lunedì 15 agosto 2016

Quindicesima tappa: Varsavia!






La Signora omaggia Copernico






Erano guizzo di luce nel mare, erano scheggia di sole e frammento di gelida luna. Erano schiuma salata e danza sinuosa, acqua nell’acqua, senza attriti, piene di grazia. Le due sirene sorelle, bellissime, abitavano un tempo le spiagge e gli abissi del Baltico. Un giorno si separarono, e quell’addio fu per sempre. Una si fermò su uno scoglio di Copenhagen, e divenne pietra; l’altra, Sawa il suo nome, si fece sedurre dalla corrente di un fiume. E nuotò a lungo, tra quei flutti opachi, nuotò per giorni, fino a trovare una spiaggia tanto bella che decise di riposar visi un poco. Ma di quel cielo d’azzurro acquarello e di quella terra chiara, quasi bianca, si innamorò a tal punto da non andarsene più. Cantava con la sua voce meravigliosa, cantava nel vento e nella risacca. Presto vennero i pescatori e rimasero abbagliati dalla bellezza di quel prodigio, mostro meraviglioso, donna dalla coda di pesce; la sua voce faceva persino dimenticare loro di occuparsi delle reti e delle barche, ammaliava tutti, stregava i cuori con malinconica dolcezza. Il mercante, che assisteva al prodigio con occhi obliqui, se ne accorse; e subito si vide più ricco del duca. Una notte, con l’inganno, catturò la sirena e la rinchiuse in una baracca di legno, lontana dall’acqua. E lì la lasciò in prigionia, in attesa di combinare un affare lucroso. Ma Sawa piangeva, piangeva e mescolava alle lacrime il canto. Quella melodia di tristezza intenerì a tal punto i pescatori che, tutti insieme, decisero di liberarla e ricondurla al fiume. Così accadde, grazie anche al coraggioso Wars, ragazzo forse segretamente innamorato della sirena, forse solo spinto dalla fede nella libertà (che, con il sangue, i cittadini di Varsavia avrebbero ribadito, secoli dopo). Wars e Sawa tornarono all’acqua, e, come segno di riconoscenza, la donna-pesce promise protezione a tutti i pescatori, in caso di pericolo.




Ma il suo scudo e la sua spada non sono bastati.
Varsavia, oltre al guizzo luminoso della coda, bagliore di tetti d’oro e torri bianchissime, ha dovuto apprendere l’arte del volo, della cenere e del fuoco.
E’ stata costretta a diventar fenice. A risorgere, pietra dopo pietra, da un cimitero di macerie e cadaveri.
Era il 2 ottobre 1944. Per due mesi l’Esercito nazionale era riuscito a tenere testa ai nazisti, in una lotta di resistenza condotta casa per casa, con un furore d’amore e rabbia che sembrava potesse travolgere l’ormai debole Germania. Ma la storia non tiene mai conto del coraggio. L’Armata rossa stazionava da tempo sulla riva destra della Vistola, ma non aveva fatto nulla per aiutare gli insorti, abbandonati a loro stessi e sempre più in difficoltà. Era il 2 ottobre 1944. Viene siglata la resa, gli insorti non hanno più mezzi per proseguire la battaglia. 




Militari e civili, quasi mezzo milione, vengono deportati come prigionieri di guerra. Ne torneranno ben pochi a casa. Himmler diffonde il comunicato, dettato dalla follia di Hitler in persona: “Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per l'intera Europa”. Le SS provvedono. I russi restano ad osservare, forse compiaciuti, sull’altra sponda del fiume. Tutta la città salta in aria, minata alle fondamenta con quella precisione disumana che i tedeschi hanno dimostrato in più di un’occasione. Dopo le esplosioni, un silenzio irreale. Macerie, fumo. Muri anneriti. Nessuno per le strade, solo ombre. Solo fantasmi.







Ed ecco il guizzo colorato, di nuovo. La fenice che dispiega le ali e risorge dalle proprie ceneri.
E’ stato ricostruito tutto. Muro dopo muro. Strada dopo strada. E, per ridare alla città il suo volto originario di Parigi del nord, sono stati usati i quadri del veneziano Bernardo Bellotto, detto Canaletto, che, nel ‘700, aveva dipinto alcune vedute di Varsavia. 



























Ma all’antico si è mescolato quel che allora era il moderno: il realismo socialista, con la sua pesante geometria di cemento. Erano gli anni ’50, anni di Repubblica popolare, di pressione sovietica. Ma ancora non era tutto. Oggi nella skyline svettano palazzi ultramoderni, che aprono gli spazi degli immensi viali anche in verticale.






E’ questa la Varsavia della mia prima impressione.
Ci sono arrivata ieri mattina dopo 80km un po’ più lunghi di quel che sperassi. Vento, qualche acquazzone e gli interminabili frutteti, nonché il traffico vacanziero e le strade sconnesse, han reso faticoso l’arrivo. 









Ma che meraviglia trovarsi spalancata davanti agli occhi tanta bellezza, tutta insieme, nuova in ogni suo spigolo di colore. Bella di una bellezza iperborea, di un orgoglio luminoso che non si è mai piegato, nemmeno di fronte alle più buie pagine della nostra storia.
Passerò qui il Ferragosto, e ne sono felice. Tra musei, musica e gelati futuristici. E questi tramonti sempre più orientali, che non aspettano la malinconia di nessuno. Accadono, rapidi, ed è già notte.



Ed ora facce e cose un po' lacche:








 

Una nota sull’ostello: sono all’Oki Doki Hostel, una sorta di comune semiautogestita. Dagli anni ’60 accoglie ragazzi da tutto il mondo nelle sue stanze d’autore. Ogni camera è dipinta e arredata secondo un tema, “contro il dilagante conformismo”. E’ un bel posto, centrale e pieno di umanità in transito, ha prezzi da cortina di ferro e tutto quel che serve.







 



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