domenica 21 agosto 2016

Ventesima tappa: da Lida a Ivenet. I fantasmi della foresta di Naliboki







Facciamo una premessa: io non credo ai fantasmi, al soprannaturale, ai residuati lattiginosi di anime dannate. Non credo all’anima, figuriamoci. Però questi boschi vibrano di dolore. Si percepisce il male nell’aria fredda nonostante il sole, e greve, nell’oscurità verde umida che non lascia filtrare la luce. Il silenzio è surreale. Pare che tutto si sia fermato, che la foresta stia trattenendo il respiro. Se si lasciasse andare, se avesse voce, esploderebbe nell’urlo disperato di sette secoli di abusi e violenze. 


Pedalo da molti kilometri nel cuore della Riserva di Naliboki, bosco antico di muschi e ragnatele, impenetrabile, chiuso alla vista e al passo. Qui vivevano i lituani, e s’è parlato lituano fino al secolo scorso; nessuno sapeva di essere bielorusso. La storia non era riuscita a penetrare nel fitto dei rami e, tuttora, la cultura del luogo è “slavonica”, ovvero pre-russa e pre-sovietica. Qui erano tutti pagani, come in Lituania. E quando, nel 1387, il granduca si è lasciato sedurre dal cristianesimo, anche qui è giunta la fede cattolica; infatti, ancor oggi, da queste parti la confessione ortodossa è poco diffusa. Qui i Lituani hanno trovato rifugio dai tartari, hanno accolto polacchi, soprattutto ebrei, e portato avanti una costellazione di minuscole comunità rurali sempre più lontane dal divenire della storia, che giungeva solo ovattata, distante, filtrata dalla corteccia e dalle radici.



Poi la Storia è arrivata, e senza bussare. Un fiume in piena che ha travolto tutto.
I tedeschi avanzavano verso est; l’Operazione Barbarossa era in atto e per l’Europa correva il terrore dalle lunghissime dita d’ombra. Polacchi, ebrei, bielorussi, russi e qualche ucraino decidono di organizzarsi e difendere la propria terra con le parole e con le armi. Si raccolgono qui, nella foresta di Naliboki, che li protegge e dà rifugio anche a tanti normali furfanti, ladruncoli, imbroglioni, ma pure ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste; nasce la Resistenza. I partigiani vengono raggiunti dai membri dell’Esercito di liberazione polacco, che sta difendendo la patria mattone a mattone. Soldataglia e qualche ufficiale dell’Armata rossa vengono spediti a sostenere questa lotta di liberazione; gli ordini arrivano da Mosca. Nella foresta ci sono ora 25.000 armati, e tutto sembra andare per il meglio: alcune città, tra cui Ivenet, vengono liberate. Ma i rapporti tra gruppi di partigiani sono tesi: i russi sono stati invasori fino al giorno prima, e non nascondono le proprie mire future. I polacchi sono troppo orgogliosi. Gli ebrei e i preti cattolici rifuggono il dialogo. Gli attriti interni si fanno di giorno in giorno  più forti. Nella notte tra 8 e 9 maggio ’43 si innesca la scintilla: i russi, dal cuore della foresta, attaccano il villaggio di Naliboki, in mano ai compagni partigiani polacchi; ammazzano, a freddo, 129 persone, tra cui donne e un bambino di 10 anni; danno alle fiamme la chiesa, la scuola, la posta e numerose cascine e case. Perché? Nessuno è mai stato in grado di dare una risposta convincente. Ordini dall’alto o semplice “scaramuccia” tra soldati? Episodi come quello di Katyn potrebbero far luce sul mistero. Certo è che ai sovietici la resistenza polacca non piaceva affatto, e agli occhi di contadini e operai del posto Stalin era solo un Hitler meno folle. L’alleanza anti-tedesca è sempre stata una forzata costrizione dettata dagli eventi, non una profonda “affinità elettiva”. In 129 hanno pagato, con la vita, anche qui.



Ma non è tutto. Dopo il massacro di Naliboki per mano russa, l’opera è stata completata dai nazisti. L’intera area è rimasta occupata dal ’41 al ’44; appena arrivati, era una limpida mattina quel 5 settembre, i tedeschi ammazzano a freddo 50 ebrei; due mesi dopo ne chiudono 1200, rastrellati in tutta la campagna, nel ghetto di Ivenet. Nel ’42 spediscono un terzo di queste anime nei campi di concentramento polacchi. Non tornerà nessuno. Il 9 giugno dello stesso anno il ghetto viene liquidato. 800 figli di Davide sono condotti al limitare del bosco; sono costretti a scavare una enorme fossa: la loro tomba. Nel giro di pochi minuti, nessuno urla o piange più. Riposano qui, tra gli alberi neri che li han visti morire.




E più la Resistenza si dava da fare dal cuore della foresta ai fienili, più i nazisti si accanivano contro i contadini, i preti, i poveracci ridotti allo stremo dalla guerra. Luglio ’43: inizia l’”Operazione Hermann”. 52.000 tedeschi, con cura e precisione, radono al suolo villaggi e città, casa per casa, baracca per baracca; centinaia di migliaia di bielorussi vengono spediti nei lager o, se fortunati, ammazzati sul posto. Muore in questa occasione anche il francescano Karol Herman Stępień, beatificato da Giovanni Paolo II.
Muoiono quasi tutti. Shimon Peres si salva, così come altri illustri ebrei attivi nei campi della politica e della cultura. Muoiono quasi tutti. Io non credo ai fantasmi, ma questi luoghi sono intrisi di sangue fin nel profondo, ben oltre le radici.



Ci sono arrivata con grande fatica, qui a Naliboki.
Questa mattina ho lasciato Lida con pesante lentezza: non avevo smaltito la fatica dei giorni precedenti e sentivo le gambe restie al movimento. Mi sono consolata fiocinando un intero caricatore di biscotti (momento madeleine proustiana: questi stessi biscotti li mangiai a Nis, in viaggio verso Istanbul. Oh, miei amati Munchmellow, ora vi ritrovo qui, in terra slava, due anni dopo!).


Il sole caldo e l’azzurro immenso mi hanno finalmente convinta a saltare in sella. Ho salutato Lida, con il castello e la cattedrale ancora addormentati nella foschia che andava diradandosi. 




E una locomotiva così, rossa, fulgida d’acciaio che “sembrava dire ai contadini curvi/ col fischio che si spande in aria/ “Fratello non temere, che corro al mio dovere:/ trionfi la giustizia proletaria!”.



Nel giro di poco mi sono trovata di nuovo sulla M6, la stradona di ieri; ne ho mangiati 90km, oggi, di quell’asfalto polveroso, che non era più così bello liscio e nuovo da lacrimuccia, anzi; è stato un continuo slalom tra gobbe e buche, senza nemmeno la corsia a  lato. Cara M6, tanto mi sei piaciuta ieri, tanto mi hai fatta penare oggi. Quei 90km mi son sembrati infiniti. Complici gli zuccheri sempre un po’ bassi, dopo una serie di paludi, boschi, campi, anziani venditori di funghi, boschi, campi, paludi, anziani, paludi, boschi, campi ho iniziato a vedere cose strane; al margine del campo visivo mi sembrava ci fosse sempre un uomo con un ombrello blu che correva velocissimo, tanto da stare al passo con me, ma senza muoversi. E le lettere dei cartelli, ancora un po’ ostili alla lettura, danzavano il ballo del minestrone, quello delle correnti convettive che fan ribollire tutto l’ambaradan. Lettere come fagioli e prezzemolo, un po’ su un po’ giù, mangia una barretta, mangiane un’altra, niente da fare: Popof con l’ombrello blu era sempre accanto a me, e il cirillico sempre un magma di minestra. 














Con fatica ha superato gli ultimi saliscendi fino alla fine del tratto di M6. Lì mi aspettava un angolo retto su strada secondaria, che mi avrebbe condotta, costeggiando la Riserva di Naliboki, fino alla meta di oggi, Ivenet (o Ivyanets, o Ivanet, a seconda che lo si voglia dire in bielorusso, russo, polacco, lituano, ambarabà, cicì o cocò). A quel punto, dopo la curva, sarebbero mancati solo 30km, belli dritti; insomma, in teoria ero quasi arrivata. In teoria.
In pratica la curva sciolta si è risolta in un’inchiodata: strada sterrata. Sabbia. Una fottuta spiaggia di Rimini. Con i tafani in omaggio. E anche madonne da lancio. 






Ho provato a percorrerne qualche kilometro, credo una decina in totale, attraversando il cuore della foresta e incrociando villaggi che sembrano immuni al trascorrere dei secoli. E uomini, anche, sbucati da un passato lontano. Volti di pietra, volti di legno.









Ho calcolato al volo un’alternativa, perché quella malefica strada di sabbia peggiorava via via e mi stava inghiottendo. “Signora, e adesso che facciamo? Io non ho più forze né fisiche né mentali, e tu, col tuo culo pesante, non mi aiuti. Qui la sabbia ci fagocita, il bosco ci mangia vive. Il resto lo fanno i contadini. Se cado, mi trovano che son già da riconoscere col calco dei denti. E tu finisci su qualche sudicio mercatino delle pulci. Signora, come siamo lontane da casa, oggi”. 








Alla fine, oscillando e bestemmiando, ho trovato il modo di uscire indenne a quell’intrico di sentieri e rami. Certo, ho allungato il tragitto. Ma quando sono arrivata alla strada, finalmente asfaltata, che mi avrebbe portata alla meta, ero troppo felice per accorgermi di essere completamente a secco di energie. Ci han pensato i saliscendi finali. A 10km da Ivenet ho dato fondo a tutte le provviste. Giù il tubo di latte condensato, giù le ultime barrette. Su gli auricolari, che avevo tolto per mantenere l’attenzione sullo sterrato (e quand’è così, significa che la situazione è disperata). Musica a palla come la sparano nei carri armati quando si va in prima linea. E così, a zuccheri e note, sono arrivata a destinazione, con una sosta, prima, al monumento alle vittime della shoah.




Ivenet è detta la capitale silenziosa della foresta di Naliboki. Ma è un vero e proprio buco di culo, per usare un francesismo. Ha due strade, due chiese (una cattolica e una ortodossa), un supermercatino urfido e un kebabbaro altrettanto lurido. E un ex convento inquietantissimo, trasformato in ostello, dove dormo stasera, unica ospite.




Quando sono arrivata, mi son subito resa conto che fare il check in sarebbe stato complicato: la suora laica che gestisce questo bel posto parla solo russo strettissimo; e ha quella cupa serietà per cui anche le belle notizie passano per ferali, a me che carpisco tre quarti del senso dal linguaggio non verbale. Siccome qui, ogni volta, è un teatrino tra controllo passaporto, controllo visto, controllo assicurazione, controllo timbri, controllo peli pubici… Ho sudato freddo. Ho creduto più di una volta che ci fossero problemi. Invece no, era tutto a posto. Sono solo le radiose espressioni bielorusse a trarre in inganno. La solare giovialità dei cittadini di questa Repubblica popolare della Mestizia.




Tra l’altro la signora è anche andata a recuperarmi una ragazza che ha lavorato in Italia (a Bologna) e quindi si dà per scontato sappia l’italiano. Invero, sa dire solo “non parlo bene italiano”. Mi ha accompagnata al supermercato, e mi ha dato indicazioni per il kebabbaro, unico locale in cui cenare: “Chiude alle 10!”. Alle 8 sono uscita tutta contenta per l’imminente lauto e laido pasto. Arrivo al locale giusto per leggere che chiude alle 7. “Non parlo bene italiano”. Eh. Quindi ho deviato in corsa al supermercato, dove ho rimediato al fatale errore della pulzella bolognééése.
Questa la cena cenata.




Perché tutto confezionato, liofilizzato, inscatolato?
Perché dovreste vedere come sono i supermercati, qui. Sono la fiera della salmonella.
Formaggi, salumi, frutta e verdura, uova, carne, yogurt, pesce, pane e prodotti da forno stanno accatastati alla magna porco, dentro e fuori dai frigoriferi, in maniera assolutamente casuale. Per dir: il pane è NEL frigor. Il formaggio FUORI. Ben poco c’è di confezionato, i guanti di plastica son da borghesi e tutti toccano, pasticciano, schiacciano e rimettono nel mucchio, dopo essersi scaccolati il naso e i piedi e grattati la riga della censura. E la gente, in media, ha addosso due dita di crotto (intonaco di sudore, terra e socialismo). Insomma, meglio evitare di finire la vacanza sul cesso, come, d’altronde, ho già fatto l’anno scorso in Grecia.

Questi gli acquisti extra per i prossimi giorni, chè spesso sulla strada non si trova nulla da mangiare nè da bere per decine e decine di km



Questi i bielorubli vecchi (a destra) e nuovi (a sinistra), e alcuni copechi (monetine), per chi si fosse chiesto come possano essere


E questa è una volpe stanca ma felice



Domani mi attende una tappa breve, destinazione Minsk. Sono curiosissima di vedere questa città che immagino orribile, per i nostri canoni, ma assolutamente affascinante. E’ un prodotto dell’architettura sovietica post bellica, poiché, ridotta in macerie nel ’45, è stata rimessa in piedi con l’idea di farne la città socialista ideale. Un mostro di vialoni e cemento, statue, colonne, bandiere. Un mostro meraviglioso. E poi c’è il Topo-colosso!





1 commento:

  1. solo una cosa....complimenti per tutto! ciao da Bareggio!!!! buon proseguimento

    roberto

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