La Signora omaggia Copernico
Erano guizzo di luce nel mare, erano scheggia di sole e
frammento di gelida luna. Erano schiuma salata e danza sinuosa, acqua
nell’acqua, senza attriti, piene di grazia. Le due sirene sorelle, bellissime,
abitavano un tempo le spiagge e gli abissi del Baltico. Un giorno si
separarono, e quell’addio fu per sempre. Una si fermò su uno scoglio di
Copenhagen, e divenne pietra; l’altra, Sawa il suo nome, si fece sedurre dalla
corrente di un fiume. E nuotò a lungo, tra quei flutti opachi, nuotò per
giorni, fino a trovare una spiaggia tanto bella che decise di riposar visi un
poco. Ma di quel cielo d’azzurro acquarello e di quella terra chiara, quasi
bianca, si innamorò a tal punto da non andarsene più. Cantava con la sua voce
meravigliosa, cantava nel vento e nella risacca. Presto vennero i pescatori e
rimasero abbagliati dalla bellezza di quel prodigio, mostro meraviglioso, donna
dalla coda di pesce; la sua voce faceva persino dimenticare loro di occuparsi
delle reti e delle barche, ammaliava tutti, stregava i cuori con malinconica
dolcezza. Il mercante, che assisteva al prodigio con occhi obliqui, se ne
accorse; e subito si vide più ricco del duca. Una notte, con l’inganno, catturò
la sirena e la rinchiuse in una baracca di legno, lontana dall’acqua. E lì la
lasciò in prigionia, in attesa di combinare un affare lucroso. Ma Sawa
piangeva, piangeva e mescolava alle lacrime il canto. Quella melodia di
tristezza intenerì a tal punto i pescatori che, tutti insieme, decisero di
liberarla e ricondurla al fiume. Così accadde, grazie anche al coraggioso Wars,
ragazzo forse segretamente innamorato della sirena, forse solo spinto dalla
fede nella libertà (che, con il sangue, i cittadini di Varsavia avrebbero
ribadito, secoli dopo). Wars e Sawa tornarono all’acqua, e, come segno di
riconoscenza, la donna-pesce promise protezione a tutti i pescatori, in caso di
pericolo.
Ma il suo scudo e la sua spada non sono bastati.
Varsavia, oltre al guizzo luminoso della coda, bagliore di
tetti d’oro e torri bianchissime, ha dovuto apprendere l’arte del volo, della
cenere e del fuoco.
E’ stata costretta a diventar fenice. A risorgere, pietra
dopo pietra, da un cimitero di macerie e cadaveri.
Era il 2 ottobre 1944. Per due mesi l’Esercito nazionale era
riuscito a tenere testa ai nazisti, in una lotta di resistenza condotta casa
per casa, con un furore d’amore e rabbia che sembrava potesse travolgere
l’ormai debole Germania. Ma la storia non tiene mai conto del coraggio. L’Armata
rossa stazionava da tempo sulla riva destra della Vistola, ma non aveva fatto
nulla per aiutare gli insorti, abbandonati a loro stessi e sempre più in
difficoltà. Era il 2 ottobre 1944. Viene siglata la resa, gli insorti non hanno
più mezzi per proseguire la battaglia.
Militari e civili, quasi mezzo milione,
vengono deportati come prigionieri di guerra. Ne torneranno ben pochi a casa.
Himmler diffonde il comunicato, dettato dalla follia di Hitler in persona: “Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare
prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per
l'intera Europa”. Le SS provvedono. I russi restano ad osservare, forse
compiaciuti, sull’altra sponda del fiume. Tutta la città salta in aria, minata
alle fondamenta con quella precisione disumana che i tedeschi hanno dimostrato
in più di un’occasione. Dopo le esplosioni, un silenzio irreale. Macerie, fumo.
Muri anneriti. Nessuno per le strade, solo ombre. Solo fantasmi.
Ed ecco il guizzo
colorato, di nuovo. La fenice che dispiega le ali e risorge dalle proprie
ceneri.
E’ stato
ricostruito tutto. Muro dopo muro. Strada dopo strada. E, per ridare alla città
il suo volto originario di Parigi del nord, sono stati usati i quadri del
veneziano Bernardo Bellotto, detto Canaletto, che, nel ‘700, aveva dipinto
alcune vedute di Varsavia.
Ma all’antico si è mescolato quel che allora era il
moderno: il realismo socialista, con la sua pesante geometria di cemento. Erano
gli anni ’50, anni di Repubblica popolare, di pressione sovietica. Ma ancora
non era tutto. Oggi nella skyline svettano palazzi ultramoderni, che aprono gli
spazi degli immensi viali anche in verticale.
E’ questa la
Varsavia della mia prima impressione.
Ci sono arrivata ieri
mattina dopo 80km un po’ più lunghi di quel che sperassi. Vento, qualche
acquazzone e gli interminabili frutteti, nonché il traffico vacanziero e le
strade sconnesse, han reso faticoso l’arrivo.
Ma che meraviglia trovarsi
spalancata davanti agli occhi tanta bellezza, tutta insieme, nuova in ogni suo
spigolo di colore. Bella di una bellezza iperborea, di un orgoglio luminoso che
non si è mai piegato, nemmeno di fronte alle più buie pagine della nostra
storia.
Passerò qui il
Ferragosto, e ne sono felice. Tra musei, musica e gelati futuristici. E questi
tramonti sempre più orientali, che non aspettano la malinconia di nessuno. Accadono,
rapidi, ed è già notte.
Ed ora facce e cose un po' lacche:
Una nota sull’ostello:
sono all’Oki Doki Hostel, una sorta di comune semiautogestita. Dagli anni ’60 accoglie
ragazzi da tutto il mondo nelle sue stanze d’autore. Ogni camera è dipinta e
arredata secondo un tema, “contro il dilagante conformismo”. E’ un bel posto,
centrale e pieno di umanità in transito, ha prezzi da cortina di ferro e tutto
quel che serve.
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