti verde. Mano a
mano quella skyline si è fatta più vicina e dettagliata, mostrandosi in tutta
la sua bruttezza, spalancata e urlata al cielo con voce immensa di 30 piani.
Dovevo anche star ben attenta alla strada, o meglio, alle
automobili. Per capire la viabilità di Minsk immaginatevi un cerchio, che è la
città; le arterie principali sono diametri, la tagliano a spicchi, a fette come
una torta. In più ci sono le circonvallazioni, a cerchi sempre più piccoli.
Ora, io ero su una strada diametro, sparata verso il centro. Ad ogni incrocio
con circonvallazione son stata costretta ad acrobazie da funambolo per non essere
investita. Son tutti mostri dalle 3 alle 6 corsie, dove le auto, pur senza
eccedere in velocità, vanno spedite nella certezza di non trovare né ciclisti
né pedoni; non che sia vietato, è che nessuno ha motivo di passare di lì.
Pertanto non ci sono nemmeno semafori e attraversamenti, e bisogna aprire anche
il terzo occhio, quello del karma e dei sensori di parcheggio.
Dopo pochi kilometri, comunque, si innestano i larghi
marciapiedi ciclopedonali, e da lì è tutta discesa. No, non è vero, ci sono
anche molte salite perché la città si sviluppa su colline. Ma non rischi più di
esser tirato sotto, e questo è un indiscutibile vantaggio. I marciapiedi hanno
due corsie: una per pedoni, una per ciclisti. Sono super segnalate e ben fatte.
Ma nessuno rispetta le indicazioni, quindi è tutto uno slalom e uno
scampanellio alla levatedarcazzo. Ecco un altro tratto della Bielorussia: ogni
cosa è creata secondo ordinatissime norme, disegnata da ingegneri quadrati,
tracciata con volontà di regola e controllo. Ma. Questo quadro di pura
geometria e logica viene completamente smantellato dall’uso che la gente fa di
spazi e tempi, con un’arte di creare caos e, in esso, arrangiarsi, quasi
partenopea. Insomma, c’è da stare attenti per non investire qualche biondissimo
bimbo accompagnato biondissimo papà –stazza armadio a due ante. Perché mica si
spostano. Aspettano l’impatto. La loro storia, anche recente, in effetti è
tutta normata da questo principio.
La periferia brutta è piuttosto animata; ci sono orde di
ragazzini e famiglie nei centri commerciali, nei McDonald’s, Burger King e
altre catene americaneggianti “che, quando c’era Lui, col cavolo! Si stava
meglio quando si stava peggio!”. No, non credo proprio. Queste cose, qui, sono
arrivate da meno di vent’anni, e sono il fulcro delle domeniche pomeriggio
della gioventù di Minsk, che qui viene a far shopping e mangiare un gelato.
Dove son finiti i bei tempi di una volta, quando i ragazzi stavano sulle
barricate e morivano come mosche, colpiti da fuoco orientale e occidentale a fasi
alterne?
Minsk sta diventando una capitale europea simile alle altre.
C’è chi resta deluso e vede la colonizzazione/ globalizzazione di cattivo
occhio. Ma perché? Devono forse restare chiusi in una riserva che li protegga
dal divenire, ancor peggio di quanto già sia successo e accada, per il gusto
nostro di guardarli come animali allo zoo? Ben vengano gli H&M e i cinema
3D, gli Starbucks e i fast food. Poi, a livello mondiale, penseremo a far
sparire tutta questa porcheria che seda a zuccheri e slogan colorati. Ma solo
poi.
Tra l’altro non mancano i soliti venditori di paccottiglia
per turisti, fiori e frutta o verdura. Ma sono solo in periferia, e comunque
silenziosi e ordinati.
Rapidamente mi sono spinta in centro, direzione
museo-monumento dedicato alle vittime russe della Grande guerra patriottica,
nome con cui viene designata la Seconda guerra mondiale. Non si può non vedere,
con la sua scalinata monumentale, in cima alla quale svettano una donna (la
patria?) con kalashnikov e una bandiera rossa dell’Urss. Da lì inizia il cuore
pulsante della città, che visiterò con calma domani.
I viali semideserti sono un susseguirsi di palazzoni,
architetture del realismo socialista, bandierine e slogan del partito (“Insieme
siamo la Bielorussia!”, “Questo è il nostro paese!”), faccioni di militari che
stringono la mano a Lukasenko e ai suoi baffi, scorci bellissimi di piazze
sopravvissute alla distruzione, centri commerciali e parchi.
Il centro, ad un primo sguardo, merita davvero la visita.
Nulla a che vedere con la periferia, che mi aveva scoraggiata (Tutta questa
strada per trovare qualcosa di ancor più brutto di Belgrado?! Signora, ma che
abbiam fatto di male noi?).
Certo è un paesaggio urbano che, per un italiano, risulta
difficile da metabolizzare. Sembra tutto molto freddo e lontano; le distanze
sono ampie, ciò che par vicino sulla carta è a un’ora di cammino. I colori sono
il bianco, il grigio e il verde, ovattati, smorzati come anche i suoni. C’è un
gran silenzio, nonostante i due milioni di abitanti. I resti di un passato
travagliato sono stati nascosti sotto alla coperta azzurra e misericordiosa del
cielo, ma a guardar bene si vedono.
La leggenda vuole che qui, vicino al fiume Svislac, il
gigante Menesk avesse un mulino, dove tritava roccia per fare il pane ai suoi
guerrieri. La realtà non è poi così diversa: qui un principe vichingo, venuto
dalla Norvegia, fondò un centro che presto, dall’anno mille, divenne fulcro di
baratti (miena) e commerci. Per secoli la ricca città è passata dalle mani del
Granducato di Polonia-Lituania e quelle degli zar, in una continua giostra di
sangue. Durante la Seconda guerra è stata centro delle operazioni dell’Armata
rossa dietro alle linee nemiche, al punto da essere poi insignita del titolo di
“Città eroina”, nel ’74. Certo, questo è costato la morte a metà della
popolazione e la distruzione di quasi tutti gli edifici, tant’è che è stata
rimessa in piedi negli anni Cinquanta e ha preso l’attuale fisionomia a
palazzoni, vialoni e monumentoni di partito.
Tutto comunica che la meta ormai è vicina. Mancano meno di
800km. Nel giro di tre lune passerò il confine russo, e tra una settimana
esatta entrerò a Mosca.
Sembra quasi un sogno di cupole e notti stellate, notti
bianche. La Russia ormai è vicina, basta allungare un poco la mano, spingere
sui pedali ancora un po’.
Sarà una settimana dura, faticosa ma appagante.
Perché ho trovato Godot. E’ qui con me, ora, seduto al
tavolo dell’ostello da cui scrivo. Sta in silenzio e sorride. Eccolo il senso
di questo viaggio. L’illuminazione, il raggio che fende la piazza e si fa
sguardo. Ho capito una cosa, in questi duemila e passa kilometri. Una sola ma
importante
Ne parlerò con calma, più in là.
Intanto vi lascio con alcune immagini dell’ostello
R-Evolucion. Merita la sosta!
Extra: un giorno a Minsk
Trattandosi di una meta discretamente sconosciuta (i turisti sono quasi tutti russi o ucraini), ho pensato potesse essere interessante condividere qualche scorcio di questa città che si è rivelata, in definitiva, davvero una bella sorpresa. Credo sia una tappa fondamentale per capire questa ignota metà dell'Europa. E' anche semplice da visitare, docile, mansueta e offre tutto ciò di cui si può aver voglia o bisogno. Locali notturni, casinò, equivoci salotti et similia non compaiono volutamente. Ce ne sono fin troppi (più o meno come a Sofia), ma non sono certo il fulcro dei miei interessi.
Cominciamo dai pressi dell'ostello, con questo monumentale gruppo che orna il centro commerciale Na Nemige.
Poi si risale lungo vulica Niamiha, tutta a discutibili palazzoni.
Fino ad incontrare uno dei numerosi teatri della città
Da lì si raggiunge in qalche minuto la famosissima piazza dell'Indipendenza, dove si affacciano gran parte degli edifici governativi. Lenin osserva tutto, in silenzio.
Sempre sulla piazza si trova la bellissima chiesa dei santi Simone ed Elena, unica nota di colore, rossa sgargiante con i suoi mattoni al sole. E' cattolica romana e risale al 1910; in due distinte occasioni è stata secolarizzata, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, e usata come teatro e come cinema. Solo nel 1990 è tornata alla sua funzione di luogo sacro, grazie all'azione di alcune attiviste cattoliche che hanno prostetato anche con scioperi della fame.
Da piazza dell'Indipendenza si imbocca l'enorme Praspiekt Niezalieznasci, su cui siaffacciano edifici come il GUM, la Galleria nazionale e la sede del KGB (che esiste tuttora con questo nome!)
Procedendo sempre dritti si giunge al centro geografico della città, indicato da una pirimadina su cui si trovan le distanze dalle altre principali città europee. Sulla medesima piazza un altro teatro e il palazzo del Sindacato, a forma di tempio corinzio (così, a buffo, perchè ci piaceva)
Queste sono invece alcune decorazioni della metropolitana e dei sottopassaggi pedonali (i vialoni si attraversan quasi tutti da sotto o da sopra, raramente a livello stradale)
Questo è Corso Lenin, che si imbocca per portarsi verso la parte più antica della città
Qui si trovano, tutte concentrate, la Chiesa della Santa Vergine Maria, la Cattedrale del Santo Spirito e la Chiesa del Santo Spirito, il municipio e il Museo della letteratura e dell'arte.
Immancabile la bancarella che vende icone, rosari e altri aggeggini sacri. Imperdibili le signore che, uscendo da messa, si fanno infinite volte il segno della croce ("al contrario" come usano gli ortodossi), allontanandosi dalla chiesa. Ogni tre passi si girano e segnano, più e più volte, con pia devozione.
Proseguendo verso l'antica piazza del mercato, fatta di amene casette, quella che viene indiciata come "Trinity suburb" (Trajeckaje pradmiescie) si passa il fiume Svislach
E si arriva all'Isola delle lacrime, con il suo monumento in memoria dei caduti. E' un luogo tranquillissimo e diventa punto privilegiato per abbracciare, con un solo sguardo, tutti i più grandi edifici di Minsk, dal Palazzetto dello sport ai grattacieli delle banche, ai centri commerciali più imponenti di un castello.
Proseguendo verso Piazza della Vittoria, dove si trova il Museo della Grande Guerra Patriottica, si incontra il Parco con il monumento di Pushkin, posto ideale per una sosta (in questi giorni di pausa emerge tutta la stanchezza accumulata...). Proprio lì si trova una panetteria-gelateria, e sì, devo spezzare una lancia a favore delle parole di Valery, il bielo-marpione incontrato al confine. Il gelato bielorusso è proprio buono. La panna sa davvero di panna, non di roba-dolce-non-meglio-identificabile.
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