sabato 29 luglio 2017

Trentesima tappa. Pastori erranti per l'Asia e colpi di pistola per gli sposi. Da Kalachinsk a Tatarsk





Arrivederci Omsk e basso, estremo occidente della Siberia. E’ ora di girare la barra del timone a nordest, verso il cuore di questa immensa piana spazzata dai venti, sotto un cielo che non si cura di ciò che accade qua sotto, né mai lo ha fatto.
Anche l’oblast di Omsk è ormai alle spalle. Ora sono nella regione di Novosibirsk, in cui entrerò tra qualche giorno. E’ la costola di cemento e finestre, di motori e ingranaggi della Siberia. Sono saltata avanti di un’ora ancora e adesso qui sono le 10 di sera e ancora tarda il crepuscolo e la luce ormai bassissima colora di rame i profili e le ombre della strada.
Ora mi trovo a Tatarsk.
Arrivare qui è stato bello, piacevole, semplice, sotto ad un sole caldissimo che mi ha fatta diventare davvero rossa come una volpe rossa e un azzurro di luce infinita. Il vento, persino il vento, quasi a favore, al più laterale. Potesse essere sempre così, con la natura tutta dalla propria parte, e l’opera umana anche, le strade belle e appena rifatte, il traffico quasi inesistente. Un bar quando inizi ad aver sete e hai finito l’acqua, l’ostello quando non hai più troppa voglia di pedalare, per quel giorno. Tutto perfetto. 100km di puro godimento di ogni singolo respiro, ad ogni giro di pedale, e la fatica nemmeno si affaccia alla porta del cuore.
Sono partita con l’ormai solita, guadagnata calma di chi non ha nulla da dover dimostrare, di chi vive libero dalla morsa degli appuntamenti e delle scadenze e non è mai né in ritardo né in anticipo, ma sempre nel momento giusto, che dura dall’alba al tramonto. Vivo nel kairòs, nell’attimo fuggente che colgo e diventa mio per sempre. Colazione solita con aggiunta di meringhette alla vaniglia che qui vanno alla grande e via verso l’orizzonte. 



Oggi mi sono dovuta rituffare sulla superstrada, che qui però è piccina, ha due corsie e un bordino per volpi, corre tra boschi e campi e pare una provinciale poco battuta. Meglio così, molto meglio.
Nei primi 50km ho incontrato solo lui, il pastore errante per l’Asia. Essendo giorno si limitava a fissare i suoi animali e non poneva alcuna domanda alla silenziosa luna; i dubbi calano al crepuscolo insieme alle ombre.



Il resto, strada.



Alla metà esatta della tappa sono entrata nell’oblast di Novosibirsk. Da mezzogiorno è diventata l’una di pochi secondi; mi ha colpito lo stemma della regione. 



Due zibellini iracondi  e con la lingua di fuori che sostengono un karavai (pane, usato nei matrimoni e simbolo di ospitalità), su sfondo bianco, e azzurro, in piedi su una linea nera. E’ la rivisitazione dello stemma zarista per il governatorato di Siberia; in quel caso gli zibellini sostenevano una corona (lo zar), un arco e due frecce (armi tradizionali delle popolazioni locali). L’azzurro rappresenta il fiume Ob, mentre la linea nera la Transiberiana, che attraversa l’oblast da parte a parte.
Anche la seconda metà della tappa è stata un tuffo tra campi e boschi; mi hanno colpita le ampie distese gialloverdi dei girasoli: l’avreste mai detto, in Siberia?







E il numero più ampio di boschi, che rubano spazio alla steppa e alle colture (nelle fto sotto, con una mandria in transito)




Questa regione è letteralmente ricoperta di alberi; infatti la grossa parte dell’economia non è legata né all’agricoltura né all’industria, nonostante l’ampio numero di fabbriche e pure di giacimenti, ma, eccezione in Russia, al terziario. Sarà per questo che è l’oblast che vanta il maggior numero di drogati, il maggior numero di alconauti e il maggior numero di suicidi? Leggevo che tra le cause di morte non naturale si situano al primo posto i suicidi, al secondo il coma etilico finito male, al terzo gli incidenti stradali e al quarto la morte violenta per omicidio. La gente è felice da queste parti. Sarà per i salari ridicoli in questa oscena società dove il denaro compra tutto e vale più della vita.
Per fortuna questo discorso non vale per tutta la regione nel suo insieme.
Qui dove sono, ad esempio, quasi il 50% della popolazione è impegnato nel primario; si coltivano e lavorano i cereali, ci sono le spighe e i panifici, ci sono allevamenti e industrie casearie, ci sono i girasoli, la colza e i frantoi.
Poco prima di entrare in città mi sono fermata in questa isola di naufraghi della strada. Ci sono il bar-ristorante, il cesso e la chiesa. Insomma, quasi tutto. 




Era in atto un litigio tra grosso camionista e ancor più grosse cuoche in grembiule, che brandivano un pentolone gigante pieno di purè cementizio Fassa-Bortolo. La materia del contendere era proprio la qualità del piurè antisismico. Il camionista se ne è andato sconfitto dalla pervicacia delle cuoche, che sostenevano fosse buonissimo, appena fatto con le loro manine. Manine che è meglio non provocare, avrà pensato l’infelice avventore. Io me ne sono andata zitta zitta con questo tè ai frutti di bosco che è la fine del mondo, soprattutto se fa caldo, tutto è polvere e la bottiglia è uscito dritta dritta dal frigorifero.



Al che ho lasciato l’arteria principale per entrare in Tatarsk, attraversando campi coltivati e distese incolte di cespugli e canne. Questa è la skyline del paese e la sua periferia.








Prima di entrarci si incontra il vecchio insediamento di Tatarka, il primo villaggio settecentesco da cui la città, ben più recente, ha preso il nome. Mi pare superfluo specificare chi fossero i primi abitanti di queste fertili pianure, così presenti nei toponimi tutt’oggi.



Tatarsk è una di quelle città nate in concomitanza, anzi, proprio in funzione, della ferrovia transiberiana; è il 1894. Iniziano anche qui i lavori per la posa dei binari e la costruzione di una stazione. 




Arrivano operai, commercianti, immigrati in cerca di lavoro. L’insediamento si espande e diventa nodo di transito per i fiumi umani che da sempre qui si spostano da est a ovest, da nord a sud e viceversa. Sorgono un ambulatorio medico, due caserme, una chiesa e una taverna; nel 1900 un’altra chiesa, e lo zar decreta che quella debba essere considerata comunità stabile (ma non ancora città). 








Con le riforme agrarie di Stolypin vengono deportate qui centinaia di contadini, cui viene assegnato un lotto di terra di cui occuparsi e con cui campare e che, da quel momento, devono chiamare casa. 





Nel primo decennio del secolo scorso la città cresce. I quasi 5000 abitanti chiedono, con una petizione all’imperatore, che quell’insediamento venga considerato città e quindi fornito di tutti i servizi necessari: acqua, polizia, assistenza sanitaria, sedi per i commercianti, per le compagnie assicurative, banche. Nel 1911 nasce ufficialmente la città, con il suo sindaco e tutto l’apparato. Tra 1912 e 1914 si costruiscono nuove strade, e l’economia corre sul bitume e sulle rotaie e gira tra le pale dei mulini: si producono tonnellate di burro, olio, farina e pane, ma anche legname e mattoni, che vengono esportati in tutte le Russie grazie alla tenacia di alcuni abili imprenditori che fanno qui la loro fortuna. Aprono ancora nuovi negozi e ristoranti, veri e propri centri commerciali di inizio secolo, compaiono perfino due automobili, mostri lenti di ferraglia che atterriscono i contadini della zona.
Ma siamo alle porte della rivoluzione e della guerra civile. Nel ’17, fin da subito, contadini, soldati e operai si schierano con i bolscevichi, ma la città viene conquistata dai bianchi e passa sotto al controllo del governo di Kolchak. Dura poco, però. Nel ’19 l’Armata rossa riprende Tatarsk, la riperde e la riconquista. I morti, i fucilati e coloro che sono fuggiti tra i boschi e la neve, trovando morte nell’abbraccio gelido di quel bianco infinito, nemmeno si contano.





Dopo una manciata d’anni di pace, in cui fioriscono aziende agricole, fattorie e industrie, ritorna la guerra e ritornano i morti. Tantissimi, tutti gli uomini quasi. Spediti su fronti lontani a combattere una guerra non loro e mai tornati, ora nomi neri sul marmo.










Ora la città è un quieto borgo rurale. Ci sono i palazzoni orrendi, il realismo socialista, le strade piene di polvere o fango a seconda degli umori del cielo e le casette in legno dalle belle finestre


la scuola con il mulino e le sculture fatte con i copertoni



la piazza principale



gli amministratori locali, dall'aria truce e vagamente alcolica



i cartelli "Io amo Tatarsk!"

i tubi del gas






il cartello comunale in cui ci si vanta dei supermercati


il comando di polizia

i marciapiedi fiume






altri tubi del gas




Sono ospire, stasera, del Complex Neptun, un prefabbricato in lamiera grande come un palazzo, dove ho faticato a prendere alloggia per l’assoluta disorganizzazione della proprietà. 



Sta da un’altra parte rispetto alle indicazioni che si trovano su internet. La reception apre e chiude a orari imperscrutabili e trovare qualcuno da cui farsi accogliere è questione di pura fortuna. A chiamare il numero indicato, risponde una ragazza che, alla prima parola in inglese o in russo mal pronunciato, chiude la telefonata con un lapidario “Non capisco”. Diciamola tutta, entrare al Neptun è stato faticoso. Almeno quanto farsi i tre piani di scale quasi a pioli tanto son ripide con armi e bagagli. 



Ma la stanza è bella, grande, tutta mia, con la doccia e l’acqua calda, il bollitore, il frigo, la wifi. E costa 7 euro. Ho speso il doppio nel far la spesa per stasera e domattina… Praticamente mi costa più mangiare che soggiornare in hotel.





Unico problema, oltre al water microscopico e bassissimo che costringe a fare squat non richiesti, è l’acqua.
Da quando sono in Russia, ovviamente, bevo solo quella in bottiglia. In tutta la Federazione è molto inquinata e anche infestata di batteri e microrganismi cattivissimi che derivano da marciume e feci e fogna e provocano diarree nilotiche.
Ma qui l’acqua del rubinetto puzza proprio. Sa di zolfo, uova marce e discarica, tutto insieme. Non vi dico farsi la doccia nel gabbiotto chiuso in cui l’aria non circola e si levano tutti i vapori. Sembra di rovesciarsi in testa un secchio dell’umido dimenticato per qualche settimana al sole.
Ah, Russia, Russia, magari inquinare meno e gestire meglio i rifiuti, magari fare la differenziata e non buttare tutto in campi recintati dove si creano montagne di spazzatura, magari controllare emissioni e scarichi delle industrie e delle auto… Magari rispettare l’ambiente un pochino di più ti eviterebbe di avvelenarti con le tue stesse mani.

Ora, nel locale qui accanto, in foto a destra, 



è in corso un matrimonio (fin da quando sono arrivata; si noti l'auto degli sposi con le fedi e i cuori sul tetto). 



Musica che spazia da Volare al neomelodico russo, da Albano al Gangam Style. Ogni tanto il volume viene abbassato e qualcuno prende il microfono e inizia a incitare: “Vod-ka! Vod-ka! Vod-ka!”. Poi è venuto il momento dei fuochi d’artificio artigianali sulla strada, e da lì si è passati ai colpi di pistola in aria. Gatto nero, gatto bianco può accompagnare solo.

A proposito. Vi presento Kapitan Nord. 



E’ il Capitan Findus sovietico. Ha militato in marina, è stato sul Baltico e sul Mar Nero. Del Findus, quello yankee belloccio e brizzolato, fa polpette, impastandolo con granchio e maionese, in due minuti.




2 commenti:

  1. Mi hai fatto sorridere quando hai detto del pastore errante per l'Asia...Quanto stupore per le enormi distese di girasole in Siberia! Che tristezza, però, la poca sicurezza ambientale (esempio lampante i tubi del gas) e igienica! Buon pomeriggio. Sila

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