sabato 6 agosto 2016

Settima tappa: da Passau a Vimperk, Repubblica Ceca. La Selva boema



Sono in Repubblica Ceca!
Quanto al fatto che io stia indossando il telo della tenda e dei sacchetti di plastica... Be' con calma, la giornata è stata lunga, ora vi spiego.
Stamattina, già a uno sguardo fuori dalla finestra del castello-ostello di Passau, ho capito che avrei preso acqua. Ma mai avrei pensato così tanta.
Ho tergirversato, prima di partire, sperando che la pioggia cambiasse idea. Invece no, proprio lì voleva cadere. Lì e su tutto l'intero mio percorso di oggi.
Si stava facendo tardi. Ho deciso di uscire nonostante l'acquazzone in corso. Il tempo di caricare le borse sulla bici ed ero già completamente fradicia. Bene così, una volta zuppi non ci si accorge nemmeno più che sta diluviando. La strada oggi era semplice, almeno sulla carta: imboccare la statalina che mena in Cechia e non lasciarla mai fin oltre il confine. Semplice. Lineare. Sulla carta.
Dopo nemmeno 10km di molti sali e pochi scendi, mi sono ritrovata sotto alla tettoia di un panettiere perché la statalina aveva un tratto, in mezzo, così, a buffo, vietato alle bici. Lì per lì mi ha preso lo sconforto: davanti al cartello del divieto ho pensato che tutta fosse così, vietata, impercorribile, un immenso lunghissimo NEIN! strillato dall'asfalto per 70km. Ho chiesto alla fornaia ma non parlava inglese e si è indispettita perché ho domandato informazioni senza comprare. Piccola bottegaia stronza. Fatto è che, dopo aver studiato la mappa, ho deciso di tentare: sembrava ci fosse modo di muoversi in parallelo alla strada vietata, passando per i paesini. Quindi giù nelle colline della Boemia, e poi su per le colline della Boemia, e giù per le colline e su per le... Una morte. Intanto continuava a diluviare. Mi si è pure bagnato il telefono, al punto che, mentre cercavo di capire da che parte dovessi andare, mi si è chiuso il navigatore e aperto Google con un siparietto di fragole antropomorfe e danzanti. Olè! Ergo, fidandomi solo dell'intuito, maledette fragole di satana, con la paura di sbagliare strada a ogni discesa (che poi diventa salita, se devi turna' indrè), ho proseguito tra quei paesi fradici e impestati di nebbia e puzzo di stalla.
Su e giù su e giù trovo una deviazione. Strada chiusa. Seguo i cartelli e... Mi ritrovo sulla statalina, non più, da quel punto, vietata alle bici. Gioia! Strada dritta, solida, compatta, sensata, giusta!
Mi ci sono buttata. Non è stata proprio una passeggiata, perché il traffico è consistente. Ci sono molti camioni, qualche galleria, salite e discese con pendenze tristi. Per di più il diluvio non accennava a placarsi, sicché si vedeva poco e nulla, con i nuvoloni di goccioline sollevati dalle auto. Per fortuna ogni tot ci sono delle casette di legno, che son le fermate del bus, dove ci si può riposare, chè pedalare quasi alla cieca con il voooooooom vooooooom dei TIR nelle orecchie è logorante.





Pedala che ti pedala sono arrivata a Freyung, ultima grossa città tetesca prima del confine.
Da lì sarebbe iniziata la salita vera e propria, secca come uno schiocco, della Selva Boema. E invece.
Fin da subito ho incontrato segnalazioni di lavori in corso e strade chiuse. La deviazione proposta, per giungere al confine, mi allungava di brutto la strada, quasi raddoppiandola. Continuava a piovere fortissimo. Molte auto proseguivano nonostante la deviazione, e così ho fatto anche io. Il primo pezzo era aperto e senza nulla di particolare, se non che c'erano poche auto. Cosa sospetta. A un tratto vedo davanti a me un camion dell'equivalente Anas, lampeggianti accesi, messo per traverso sulla carreggiata. Qualche auto fa inversione e torna indietro. Io non voglio rifare tutte quelle salitine. Mi avvicino all'operaio e gli chiedo se io, che sono BYBIKE posso passare. Inaspettatamente mi dice di sì.
Che figata! Qualche kilometro è andato liscio tra i boschi di pini e betulle, con la stradina deserta e tutta per me. Pensavo di poter andare avanti così fino al confine e stavo persino, massima hybris, fotografando il mio dito medio cotto dalla pioggia rivolto al cartello della deviazione (e al cielo bianco, slavato dall'acqua che ancora cadeva copiosa). Qualche genio maligno deve avermi letto nel pensiero tanta tracotanza e mi ha piazzato davanti due fiumi e una buca enorme, in cui lavoravano tre benne. Mi avvicino. Chiedo a un'operaio. Mi dice che se riesco a passare da lì posso proseguire. Lo afferma senza ironia, e io ci provo. Tiro la bici su su lungo il fianco della collina, nell'erba alta e fradicia, nel fango, tra i cespugli. Tolgo e rimetto più volte le borse. Ma di lì non si riesce a passare, non c'è verso. La buca non si riesce a ad aggirare. Tocca tornare indietro. E non solo. Tocca anche prendere la strada alternativa, quella indicata fin dall'inizio, quella lunghissima. Da qui è iniziata la mia scalata. 20km di salita dritta, senza tornanti, senza pause, senza tregua. L'inferno ce lo immaginiamo come una discesa, ma io credo sia una salita.
Continuava, inutile dirlo, a piovere. Non ha mai smesso. Intorno e addosso alla strada si alzavano le pinete nere, grondanti, mute. Su, su, su, ancora su. Bisognava arrivare a quota 1000. Poi ridiscendere un poco e salire ancora.
(Per la cronaca oggi ho fatto 2700 metri di dislivello positivo. Noccioline).





Piano e fracica ci sono arrivata, al punto più alto. Sfinita da quella frustata di salita. E, in cima, l'ho sentito.
Il freddo, quello con la F maiuscola.
Finché scali hai caldo, sempre. Ma a scendere, con meno di 10 gradi e il vento gelido, i vestiti zuppi e forse anche le ossa... Mi sono riparata nell'ennesima, salvifica, fermata/ casetta di legno. Tremavo da non riuscire a star seduta. Al volo mi sono messa maglia termica e giacca invernale asciutti, cappello e sciarpino. Ma gelavo comunque.
Flash.
Il telo della tenda. Quel rettangolo 2x3 metri di plastica grossa che si mette in terra per isolarsi dall'umidità. Mi ci sono arrotolata dentro ed è andata subito meglio.



Ma non potevo stare lì a lungo, era già pomeriggio inoltrato (capito dall'orologio, non certo dalla luce, ugualmente assente fin da stamattina).
Dovevo ripartire e scendere.
Mi son vista a prender di petto tutto quel vento e ho sentito scoccare l'ora della broncopolmonite. Momento di disperazione. Se mi ammalo, il viaggio è finito.
Che fare?
Il telo. Andava tenuto addosso, in qualche modo. Ed ecco il colpo di genio, l'invenzione da brevettare.
Me lo sono adattato a vestito, con cinghie ed elastici, fino a farne una corazza spessa una spanna, davanti e dietro, con tanto di cappuccio e gonnella. Sopra ci ho messo l'antivento, sopra l'antipioggia, sopra ancora lo zaino, per tenere tutto fermo. A proteggere la gola un bel sacchetto di plastica del reparto ortofrutta, fissato dallo scaldacollo.





Temevo di non riuscire a pedalare, così mummificata, e invece questo guizzo di volpe si è dimostrato una genialata. Quasi quasi avevo persin caldo! Certo è un po' rigidino, come vestito, ma 1. Ripara a meraviglia 2. È ergonomico e adatto alla falcata tonda dei ciclisti 3. Ti fa due tette così 4. Forse è anche antiproiettile.
Insomma, una figata a mostro.
Ero contentissima di averla messa in culo al cielo.
Quelli che credevo gli ultimi kilometri sono volati via, bruciati sulla discesa e le poche salitine.









Ora bisogna aprire una piccola parentesi. Mi volevo fermare a Kubova Hut, paese dopo il quale inizia la lunga discesa dall'altra parte della Selva Boema. Ma lì gli alberghi erano quasi tutti pieni e temevo di non trovare un posto. Parlandone a casa, mamma si era interessata alla faccenda, e aveva scovato su Booking.com una bella penzion in un paese 10km più sotto. Tutta discesa, di strada per la tappa successiva. Perfetto!
Arrivo a Kubova, saluto e mi butto giù in picchiata verso la mia camera asciutta e la doccia calda che mi attendevano. All'ingresso del paese squilla il telefono. È mamma. Che mi dice di non scendere lì e fermarmi prima, in cima, a Kubova, perché ha prenotato per il giorno sbagliato e ha appena chiamato, tutto esaurito.
A esaurirmi, a quel punto, sono io. Uaaaaaaaaa!!! Da piangere veramente.
Spes ultima dea: batto tutti gli hotel, ostelli, pensioni, taverne della città. Tutte piene zeppe. Mi dicono di tornare su a Kubova, che lì non c'è posto. Forse anche perché son vestita coi sacchi della monnezza e ispiro poca fiducia.
Cerco su Google, vedo che la prossima cittadina con strutture è a 30km. Sono già le sei e mezza. Mi faccio passare la stanchezza e torno in sella. Indovinate? Piove.
Gel di carboidrati e via. Dopo 10km vedo a bordo strada una casaccia rosa scrostata, l'insegna fa intendere: ristorante (cinese) e camere. Salvezza!
Inchiodo, mi ci butto.
Il salvatore non è un bel messia trentenne con barba e capelli fluenti, ma un ometto tutto storto, con gli occhi che si mandano a fanculo uno con l'altro e parla sbiascicando. Però sì c'è la camera (un mini appartamento che ora sto dividendo con la Signora. 10€) e sì se magna, a 5€ riso pollo e verdure. Aggiudicato. Il resto me lo ha dato in corone.






Ora sono qui. Ancora nella Selva Boema, tra i suoi pini, le sue betulle e i suoi fuochi fatui di nuvole basse, al limitare del parco nazionale della Sumava. Non piove più.
Praga dista un giorno e mezzo di viaggio. Ed è una mia piccola primavera privata, nonostante sia agosto.








7 commenti:

  1. Rita sei grande un grosso abbraccio da tutti noi Associazione Nord Ovest Impresa Cornaredo

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  2. Carissima, come mamma ed 'essere umano' soffro per e con te ma mi dico anche che, davvero, con la tua forza non hai limiti per cio' che vorrai realizzare.

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  3. Fosse questa la sofferenza... Ci metterei la firma! :-) comunque, in effetti, è una palestra per allenare non solo la forza dei muscoli, ma anche quella di volontà

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